Casa dei Babri sul colle Palatino

I Babri al completo erano presenti nella domus del Palatino per conoscere le ultime volontà di Fastia, anche se l’atmosfera che si respirava era simile non tanto alla letizia di una riunione familiare, quanto alla tensione che precedeva i duelli dei gladiatori nell’arena.

«Sei gentile a presenziare alla lettura del testamento» disse Sofia aggrottando le sopracciglia quel minimo che bastava per esprimere un accenno di ansia senza sciuparne la linea squisita.

«Comunque non dovrebbero esserci problemi» osservò Aurelio.

«In effetti, prima del ritorno di Lucio mio marito sarebbe stato di certo l’unico erede, ma adesso... nessuno ci garantisce che Fastia non abbia modificato all’ultimo istante le sue disposizioni: Lucio le piaceva molto. A tutti piace molto» dichiarò lei, con un pizzico di disappunto nella voce.

«A te no?» domandò il patrizio dubbioso.

«Anche a me. Come si farebbe ad affermare il contrario? È allegro, faceto, attraente...» disse Sofia in tono piuttosto acido, e ad Aurelio parve di vedere una fanciulla presa anima e corpo dal primo amore, che aspetta e aspetta, finché non si rende conto che il suo diletto ha scelto di arruolarsi anziché restare al suo fianco, le ha preferito l’azzardo, il pericolo e la guerra, da giocatore quale è sempre stato. Poi l’orribile sentenza: disperso, scomparso, quasi certamente morto. Intanto Quinto è gentile e ha gli occhi buoni. Sarà un bravo marito, si occuperà della famiglia, non correrà alla pari di Lucio nelle brume del Nord dietro a barbari nudi, biondi come lui, come lui indifferenti a ciò che si lasciano alle spalle: anche Quinto è bello, ma di una bellezza solida e non sfrontata, che non ha bisogno di esibirsi e di affermarsi a tutti i costi. E nel frattempo suo padre briga, incalza, insiste, vuole imparentarsi a tutti i costi con l’amico Babrio: un matrimonio ci sarà ugualmente. E lei indossa il flammeum rosso delle spose, e acconcia i capelli nell’antico tutulus col diadema della nonna, e viene sollevata sulla soglia della nuova casa, che non abbia a inciampare, per carità, sarebbe di cattivo augurio...

«Eravamo felici senza di lui» si lasciò sfuggire in un soffio Sofia. Una vita serena, fatta di piccole e grandi soddisfazioni matronali, lo sposo devoto, i figli che crescono sani e al sicuro, i servi da dirigere, sempre più numerosi perché nonna e nipote sono accorti amministratori e la famiglia ha finalmente ricominciato a prosperare. Ma a un tratto, su questo ammirevole affresco domestico, su questo quadro perfetto in ogni sua pennellata, si fionda come un sasso nello stagno il fuggiasco, il redivivo, il perturbatore della quiete, cominciando a rimescolare forme e colori con la sua prorompente energia, vivo e vero, fatto di carne e di sangue. E forse la carne e il sangue della bella Sofia sono tentati di rispondere...

«Da quando c’è suo fratello, Quinto non è più lo stesso, si è fatto chiuso, come se si sentisse schiacciato dalla responsabilità.»

La responsabilità e la paura, rifletté Aurelio. Che la sua donna possa soccombere ad antichi ricordi e a nuove passioni, che i figli guardino con sconfinata ammirazione lo zio audace trascurando un padre severo e prudente, che la nonna ci ripensi e perdoni il prodigo, a scapito di chi ha fatto fino in fondo il suo dovere.

«Non si confida più con me come un tempo, mi parla appena, come se fossi un’estranea» deplorò ancora Sofia, tanto preoccupata per le sorti del marito da arrivare a chiedere esplicitamente il conforto del senatore, avvicinandosi a lui ben oltre la soglia di sicurezza.

Aurelio non mancò di rallegrarsene, dato che solidarizzare con le signore in difficoltà era la sua occupazione favorita, preferibile persino a una proficua indagine su un cadavere ammazzato con qualche metodo elegante e fantasioso.

Ma se Quinto avesse avuto ragione? Se il fatuo Lucio avesse subdolamente manovrato per fargli le scarpe? Se avesse brigato sotto sotto per alienargli il favore della nonna, la simpatia dei figli e l’amore di una donna leggiadra, il cui corpo vibrante, che irradiava seduzione da tutti i pori, esigeva forse qualcosa di più della totale affidabilità, almeno stante il modo sinuoso con cui si appoggiava a lui in quel momento?

Quelli erano fattori da approfondire e il modo più opportuno era senza dubbio quello di accrescere la conoscenza della bella Sofia, a cominciare da subito, senza por tempo in mezzo, si ripromise il patrizio cingendola con le braccia senza trovare alcuna resistenza.

