II GIORNO
Casa di Aurelio sul colle Viminale
«Empuse? Sì, ho sentito qualcosa a riguardo...» tergiversò Castore. «Pallide creature infernali, figlie o seguaci di Ecate, che si annunciano con grande strepito e sono capaci di assumere aspetti diversi, cagne o vacche in genere, ma anche giovani donne pallide e seducenti. Di queste ultime si dice che, a osservarle bene, mostrino le tracce della loro natura maligna facendo intravedere gli occhi rossi, le piccole zanne affilate e una gamba di bronzo o persino di sterco d’asina... C’è sempre chi tira in ballo simili orrende creature femminili – arpie, streghe, mormolici, spettri, lamie – per incolparle di varie sciagure, in particolare se queste sciagure comprendono l’incapacità di congiungersi carnalmente: è un modo di giustificare la propria impotenza, scaricandone la colpa sulla controparte. Ma come mai Pomponia ha citato queste oscure leggende?»
«Pare che, secondo una superstizione popolare, le empuse non possano essere uccise del tutto, se non inchiodandole al sepolcro.»
«Questa mi giunge del tutto nuova» si stupì l’alessandrino, tentando di dissimulare il suo disappunto nei riguardi del padrone, della disgraziata che si era fatta uccidere in modo tanto bizzarro e soprattutto del cieco Fato, che distribuiva i suoi doni senza tener conto di qualche elementare forma di equità o di semplice buon senso: di fatto, se a essere un ricco patrizio romano con tutte le bellezze della capitale ai piedi fosse stato lui, avrebbe certamente trovato cose migliori con cui occupare il tempo di cadaveri putrefatti, inchiodati o meno...
«Sto aspettando di nuovo Ipparco: grazie alle sue competenze e alla scritta della tomba, forse riusciremo a identificare quella poveretta.»
«Ma perché mai dovrebbe interessarci?» obiettò il segretario, sensibilissimo a quel coinvolgente plurale che lo chiamava pericolosamente in causa, facendogli presentire la piega dolorosa che avrebbero preso presto gli eventi: indagini serrate, scarpinamenti senza sosta su e giù per l’Urbe, estenuanti interrogatori, gravosi confronti, sopralluoghi di cimiteri, sepolcreti, catacombe, fosse comuni e altri siti macabri di spiacevolissima frequentazione. Tutte prospettive davanti alle quali a Castore gelava il sangue nelle vene, si attorcigliavano le dita dei piedi e si contorceva lo stomaco come se avesse fatto indigestione di cicale fritte.
In quella il medico fece il suo ingresso nel tablino.
«Ho qualche novità» riferì, mentre i servi si precipitavano ad ammannirgli una ciotola dei suoi prediletti fichi annegati nel miele. «I chiodi erano certamente infissi nelle carni e alcuni hanno scalfito anche lo scheletro. Non appena lese, però, le ossa cominciano a rimarginarsi: non avendo io trovato alcuna traccia di tali riparazioni, credo di poter sostenere con un buon margine di sicurezza che la donna non era più viva, quando è stata sottoposta a quell’obbrobrio.»
«Com’è morta allora?»
«Aveva lo ioide fratturato, quindi è stata uccisa per strangolamento. E ho una possibile spiegazione per quei chiodi, che tuttavia ritengo alquanto improbabile» disse Ipparco ripulendosi la barba grigia del miele colato dal grosso fico appena inghiottito.
«Allora?» chiese battendo il piede il senatore, a cui difettava in sommo grado la virtù della pazienza.
Il medico si dissetò a lungo di Falerno invecchiato prima di rispondere: «Un collega di Bononia mi ha riferito di aver visto una volta infiggere al letto funebre la vittima di una malattia letale e trasmissibile, nell’assurdo tentativo di impedire al morbo di diffondersi. Anziché venire arso, il corpo infetto venne sepolto così sfregiato in un angolo nascosto della necropoli a occidente della città, lontano dall’abitato e anche dalle altre tombe».
«Che follia! Tutti sanno che non c’è nulla di meglio del fuoco per purificare!» esclamò il patrizio.
«Si tratta di usanze che allignano soprattutto nelle campagne, o in centri minori della penisola. Pare infatti che quel caso sia rimasto unico» scosse la testa Ipparco.
«Il delitto a cui siamo di fronte, invece, ha tutta l’aria di un’esecuzione capitale clandestina» obiettò Aurelio. «Alcune tribù ancora selvagge dell’estremo Nord, all’oscuro dei più elementari principi della scienza medica, imputano a volte il degrado fisico dovuto alla malattia all’azione di un maleficio perpetrato da femmine infami, capaci di divorare dall’interno il corpo delle loro vittime. Scoperta la pretesa fattucchiera, la giustiziano infierendo sul cadavere, spesso con riti orrendi. Anche nelle terre tessaliche, quando un giovane all’apparenza forte deperisce all’improvviso, la fantasia del popolino crea demoni a cui attribuire la colpa e ne trova a bizzeffe nelle antiche leggende: ecco allora le streghe, o le empuse succhiatrici di sangue, che spesso non basta uccidere, ma è necessario sterminare per sempre officiando apposite cerimonie per impedirne il ritorno dall’oltretomba» precisò il patrizio che, alieno da ogni superstizione, tremava al pensiero di tante miserabili torturate e soppresse con accuse inverosimili nelle regioni più lontane dell’Impero. Ma lì nell’Urbe, faro di civiltà, patria del diritto, certe barbarie non sarebbero dovute accadere...
«Sì, mi è giunta voce della feroce usanza dell’inchiodatura. Non poi tanto diffusa, in verità, e comunque presente soltanto in certe remote regioni selvagge» ammise il medico.
«Però il delitto di cui mi sto occupando è avvenuto qui, sotto i sacri colli!» fece indignato il senatore.
«Qui nella capitale del mondo» gli fece eco Ipparco. «Qui, nella splendida Roma, nell’Urbe Eterna e Invitta, dove c’è tutto, proprio tutto, salvo un valetudinarium, a dire il vero...»
Il patrizio rizzò le orecchie: dove voleva arrivare il medico?
«Certo un ospedale sarebbe utilissimo, è una vergogna che a Roma non ci sia ancora» insistette l’altro, pressante.
«Ehi, non crederai di esserti meritato una costruzione imponente e costosissima soltanto per avermi detto quello che sapevo già!» protestò Aurelio.
«Non ho finito. Lo scheletro della vittima presenta una caratteristica che forse potrebbe aiutarti a identificarla: un incisivo è stato rinforzato con un filo sottilissimo d’oro puro.»
«Vuoi dire che portava una protesi? Da secoli si utilizzano a tale scopo denti di vari animali, e proprio gli etruschi nei secoli passati erano particolarmente abili in questo tipo di intervento.»
«No, l’incisivo era quello originale. Il filo serviva soltanto a trattenerlo perché non cadesse, ed era quasi invisibile: un lavoro fatto con molta perizia» specificò il medico. «Sono operazioni non certo economiche, svolte di solito da cerusici che poco sanno di teoria medica ma dalla loro hanno una grande esperienza e una manualità invidiabile.»
«Quindi la donna non doveva essere povera» interloquì Castore.
«Aveva di certo qualche soldo da parte e teneva al suo aspetto abbastanza da pagarsi un eccellente dentista» precisò Aurelio. «C’è altro?»
«Converrai con me che quanto ti ho detto non è poco» gli fece rilevare Ipparco.
«In effetti hai svolto un ottimo lavoro» convenne il patrizio.
«Ma non abbastanza per ottenere un ospedale, è questo che vuoi dire?» esclamò l’altro, piccato.