Cingendola con il solo braccio destro, a dire il vero, perché proprio quando il sinistro stava per posizionarsi nel punto giusto, con la mano prossima al seno marmoreo, la porta si spalancò di colpo e il perturbatore della quiete irruppe nella stanza.

«Vedo che la tua fulgida bellezza ha trovato un altro estimatore, cognata! Siamo in molti a sospirare per te, ma certo non tutti sediamo in Curia» commentò in un tono che riusciva a essere nel contempo lieve e velenoso.

«Lucio, ti sembra il momento di scherzare?» lo redarguì la bella, arrossendo.

«È sempre il momento di scherzare, cara Sofia, come mi sono sforzato invano di insegnare per anni al mio triste fratello» la interruppe lui, passandosi la mano sulla fronte per gettare indietro i capelli lisci, appena un po’ troppo lunghi per un uomo fatto.

«A differenza di te, lui è già cresciuto» sibilò la cognata.

«No, è nato vecchio. Ma tu hai di che consolarti, il nostro nuovo amico e io siamo entrambi ai tuoi piedi, non ti resta che scegliere» rise sonoramente Lucio.

«Molto spiritoso» disse gelida Sofia e si avviò alla porta, raccogliendo con un unico gesto austero le falde della sopravveste azzurra e la dignità ferita. Ma per quanto si premurasse di mostrarsi sostenuta, per quanto rigidamente cercasse di atteggiarsi, ben diverso era il messaggio che trasmetteva il movimento armonioso delle anche, simile all’ondeggiare ritmico e fin troppo evocativo del flutto marino che sale verso un crinale candido di spuma effervescente. Qualunque maschio in età riproduttiva sarebbe rimasto incantato da quell’ammaliante movenza: Aurelio e Lucio mossero infatti le iridi all’unisono, per poi guardarsi reciprocamente in cagnesco, come faine risolute a depredare lo stesso pollaio.

«Tanta grazia dei Numi riservata al solo Quinto!» sdrammatizzò il primogenito dei Babri non appena Sofia fu uscita. «Pensare che in altri tempi sono stato fidanzato con lei! Ma il destino ha voluto altrimenti...»

«Già. Le foreste inaccessibili, gli impervi dirupi, i pericoli incombenti, i feroci selvaggi, le sevizie e i serrati interrogatori dei colossi germani dalla lunga spatha...» affermò il patrizio, e poiché delle mirabolanti avventure millantate da Lucio poco si fidava, pensò bene di tendergli un altro tranello, citando una leggenda udita da un mercante di Tara, nella lontana isola di Hibernia, che nulla aveva a che fare col fronte del Reno, dove Lucio asseriva di aver combattuto: Fragarach, la chiamano quella spada, ovvero “colei che dà le risposte”. Un’arma magica, che impedirebbe di mentire ai nemici a cui viene puntata alla gola.»

L’altro esitò, forse fiutando la trappola. Ma chi è avvezzo a ingigantire storie favolose difficilmente riesce a esimersene, interrompendosi in tempo: inventare, ridipingere, amplificare, manipolare la realtà e stravolgerla in modo da renderla più inconsueta ed eroica alle orecchie di chi ascolta diventa spesso un abito irrinunciabile, un costume arduo da dimettere persino davanti al rischio.

Infatti Lucio abboccò. «Be’, con me non ha funzionato, nessuno si è accorto che stavo fornendo informazioni false» si risolse a rispondere, confermando in pieno i sospetti del senatore. Dunque il primogenito dei Babri era stato veramente in Mesia e in Tracia, ma sul Settentrione ricamava di fantasia, si annotò Aurelio. E, in ogni caso, sette anni prima si trovava senza dubbio a Roma, a meno che il bravo Cicurio non avesse preso un granchio colossale.

«Nervoso?» chiese allora per stuzzicare il suo interlocutore. Malgrado ostentasse la solita sicurezza, Lucio appariva un po’ meno disinvolto, quella mattina: non era da lui tormentarsi con le dita le falde della toga, né voltarsi troppo spesso verso l’ingresso da cui sarebbe entrato il messo della Virgo Maxima col testamento della nonna.

«Un minimo sì» ammise con un sorriso complice. «Non è piacevole dipendere in tutto e per tutto dagli altri, anche se sono tuoi parenti prossimi. Spero che la teta ne abbia tenuto conto, consentendomi un po’ di autonomia. In caso contrario, pazienza, mi sono sempre arrangiato e continuerò a farlo!»