«Per quello, dovrai operare un prodigio: niente a che fare con i soliti raffreddori di Paride, i reumatismi del portiere Fabello o le ecchimosi che quel gonzo di Sansone si procura ubriacandosi nelle popinae per poi attaccare briga con tutti, e nemmeno con i falsi mal di testa che si fa venire il nostro Castore quando gli si prospetta un lavoro sgradito, vale a dire qualunque tipo di lavoro. Questo è un caso di melanconia, e grave.»
«Uno squilibrio umorale, dunque. Melanconia in greco significa “atrabile”, ovvero “bile nera”: secondo Ippocrate, infatti, il corpo umano è governato da quattro umori diversi, corrispondenti ai quattro elementi fondamentali – aria, acqua, fuoco e terra –, e la melanconia è causata appunto da un eccesso dell’atrabile, che ha sede nella milza, mentre la bile gialla dimora nel fegato, il flegma risiede nel cervello, e il sangue caratterizza il cuore. A tali umori corrispondono quattro diversi temperamenti, quello malinconico, quello collerico, quello flemmatico e quello sanguigno.»
«Può succedere che una persona di temperamento sanguigno diventi all’improvviso malinconica?»
«Accade a volte agli adolescenti in fase di crescita, alle puerpere dopo il parto o alle donne che terminano il loro ciclo fecondo. I sintomi sono la perdita di energia e di interesse, il calo dell’appetito, i sensi di colpa, la difficoltà di concentrazione, l’angoscia, una diffidenza generalizzata e la presenza continua di pensieri foschi.»
«Temo che ci troviamo davanti a qualcosa di simile.»
«Chi è il soggetto, posso saperlo? Tanto dovrò visitarlo, prima o poi.»
«Si tratta di Pomponia» annunciò il patrizio.
Narra Omero come Odisseo, determinato a udire il canto proibito delle Sirene, si facesse legare all’albero della nave, e lottasse con tutte le sue forze per liberarsi, in preda all’effetto stupefacente della melodia interdetta.
Seppure ugualmente esterrefatto, Ipparco non aveva alcun albero a cui legarsi, ma solo un vaso di fichi da lasciar cadere rovinosamente a terra. I frutti appiccicosi rotolarono sul mosaico pavimentale, tassellato di esagoni con i ritratti delle famose protagoniste dei miti celebrate da Ovidio nelle sue Heroides, e andarono ad ancorare saldamente la loro colla mielata il primo sulle labbra di Briseide, il secondo sul sopracciglio destro di Arianna, il terzo sul naso di Laodamia e due assieme, attaccati con la pervicacia di amanti appassionati, sull’alta fronte della bella Didone.
«La brava Pomponia, la cara Pomponia? Non può essere vero!» ripeté Ipparco, pallido come una larva dell’Erebo: quale morbo poteva aver colpito tanto a fondo la più solida, la più tetragona, la più rocciosa, la più impetuosa, la più prorompente matrona di Roma, fino a spegnere il fuoco delle sue indomabili passioni? Pomponia, che gli finanziava la visita periodica dei duecentosessanta schiavetti orfani a cui aveva dato ricovero; Pomponia, che gli mandava le fanciulle desiderose di compiacere il futuro sposo con un piccolo intervento atto a restituire loro la perduta illibatezza; Pomponia, che voleva mettersi in società con lui per produrre salutari creme di bellezza; Pomponia, che si era prodigata per convincere la sua infermiera prediletta a non abbandonarlo in favore di un rude pretoriano; Pomponia, che gli ordinava filtri e pozioni per mangiare a crepapelle senza prendere peso; Pomponia, che l’aveva assunto come consulente al fine di individuare quali, tra le matrone più in vista dell’Urbe, si erano fatte spianare le rughe mediante l’operazione di Celso. Pomponia in preda a un eccesso di atrabile! Davanti a un evento così raro e improbabile, anche secoli e secoli di scienza ippocratica cedevano il passo, si disperò il medico, vedendo il suo valetudinarium svanire come neve al sole.
Casa di Pomponia sul colle Quirinale
Ad Aurelio, di nuovo in visita nella domus dei Servilii, non piacque affatto ciò che vide nell’atrio: tre vecchie, tutte rinsecchite, tutte con le unghie ad artiglio, tutte con lunghi e sgradevolissimi peli sul mento, ognuna delle quali si stringeva al petto come un tesoro inestimabile una serie di strumenti alquanto sospetti: collane di ossicini, code di lucertola, velli insanguinati, piccoli globi che parevano bulbi oculari di qualche rettile immondo.
Seduti di fronte, tre uomini diversissimi tra loro: stracciato e cieco il primo, che roteava di continuo la mandibola in un ossessivo esercizio masticatorio, succhiando lentamente i lupini tostati che traeva dalla sua bisaccia sdrucita. Più dignitoso appariva il secondo, lindo in un’elegante tunica chiara lunga fino ai piedi e impegnatissimo a difendere da un eventuale tocco impuro del suo misero vicino la teca di legno e avorio che inalberava sottobraccio. Il terzo invece pareva uscito dall’anfiteatro il giorno in cui si mettevano in scena i ludi gladiatori volti a rappresentare le gloriose vittorie romane sui popoli nemici. Di quale nemico si trattasse esattamente, tuttavia, era arduo capirlo, perché, per non rischiare di alienarsi nessun cliente, il guaritore aveva adottato un abbigliamento sincretico, atto a omaggiare il maggior numero possibile di tradizioni differenti: mentre la larga veste, bianca sebbene non proprio immacolata, faceva pensare a un sacerdote druidico, il vasto collare ricoperto da una sommaria mano di smalto dava un vago sentore di egizio, la barba arricciolata evocava antichi maghi caldei e l’alto copricapo richiamava le acconciature dei veggenti persiani.
«Non c’è Ipparco?» chiese perplesso il senatore all’amico Servilio.
«È venuto, è venuto, ha visitato Pomponia, però... no, non dire niente, lo so come la pensi: la scienza, la scienza e solo la scienza! Ma talvolta la scienza si rivela impotente e ormai sono in molti a Roma a pensare che i medici famosi facciano soprattutto i loro interessi, accordandosi con gli apotecari per propinare ai pazienti farmaci non necessari... Non c’è nulla di male a tentare altre strade, visto che esistono metodi alternativi capaci di tener conto dell’equilibrio tra corpo e spirito.»
Aurelio vide rosso. «Chi sono quelle megere, Tito? E i tre tizi dall’altra parte, il pitocco, il damerino e l’istrione?» domandò, per nulla lieto della piega che stava prendendo il discorso. Malgrado i severi divieti, già in vigore fin da Tiberio, Roma rigurgitava di astrologi, indovini, fattucchiere e santoni, in parole povere di imbroglioni pronti a illudere gli ammalati con la speranza di guarigioni miracolose. E se stava vedendo giusto, una folta rappresentanza di quei ciarlatani stazionava in quel momento davanti alle stanze della sua più cara amica...
«Le vegliarde Danae, Dione e Deiope nella Suburra hanno fama di potenti taumaturghe» spiegò Servilio, abbassando un po’ gli occhi.
«Ma sei completamente impazzito? Per tutti i Numi del cielo, della terra e del Tartaro, non vorrai davvero mettere tua moglie nelle mani di quelle arpie?» irruppe fuori di sé il senatore.
«C’è chi ne parla bene, ma in effetti ho avuto anch’io qualche dubbio, non fosse altro che per la sozzura delle loro dita... D’accordo, le caccerò via, magari assieme al mendicante. Ma non Calcedonio: a Roma molti sono stati risanati dalla semplice imposizione delle sue mani dal fluido portentoso» accondiscese Servilio additando il teatrante che, per non sbagliare, si era caricato di tutti i simboli della preveggenza più esotica. «E per quanto riguarda Porfirio, stai tranquillo, è un terapeuta molto affermato che applica una dottrina profondamente innovativa, a base di pozioni liquide arricchite con minuscole quantità di sostanze attive.»