Probabilmente Lucio sperava in qualcosa di più di una minima rendita, rifletté il patrizio, osservando la tensione dei muscoli del collo, l’irrequietudine dei gesti, lo spasmo delle palpebre che battevano con una frequenza eccessiva. Aveva avuto un anno per circuire la nonna, farsi perdonare le passate marachelle e provvedere a irretirla. Un anno in cui, a detta dei servi, si era industriato per mostrarsi sollecito e zelante, deliziandola con le sue celie argute e il racconto delle sue tante audacie. Salvo quando cadeva ammalata, naturalmente, perché Lucio con i malati non ci sapeva fare, e allora toccava al fratello provvedere...

«La buona sorte va e viene» commentò il senatore. «Basterebbe un colpo di fortuna per cambiare le cose, un triplo sei ai dadi, per esempio. C’è una taverna alla Suburra dove si gioca forte, All’Ercole furioso, la conosci?»

Una rapida, impercettibile ombra scura spense per un attimo il sorriso di Lucio. Un istante più tardi, il volto recuperava la consueta espressione insolente, ma lo sguardo con cui scrutava Aurelio non era dei più amichevoli: che voleva quel ficcanaso? Con quale diritto un estraneo si permetteva di inquisire e sondare, cacciando il naso in faccende che non lo riguardavano? Ah, se soltanto Quinto fosse stato meno ossequioso, meno deferente verso chiunque fosse in grado, anche alla lontana, di spianare la strada al suo prezioso figlio secchione! Ma già, l’orgoglio non era mai stato il suo forte, si disse, e, troppo teso per nascondere sotto qualche arguzia ben azzeccata il risentimento che gli covava dentro, apostrofò il fratello appena comparso sulla soglia in tono decisamente aggressivo.

«Sudi freddo, eh, fratellino? Hai paura che la nonnetta non ti abbia adeguatamente premiato per averle fatto da servo tutti questi anni? Temi forse di essere stato messo alla pari con uno scioperato?» esclamò additando la fronte lucida di Quinto, mentre si allontanava sghignazzando.

«Non fargli caso, probabilmente ha bevuto, siamo tutti molto irritabili, oggi. Ma perché il messo tarda tanto?» si scusò Quinto, cominciando a percorrere su e giù l’atrio a grandi passi, scuro in volto, le spalle ingobbite, le mani giunte dietro la schiena con le dita strette a pugno. «Lo so che cosa pensate tutti quanti: dovrei stare tranquillo» mormorò a voce bassa. «Mi sono messo al servizio di Fastia come un cane fedele, lei sapeva quanto ho lavorato, ciò che ho costruito e anche quello a cui sono stato costretto a rinunciare. Non dovrei nutrire alcun dubbio, invece ho il cuore in gola. Sì, ho paura. La nonna era una donna di ferro, ma aveva le sue debolezze. E io non sono simpatico. Affidabile, concreto, anche piuttosto accorto, me lo dico da solo senza false modestie, ma simpatico proprio no. E a un tratto mi sento atterrire dal timore che tutti i sacrifici fatti sull’altare della famiglia, del patrimonio e del buon nome non siano valsi agli occhi della mia teta quanto un sorriso sfrontato, una storiella offerta con brio, un motto spiritoso gettato lì con gradevole noncuranza.»

«Fastia non ti avrebbe mai diseredato» lo rassicurò il senatore.

«Però potrebbe aver ritenuto giusto mettermi alla pari con chi è tornato soltanto quando gli faceva comodo, intestandogli molte delle nostre proprietà» bofonchiò Quinto, stringendo le labbra.

«A proposito di proprietà, Quinto... hai per caso saputo qualcosa su quel colombario sull’Esquilino di cui ti avevo chiesto?»

«Mi sono rammentato dell’edificio» disse l’altro, che per ingraziarsi il senatore aveva scartabellato un bel po’. «Ricordo di avere avuto molti anni or sono tra le mani l’atto di proprietà, tuttavia non mi è riuscito di ritrovarlo, e questo è assai strano: l’ultima volta che la nonna se ne era occupata, una decina di anni fa, l’aveva riposto in mezzo agli altri documenti relativi alle tombe dei nostri schiavi di Roma o di Interamna, quindi non capisco proprio come possa essere scomparso. Ah, ma ecco l’inviato delle Vergini Vestali, finalmente!» esclamò, vedendo entrare nelle fauces il latore del testamento.

La casa era silenziosa, come se fosse stata investita da una tempesta che, dopo aver sferzato le tegole e fatto gemere le porte con spaventosi scricchiolii, fosse cessata all’improvviso, lasciandone gli abitanti chi a contare i danni, chi a rallegrarsi per la pioggia benefica scesa sui campi riarsi.