Messo a tacere dal tono convinto del cavaliere, Aurelio non poté quindi impedire che l’uomo con la teca sottobraccio e il suo compare dall’abbigliamento fantasioso accedessero agli alloggi di Pomponia, subito seguiti dal padrone di casa.
Ci rimasero molto. Troppo per i gusti del senatore, a cui non restò che attendere, mentre gli schiavi espellevano gli altri postulanti. I modi troppo spicci con cui trattarono il vecchio cieco, tuttavia, lo spinsero a intervenire.
«Ehi, si può mandar fuori un anziano invalido anche senza scaraventarlo in terra!» protestò, aiutando a rialzarsi il mendico che era stato brutalmente spintonato dai guardiani.
Il vecchio piegò le labbra avvizzite in un sorriso stanco e offrì all’inatteso difensore uno dei suoi preziosi lupini.
«Prendilo, senatore Stazio, è buono!»
«Come sai chi sono?» chiese Aurelio.
«Estratto di ginepro, misto a un vaghissimo sentore di cuoio. Una fragranza inconfondibile, ma difficile a trovarsi: suppongo che tu ti faccia confezionare dal tuo profumiere qualche unguento da massaggio concepito per accordarsi bene con l’odore della tua pelle. Passando all’Argiletum, tempo fa, ho sentito questo effluvio particolare, proprio mentre i tuoi schiavi nomenclatori facevano largo tra la folla davanti alla tua lettiga gridando ai quattro venti il nome del loro padrone.»
«E sei in grado di ricordare un dettaglio tanto labile?» si meravigliò il patrizio.
«Xalxas è un cieco, non uno stupido, quindi sa che se si perde la vista è opportuno sviluppare altri sensi, innanzitutto l’udito e l’odorato» ribatté il vecchio. «Quando i Numi ti chiudono in faccia una porta, spesso è per aprirtene un’altra: non ho più gli occhi, ma il naso ha preso il loro posto per guidarmi!»
In quel preciso momento a interrompere la conversazione spuntarono dai recessi del quartiere padronale Calcedonio e Porfirio, entrambi con l’aria soddisfatta di due volpi affamate che hanno appena scoperto la dislocazione di un pollaio zeppo di gallinelle grassocce.
Senza esitare, Aurelio si precipitò nella stanza dell’amica.
Dopo la visita dei due guaritori, Pomponia non sembrava più molto avvilita, appariva invece inquieta, irritabile, quasi sul piede di guerra. Nei sofferenti di eccesso di atrabile, gli stati di prostrazione potevano infatti alternarsi con un febbrile nervosismo non alieno a una certa aggressività, gli aveva spiegato Ipparco: i gesti quasi frenetici con cui la matrona si tormentava le pieghe della veste la dicevano lunga in proposito.
«Carissima!» esordì il patrizio con un piglio brioso che senza dubbio suonava artificiale, carico com’era di ansia e tensione: dov’erano i conversari arguti che usava intrecciare in altri tempi con la vecchia amica? Dov’erano le sue invadenti curiosità, i sapidi motti, i profluvi di parole, i commenti salaci, le battute irresistibili?
«Boff!» abbaiò la matrona, mettendo subito in chiaro la sua limitata disponibilità.
«Ho visto uscire di qui una specie di istrione orientale e un damerino azzimato...» disse Aurelio, e l’umore di Pomponia precipitò come un sasso in un pozzo.
«Vuoi dire il sapiente Calcedonio e l’autorevole Porfirio, due grandi, validissimi terapeuti contro cui si è coalizzata la cosca dei medici romani al fine di difendere i suoi beceri interessi pecuniari? Guarda, sto già meglio: mentre il primo mi imponeva le mani sul capo, ordinando allo spirito nefasto della melanconia di lasciare il mio corpo, il secondo mi prescriveva alcuni ritrovati veramente portentosi, che presto mi ridaranno tutta la mia energia. Certo costano parecchio, ma ne vale la pena.»
«Permettimi almeno di farli preparare dal mio apotecario di fiducia, che è estremamente scrupoloso» si offrì il patrizio, desideroso di conoscere il contenuto degli intrugli propinati all’amica.
«Non crederai che Porfirio affidi la composizione dei suoi farmaci al primo venuto» si scandalizzò la matrona. «Li prepara di persona, in quanto il principio attivo va dosato attentamente in minuscole quantità.»
«E riesce ugualmente a curare?» domandò Aurelio dubbioso.
«È efficace proprio per quello, sciocco» insistette la matrona. Il senatore pensò bene di non contraddirla: se le dosi del farmaco erano davvero tanto scarse, per lo meno la miscela non sarebbe stata venefica...
«Sono proprio felice che tu ti senta meglio, tanto più che necessito come non mai delle tue straordinarie competenze.»
Il tono adulatorio, peraltro sincero, del senatore, parve gradito alla brava signora, che si accinse ad ascoltare con buona volontà. Ma l’interesse non era quello solito, curioso e attento. Pareva più diffidente, come se stesse perennemente sulla difensiva...
«Volevo sapere qualcosa di più sulle empuse inchiodate al sepolcro: chi ti ha raccontato quella strana storia?» le chiese quindi in tono volutamente leggero.
«Aconia Tranquillina, chi altri?» fece lei, insofferente.
«E questa Tranquillina chi sarebbe con esattezza?» si azzardò a chiedere il patrizio.
«Ma come, non la conosci?» sbottò la matrona risentita. «Sempre il solito tu, se una donna non è esattamente Venere Afrodite, manco te la ricordi!»
Aurelio, che le donne le guardava tutte, belle e brutte, alte e basse, giovani e meno giovani, ricche e povere, nobili e plebee – riservandosi eventualmente di discriminare in seguito –, trovò il rimprovero alquanto immeritato. Quando mai l’amica gli aveva fatto appunti simili? Quando mai Pomponia gli si era rivolta con tanta acredine?
«Come dovresti sapere benissimo» proseguì lei, «Tranquillina è la suocera della figlia del cugino della cognata del fratello della madre del nipote della mia migliore amica, la cara Domitilla.»
E così ora quella perfida malalingua di Domitilla era diventata la confidente di Pomponia, che fino a poco tempo prima la considerava la sua più temuta rivale, constatò Aurelio sorpreso.
«Lei sì che mi capisce: se non fosse stato per i suoi consigli non avrei mai conosciuto i due illustri curatori che stanno guarendomi. In ogni caso, Tranquillina sa tutto delle empuse, ha vissuto un anno in Mesia, in posti da lupi come quella Tomi dove Augusto mandò in esilio il povero Ovidio. Laggiù il potere di quei malvagi demoni femminili è molto temuto, quindi tutti prendono precauzioni per non cadere nei loro perfidi tranelli.»
«Sono soltanto barbare superstizioni!» non riuscì a trattenersi dall’esclamare Aurelio.
«La tua mentalità è assolutamente retriva» gli si scagliò contro la matrona, risentita. «Scettico e miope come sei, non lasci nessuno spazio a ciò che sfugge alla logica: miracoli, prodigi o manifestazioni soprannaturali ai tuoi occhi sono soltanto astuti inganni, abbagli da stolti, illusioni buone per gli ingenui creduloni.»
Il patrizio tacque. Come avrebbe potuto replicare, visto che Pomponia affermava il vero? Davanti a ogni portento, a ogni fenomeno bizzarro che apparentemente violava le leggi immutabili della natura, la sua banalissima domanda era sempre una sola: dove sta l’imbroglio?