Quinto Babrio giaceva sul letto, sfinito per l’emozione. Unico erede del grosso del patrimonio, poteva ora dedicarsi al vero, unico sogno della sua vita: procurare alla sua stirpe una carica pubblica di prestigio che ne sancisse il ritorno tra i grandi di Roma. Per realizzarlo, contava su un figlio di eccezionali qualità e grandi speranze. Occorreva soltanto tenerlo concentrato sugli studi, evitandogli ogni negligenza e sorvegliandolo d’appresso, che non si baloccasse come tanti suoi coetanei con ancelle e cortigiane, per accettare invece di buon grado nozze proficue all’interno di una famiglia prestigiosa: i giovani non avevano discernimento nella scelta della compagna, spettava alla famiglia selezionare la moglie adatta.

Così Fastia aveva agito la prima volta nei riguardi del suo unico figlio, accaparrandogli una sposa di ottima famiglia e con una buona dote. Ma una volta rimasto vedovo dopo la nascita di Lucio, suo padre aveva voluto fare di testa sua e si era riaccasato con una donna di natali meno insigni e di mezzi limitati, quella madre poco illustre di cui lui ricordava pochissimo e che in casa non si nominava mai. E dunque ora il fratello si fregiava del soprannome di Babrio Valeriano, mentre lui era un Babrio Filinniano qualunque...

Quinto era immerso in questi pensieri quando vide la mano leggera di Sofia scostare le cortine del letto.

«Sei tranquillo, ora? Smettila di arrovellarti, ormai le cose sono andate nella direzione che speravi» lo esortò con voce sollecita.

Sì, le cose erano andate come dovevano andare fin dall’inizio, fin da prima che una sorte stravagante intervenisse a scompigliare i dadi nel barattolo, pensò Quinto. Il testamento infatti contemplava un piccolo vitalizio per Lavinia, tale da permetterle una relativa indipendenza, ma non sufficiente a garantirle altrove lo stesso tenore di vita della magione avita: stava a lei scegliere se restare o andarsene. Inoltre i servi preferiti di Fastia, Picunno e Pilunno, erano stati manomessi, anche se, con grande probabilità, sarebbero rimasti sotto il suo tetto in qualità di liberti. Tutto il resto era per lui: nelle ultime volontà di Fastia Velthinia, depositate qualche anno prima presso le Vergini Vestali, Lucio non era neppure nominato.

Dopo mesi e mesi di tensione, poteva finalmente rilassarsi, si disse, e seguì con lo sguardo la moglie che si allontanava col solito passo felpato e danzante. All’improvviso rammentò l’esultanza con cui tanti anni prima aveva appreso di esserle stato destinato in sposo al posto del fratello. Molta acqua era passata sotto i ponti da allora e il dubbio, quel dubbio stupido e assurdo che gli avvelenava la vita, continuava a roderlo: il primogenito aveva la delicatezza di tratti di Sofia, i capelli che erano stati della sua madre plebea e qualcosa nell’espressione in cui vedeva riflesso se stesso. Ma non c’era nulla di lui in Furillo, come se il suo contributo fosse stato interamente cancellato, o non fosse addirittura mai esistito, per lasciare posto soltanto alla durezza di lineamenti della teta e di quell’orribile individuo, losco e sanguinario, che non chiamavano Avvoltoio soltanto per via del nome etrusco – nomen omen – ma anche per ragioni molto meno lodevoli. Un uomo senza scrupoli, un bruto insensibile, un macellaio in guerra come in pace, pensò Quinto, che negli anni aveva rielaborato a suo modo i resoconti laudatori della nonna sulle imprese belliche del fratello eroe. E Furillo pareva assomigliare solo a lui, nei tratti forti del viso, nella mascella volitiva, nel carattere ostico.

Di nuovo il dubbio gli provocò un nodo allo stomaco. Non doveva pensarci. E non doveva pensare al modo con cui Sofia aveva guardato il senatore nel congedarlo e a che cosa gli aveva mormorato all’orecchio sulla soglia di casa. Ma ci pensava ugualmente e questo lo faceva star male, riconobbe un attimo prima che la tensione lo abbandonasse, facendolo sprofondare nel sonno.

«Ci pensi, siamo liberi adesso! Possiamo fare quello che ci pare, dormire tutto il giorno, mangiare a crepapelle, oziare alle terme...»

«Terme? Con quali soldi, Pilunno?» domandò il fratello ripetitivo, senza condividere il suo entusiasmo. «La nostra vita non cambierà affatto, anzi potrebbe addirittura peggiorare. La prospettiva è quella di restare in casa dei Babri come liberti anziché come schiavi, e lavorare duramente in cambio di un salario da fame.»