«Invece le empuse esistono, eccome! Si annunciano con un tremendo fracasso, strepiti spaventosi che nulla hanno di umano, poi aggrediscono le loro giovani vittime... Come spieghi altrimenti l’improvviso decadimento fisico di uomini sanissimi e nel fiore dell’età?» insistette la matrona. «Hai forse dimenticato Caio e Lucio, i figli di Agrippa, morti non appena adottati dal nonno Augusto e designati suoi eredi?»
«Lo spiego col veleno, per esempio: non a caso la scomparsa dei giovani Cesari suscitò molte perplessità» ribatté Aurelio, senza andare oltre. C’erano state parecchie chiacchiere quando, defunti ormai tutti i discendenti diretti del primo imperatore, al trono dei Cesari era asceso Tiberio, figlio di primo letto della moglie Livia Drusilla Claudia, che la voce popolare voleva esperta di pozioni letali; ora però la “madre della patria” non apparteneva più alla schiera dei comuni mortali, bensì a quella dei Numi, in quanto era stata di recente spedita dritta nell’Olimpo dal nipote Claudio col nome di Dea Giulia Augusta, per cui sarebbe stato poco prudente ravvivare pubblicamente quelle vecchie dicerie...
«Assunto l’aspetto di fanciulle piacenti, le empuse si giacciono con uomini nel pieno delle forze al fine di esaurirne le energie vitali impadronendosi del loro sperma. Spesso giungono persino a succhiarne il sangue con un paio di denti aguzzi... Il solo modo di fermarle è ucciderle, poi inchiodarne il corpo al sepolcro. Me l’ha spiegato Tranquillina stessa, che in un villaggio nei dintorni di Serdica, presso il confine con la Mesia, ha assistito di persona allo smascheramento di uno di questi demoni dalla gamba di bronzo.»
«Stai dicendomi che una parente di Domitilla ha visto con i suoi occhi una donna dotata di un arto fatto di metallo?» chiese incredulo Aurelio.
«Be’, quando l’hanno catturata aveva già fatto in tempo a trasformarlo, ma non del tutto: le restava un calzare di bronzo, o forse la parte di un calzare...» ammise la matrona.
Aurelio chiuse gli occhi, allibito: quante donne, nelle più remote regioni del mondo conosciuto, venivano ancora immolate a simili assurde credenze con prove del tutto irrisorie? Quante innocenti erano ancora destinate alle fini più atroci perché ritenute streghe, fattucchiere o spiriti maligni sulla base di un dettaglio irrilevante come una lieve deformità fisica, una macchia sulla pelle, o addirittura una semplice borchia di bronzo su un sandalo? E come poteva la brava Pomponia, donna di cuore grandissimo, avallare una tale selvaggia barbarie? Ma il caso che si trovava di fronte era ancora più grave, perché il sacrificio questa volta non era avvenuto in qualche sperduta località ai confini dell’Impero, ma nel luogo che era il faro del mondo, la luce della civiltà, la fiaccola del diritto. Non una semplice città, LA CITTÀ. L’Urbe. Roma.
E il senatore quell’assassino uscito dalla fosca notte dell’ignoranza e del pregiudizio era deciso a scovarlo e punirlo, quindi tanto valeva andare fino in fondo, a costo di indisporre l’amica che, sebbene piuttosto animosa, quel giorno si mostrava anche abbastanza reattiva.
«Ammettiamo allora, per pura ipotesi, che si trattasse veramente di un’empusa. Come è riuscito il suo uccisore ad avere accesso al sepolcro per murarla là dentro? A chi apparteneva in quel momento la tomba? Quel nome vergato sul frontone non ti dice proprio niente?»
«VELTHM... no, niente» confermò la matrona dando una sola fuggevole occhiata distratta alla scritta che il patrizio le stava mostrando.