Come al solito Picunno aveva ragione, pensò l’altro ammirato. Era nato pochi istanti dopo di lui, deboluccio alquanto, ma che testa, che testa quel ragazzo! C’era di che compensare il fisico, più minuto del suo, per quanto a un occhio poco esercitato potessero sembrare identici. Certo, era poco loquace, se non con lui, in privato: era in quei momenti che dispiegava tutta la sua potenza mentale, mettendolo a parte delle profonde riflessioni elaborate mentre taceva. Grazie alla sua avvedutezza, erano sopravvissuti egregiamente da schiavi nella casa di Fastia: «È la vecchia che conta» aveva capito subito Picunno. «Se entriamo nelle sue grazie è fatta.» Una devozione infinita ricompensata dalla padrona con certi piccoli favori: una palla di pezza quando erano bambini – e la kyria si divertiva a vederli ruzzare al suo inseguimento come cuccioli giocosi –, niente lavori troppo pesanti, una giornata libera ogni tanto, gli avanzi di una buona cena, un filo in più di cortesia nel tono imperioso con cui impartiva gli ordini al resto della servitù, il diritto di dormire nel corridoio presso la porta della sua stanza, quello di ascoltare da dietro una tenda le lezioni del pedagogo che insegnava a leggere a Quinto il giovane. A dire il vero Picunno, col suo cervello fino, aveva imparato davvero, lui invece no, ma che importava? Dov’era l’uno era l’altro, loro due erano un tutto unico...

«Già, gli spiccioli del senatore non dureranno a lungo, anche se ne abbiamo ottenuto qualcuno in più raccontandogli di come Lucio abbia messo a soqquadro la stanza della nonna, la notte dopo la sua morte. Cercava senza dubbio qualcosa, magari proprio la chiave che avevi raccolto dal pavimento tu quel mattino...»

«Il mattino in cui la kyria è morta! E ricordi com’era brutta, là sul letto funebre?»

«Be’, bella la kyria non è mai stata» affermò Pilunno. «Assomigliava al fratello, lo stesso naso adunco, la stessa mascella sporgente.»

«Brutta per essere appena morta, intendevo, tutta scura e rigonfia. E ti sei chiesto come mai il senatore volesse sapere che cosa aveva mangiato, quasi come sospettasse...»

«Piano, piano, queste sono cose che non ci riguardano, noi non si è pettegoli» mise in chiaro il fratello.

«Non si è pettegoli, ma gli occhi per vedere ce li abbiamo, Pilunno, quindi credo che dovremmo approfittare di tutte queste strane circostanze per mirare a qualcosa di più di qualche asse. Rammenti quanto si viveva in ristrettezze, anni fa? Gli schiavi erano pochi, le razioni ridotte all’osso, gli intonaci stinti, come bagno padronale c’era soltanto un bugigattolo e per i servi una latrina lercia, in fondo al cortile.»

«Eh, sì! La kyria Fastia era andata sposa con una dote esigua, perché la sua famiglia doveva far fronte alle forti spese dell’Avvoltoio, che aveva mire politiche. Anche allora però, sebbene non navigasse nell’oro, la padrona permise che fossimo allevati in casa, anziché mandarci al mercato col cartellino al collo» rammentò Pilunno in un afflato di riconoscenza. «Con noi fu molto buona.»

«Buona sì, ma aveva la sua convenienza. Di qualcuno doveva pur fidarsi» specificò il gemello riflessivo.

«Sicuro, noi non si va a raccontare in giro i fatti dei padroni! Per questo Fastia ci aveva anche assegnato un piccolo salario, quando le cose avevano cominciato ad andare meglio.»

«Meglio, molto meglio: la casa, sebbene sia rimasta un po’ dimessa all’esterno, dentro venne restaurata, mentre si provvedeva ad assumere nuovi domestici. E di chi fu il merito?»

«Della kyria» rispose Pilunno, senza capire dove il fratello volesse andare a parare.

«La kyria, appunto, che ha pensato a tutto. Ma la domanda che dobbiamo porci è: come ha fatto? Quando esattamente sono cominciate a cambiare le cose?»

«Fu subito dopo il viaggio: la nostra bella avventura, quella che al senatore non abbiamo riferito, perché noi non si è pettegoli: che bei giorni furono quelli! Rammenti quanto eravamo emozionati di fingerci i figli della padrona, Picunno? E tutte le cose stupende che vedevamo stando a cassetta, i boschi, i ruscelli, le colline, le greggi! Però la notte sul carro, in aperta campagna, mentre facevamo la guardia a turno, io avevo una gran paura, con quei versi spaventosi: guaiti, latrati, grufolii, pispigli, e tutte quelle stelle che parevano caderci addosso da un momento all’altro.»

Il fratello annuì, sorridendo al ricordo.

«Poi, quando la kyria andò nel bosco e ci ordinò di aspettarla, tu la seguisti malgrado io facessi di tutto per trattenerti: sei sempre stato di poche parole e di molti fatti, Picunno! Mi dicesti allora che si era diretta a una grotta... a distanza di tanto tempo sapresti ritrovarla?» chiese Pilunno, sorpreso della propria audacia.

Ancora un gesto di assenso.

«Perché non lo diciamo al senatore? Forse è interessato ad andare laggiù, e ci darebbe un bel po’ di soldi se gli facessimo da guida.»

«Una mancia non ci cambierebbe la vita» scosse la testa il gemello. «Però adesso noi siamo liberi e abbiamo una chiave, che potrebbe anche aprire uno scrigno!»

«Uhhh, non starai parlando del tesoro dell’Avvoltoio, quello di cui si è sempre favoleggiato! Dicevano tutti che si trattava soltanto di una leggenda, ma se esistesse davvero? Se Fastia l’avesse trovato nella grotta? Potremmo andare noi a cercarlo, è questo che intendi?» mormorò Pilunno, che non si sarebbe mai deciso a formulare una proposta tanto ardita, senza avere la certezza che fosse già stata elaborata dalla mente fervida del gemello.

Picunno annuì di nuovo, con tanta foga che la zazzera fluttuò, scoprendogli per un istante gli occhi vispi. Occhi che parlavano silenziosamente, perché tra gemelli non servono tante parole, e dicevano: dobbiamo provarci, sono quasi tre decenni che ripetiamo gli stessi gesti, servire a tavola, portare la biancheria alla fullonica, preparare il letto, vuotare il pitale, accendere il braciere, far vento col flabello, vegliare attenti al suono del tintinnabolo, pronti a correre quando si richiede il nostro servizio. Per una volta tentiamo qualcosa di diverso, andiamo a caccia di tesori, torniamo laggiù dove è cominciata la buona sorte della padrona, chissà che non ci sia rimasto qualcosa.

«Quando?» chiese il fratello con sguardo rapito.

«Il più presto possibile» rispose l’altro evitando, per una volta tanto, di ripetersi.

«I Numi ti siano vicini, Picunno, come lo sarò io, per sempre!» esclamò Pilunno eccitato, e cominciò a sognare la volta celeste, con gli astri scintillanti e la luminosa scia argentea che una goccia del latte sfuggito al seno divino di Hera aveva disseminato in cielo. Non aveva più nessuna ansia: accanto a suo fratello era capace di qualunque cosa...

Chi possiede poco non ci mette molto a prepararsi: pochi gesti e i due erano pronti.

«Ce ne andiamo davvero, Picunno? Non riesco a crederci: siamo sempre stati qui. Abbiamo visto tanto poco finora!»

«Finora. Ma adesso cambia tutto» replicò l’altro, deciso. «Hai pregato gli Dei?»

«Sì. Ho chiesto che non ci separino mai.»

«Mai!» confermò l’altro, mettendosi la mano sul cuore.

«Di’, ma basterà la roba che abbiamo preso con noi?» chiese incerto Pilunno indicando i due fagotti da portare in spalla, ciascuno appeso a un robusto bastone da pellegrino. «È un lungo viaggio... niente più noia, niente più meschine punizioni... conquisteremo il mondo!»

«Il mondo intero!» ripeté Picunno e i due si diressero insieme all’uscita sul retro, entrambi con in testa un cappello a tesa larga per difendersi dal sole e dalla pioggia, entrambi con una coperta bruna avvolta addosso a mo’ di mantello. Da una parte la casa, l’utero confortevole e sicuro col suo angusto orizzonte fatto di corridoi servili, di volti noti, di gesti consueti. Dall’altra la strada, foriera di speranze e di promesse.

Aurelio osservò il muro di cinta. Non era affatto più alto di quelli che scalava nottetempo da giovanissimo per seguire la sua vocazione consolatoria nei confronti delle belle matrone mal maritate. Il dubbio che la sua antica agilità potesse aver un po’ risentito del fatidico passaggio della quarantina non lo sfiorò neppure da lontano.

Il cuore gli era balzato in petto quando Sofia gli si era avvicinata per dargli appuntamento poche ore prima, mormorandogli all’orecchio: «Adesso Quinto è in pace, ha avuto ciò che voleva e meritava. Ma a me, la vita deve ancora qualcosa».

Dunque quegli sguardi rapidi non erano stati male interpretati, dunque non era caduto in errore attribuendo una precisa valenza ai messaggi che il corpo languido della bella trasmetteva senza sosta, pensava il patrizio, e alzando gli occhi verso la nuvola che velava la luna vi scorse i fianchi ben torniti di un’allettante immagine muliebre, il profilo di un seno, l’ombra scura dell’inguine spavaldamente offerto. Be’, forse stava esagerando con la fantasia, altri magari avrebbero visto nei boccoli gonfi della nube la sagoma di un leone rampante, o il contorno di un velocista che scattava nello stadio di Olympia, o la gota di un bambinello paffuto. Lui però ci vedeva ancora una femmina impudica, proprio come quando era un adolescente facilmente eccitabile, pensò, chiedendosi che cosa sarebbe stato della sua vita il giorno in cui non avesse più sentito un tuffo dentro ascoltando l’invito di una bella donna, non avesse scorto forme invereconde nelle nuvole e i muri gli fossero sembrati tutti troppo alti. Allora sarebbe diventato davvero un filosofo, capace di pascersi della serenità epicurea senza più essere turbato da passioni, desideri e timori. Ma quel giorno, per fortuna, era ancora molto lontano e il muretto che circondava la domus dei Babri pareva davvero alla portata delle sue forze. Pochi istanti e il senatore, furtivo come un tagliaborse al mercato, si lasciava cadere dall’altra parte.

Aurelio vide il sandalo di bronzo, nitido al bagliore della lucerna, soffermarsi un istante sulla soglia.

Subito dopo Sofia attraversava il cortile con la sua andatura lievemente ancheggiante. Sontuosa, magnifica, regale. Veniva veramente per lui?, si chiese dando spazio per un attimo alla sua parte più cauta, quella che di solito tacitava in fretta ogniqualvolta compariva all’orizzonte una donna appetibile. Non era stato troppo azzardato, da parte della moglie di Quinto, dargli appuntamento quasi sotto il naso del marito? E se si fosse trattato di una trappola? Il sospetto durò soltanto pochi attimi, annegato subito dall’impazienza di tenerla tra le braccia: non vi furono indugi quando strinse a sé il corpo fremente, le mani sottili che gli frugavano sotto la tunica, il viso finissimo contratto da una sferzata di desiderio.

«Oh, tu non sai, nessuno di voi sa! Non capite, ci credete di un’altra razza, invece siamo fatte come voi, esattamente come voi. Gli uomini si gloriano di prenderci con le lusinghe, talvolta con l’inganno. E noi a fingere, a dissimulare, a nasconderci, come se fossimo non donne, ma statue di marmo!»

«Io non chiedo nulla, né amore, né fedeltà, né devozione.»

«Lo so, per questo ti ho scelto» fece lei con una specie di rantolo, mentre gli si avvinghiava addosso.

Numi, quanto erano morbidi quei capelli!, pensò Aurelio affondandovi le mani, mentre scivolava a terra prendendola sopra, in segno di resa, più che di conquista. Fu allora che all’improvviso gli vennero in mente le tre vecchie che gli avevano lanciato il malocchio: fesserie per babbei, bubbole per gonzi, panzane per babbalocchi, si disse il senatore, avvertendo ciononostante un piccolo brivido freddo giù per la schiena.

Nessuno tuttavia, né mortale né immortale, avrebbe mai saputo se la leggendaria virilità del senatore fosse destinata a soccombere al terribile anatema delle fattucchiere o resistesse impavida anche ai malefici e alle stregonerie, perché proprio in quel momento la porta si aprì e qualcuno comparve nel cortile, il lume in mano.

Un’imboscata!, pensò subito Aurelio irrigidendosi. E lui, da stolto attirato con un’esca succosa, era cascato nel trabocchetto come un giovincello alle prime armi. Che cosa gli avrebbe chiesto Quinto, per soffocare lo scandalo? A quali scopi reconditi aveva mandato la moglie a sedurlo, in modo da coglierlo in fallo?

L’ombra che si stagliava dietro il lume, però, pareva troppo minuta per la corporatura robusta dello sposo tradito. Senza dubbio si trattava del moccioso, proprio adesso doveva svegliarsi!

«Mamma? Sei qui, mamma?» scandì una voce molto meno acuta di quella, ancora sottile, di Furillo. Una voce il cui timbro stava cambiando, ma conservava negli accenti tutta l’immaturità di un bambino...

Sofia soffocò un singulto: nell’istante in cui aveva creduto di sfuggirle, la sua sorte di donna e di madre l’aveva brutalmente riafferrata.

«No, no, no!» mormorò amara, mentre rispondeva con voce rassicurante: «Figlio, perché mai non dormi? Torna a letto, arrivo subito». Poi con un lungo sospiro scivolò via dalle braccia dell’amante per rialzarsi in gran fretta e scomparire sollecita al di là della porta.

Aurelio, frustrato ed eccitato al tempo stesso, si passò il pollice sulla punta delle dita per rammentare la mollezza della chioma di seta e aspirò a pieni polmoni il profumo di donna che ancora aleggiava nell’aria, chiedendosi se ci sarebbe mai stata un’altra occasione.

«Dannatissimo mammone guastafeste!» imprecava tra i denti un istante più tardi, e se mai aveva albergato in lui un pizzico di lontana simpatia per il ragazzo destinato a diventare un novello Cicerone, gli evaporò all’istante come neve al sole.

Non era quindi del suo umore più allegro quando, superato di nuovo il muro di cinta, trovò Lucio ad attenderlo.

«E bravo il nostro senatore! Tanto caro, tanto amico, tanto corretto, se non fosse per quella sua cattiva abitudine di pucciare nel piatto altrui» sibilò il primogenito dei Babri. «Una pacca sulla spalla al marito e poi via, a godersi la moglie! È il passatempo preferito del nobile Publio Aurelio Stazio, quando non trova cadaveri a disposizione: noi potevamo offrirti soltanto una poveretta morta di vecchiaia, ma c’era in giro una bella femmina, quindi...»

«Due» lo corresse il senatore, sostenendo tranquillamente il suo sguardo.

«Come due? Ah, non parlerai dell’oscura piccola Lavinia, vero?» chiese Lucio gelido. «Non certo dopo aver messo le mani su un boccone da re. E dubito che ti saresti limitato alle mani, se non fosse arrivato il piagnucolone... dico io, ma come fa mio fratello a essere tanto grullo da non accorgersi della tresca che stai tessendo alle sue spalle? Oh, non preoccuparti, non sarò certo io a metterlo in guardia: l’erede è lui, se la badi da solo quella fraschetta di Sofia. Per quanto mi riguarda, mia cognata è a disposizione del primo che passa!» esclamò, mettendo in chiaro quanto poco lo inquietassero sia la bella di casa, sia l’onore della famiglia.

Il livore di Lucio per la grande delusione era palpabile: nell’eredità ci aveva sperato e tanto, comprese Aurelio. In base a quali elementi? Che cosa gli aveva promesso la nonna, mentre lui la allietava con la sua brillante compagnia, e perché invece l’aveva lasciato a becco asciutto? E nell’improvviso voltafaccia di Fastia c’entrava forse qualcosa la sottrazione dell’atto di proprietà della tomba sull’Esquilino?, si chiese il patrizio.

Era evidente come Lucio avesse confidato davvero in un futuro finanziariamente più roseo... ma se un uomo come lui fosse stato fermamente convinto di comparire nel testamento, l’ostacolo di una vecchia malata sarebbe stato sufficiente a fermarlo?

«Che farai ora?» domandò Aurelio.

«Chissà, forse mi metterò a cercare il tesoro di cui favoleggiano i nostri servi: a questo punto mi farebbe davvero comodo, ah ah ah ah!» rise verde Lucio, prima di cambiare tono per farsi piuttosto aggressivo. «Ma tu piantala di impicciarti dei fatti nostri. Sofia non tornerà indietro e qui non ci sono delitti misteriosi con cui sollazzarsi!»

«Ne sei proprio sicuro? Eppure, quando il cadavere di Fastia Velthinia è stato esposto per il funerale i segni della decomposizione c’erano già tutti, quasi fossero insorti molto in fretta. Troppo in fretta, a dire il vero.»

«Che cosa intendi?» mormorò Lucio, e sebbene il buio gli celasse il viso, Aurelio fu certo che fosse sbiancato come un panno esposto a parecchie fumigazioni di zolfo.

«A me piacciono i mosaici in cui tutti i tasselli vanno a posto, soprattutto nei casi di fini improvvise e inspiegabili. Qui invece ci sono molte domande senza risposta: a che cosa erano dovuti i lamenti strazianti uditi più volte nella vostra casa prima della malattia della teta? Perché alcune sue vesti bagnate erano tra la biancheria da portare alla fullonica il mattino della sua morte? Quanto contavi tu, Lucio, di mettere le mani sul patrimonio e quanto invece ci faceva affidamento il tuo fratello minore?»

«Vieni in casa nostra, ci rubi le nostre donne, poi ci accusi? Stai attento a non ripetere in pubblico questa maligna insinuazione, o ci penserò io a fermarti, visto che quello smidollato di mio fratello non ne avrebbe mai il coraggio. C’è ancora chi tra i Babri ha abbastanza senso dell’onore da trascinarti in tribunale, Publio Aurelio, e, se non bastasse, da sguainare il gladio davanti a quella tua intollerabile faccia supponente. Vattene dunque, o chiamo i guardiani e spiffero tutto delle tue gloriose imprese amatorie!» abbaiò Lucio con voce strozzata.

Molto suscettibile il redivivo, si disse Aurelio, poi arretrò lentamente, attento a non dargli le spalle, prima di involarsi nella notte.