«E se non fosse una M?» insistette il senatore, rileggendo a sua volta la scritta. «Potrebbe trattarsi di due lettere separate, la I e la N... in questo caso la parola sarebbe VELTHIN...»
«Ma insomma, Aurelio! Sai che mi ha detto la cara Domitilla, quando ha saputo delle tue domande? Se un mostro simile è stato giustiziato, al suo esecutore non si dovrebbe dare la caccia, ma dedicargli un monumento pubblico!»
«E tu la pensi come lei, vero?»
«Senza dubbio» dichiarò Pomponia ostentando un’espressione volitiva e niente affatto amichevole.
«E rifiuterai di farti di nuovo visitare da Ipparco?»
«È un maneggione, al pari di tutti i medici tradizionali: non ho nessun bisogno di lui.»
«Come vuoi. Stammi bene» fece Aurelio asciutto, prima di prendere la porta.
Era appena uscito dal vestibolo, con l’umore più nero delle nubi di Borea, quando il vecchio cieco lo brancicò per le falde della veste, sussurrandogli qualcosa.
«Velthinia, il nome che cerchi potrebbe essere questo. Non vedo nulla, ma ci sento molto bene e la gente è scioccamente avvezza a parlare davanti a un cieco come se fosse anche sordo! A Roma c’era una gens Velthinia, un tempo originaria di Perusia.»
«Sai se ne esista ancora qualche discendente?»
Xalxas scosse la testa, mentre il patrizio traeva dal borsello di daino due denari d’argento.
«Permettimi di ricompensarti per il lupino. E per l’informazione» disse porgendoglieli.
«No, non te lo permetto» rispose il pitocco, rifiutando le monete. «Ti ho offerto un dono e ti ho fatto un piacere, in cambio di quello che tu hai fatto a me: i favori non si comprano, o non sono più favori.»
Aurelio aveva molti pregi, ma anche qualche difetto. Tra questi c’era l’assoluta impudenza che gli impediva quasi sempre di provare sentimenti analoghi alla vergogna. Ma quella volta, con la mano adornata dal sigillo senatoriale di rubini inutilmente protesa verso il vecchio, temette seriamente di essere arrossito.
Colle Quirinale
Il senatore aveva appena lasciato l’Alta Semita per imboccare la strada verso il Viminale, quando dalle colonne del tempio del Dio Quirino, che sorgeva poco lontano dalla domus di Pomponia, sbucò la barbetta a punta del suo segretario.
«Sono Castore di Alessandria. Ho il piacere di parlare con l’eccellentissimo indovino Xalxas?» chiese il nuovo venuto con fare suadente, mentre tra le mani gli compariva un cesto di lupini croccanti, accompagnati da semi di zucca al sale e mandorle tostate, con cui si affrettò a omaggiare il vecchio. «La tua fama di veggente veleggia per tutta l’Urbe!»
«Davvero? Allora perché sono stato cacciato fuori in malo modo?» replicò il cieco mentre inspirava profondamente, per farsi un’idea di chi si trovava davanti: una fragranza di basilico, piuttosto lieve, come se lo sconosciuto se ne fosse impregnato mediante un prolungato contatto fisico con una donna che ne usava l’unguento; un leggerissimo lezzo di friggitoria, probabilmente assorbito in qualche thermopolium, nel corso dell’acquisto dei semi tostati; un sentore di lana fine, che proveniva da una tunica di pregio. Infine, sopra ogni altro odore, l’effluvio pesantissimo di cospicue quantità di vino ingollato con gusto.
«Un equivoco increscioso: senza dubbio non ti hanno riconosciuto. Non sei tu colui che gli spiriti eccelsi del lucumone Tarquinio Prisco e di sua moglie Tanaquilla, grande esperta di arti magiche e di scienza aruspicina, amano visitare nei sogni per indicargli le vie del futuro?»
«Veramente no» si schermì modestamente il vecchio.
«Ma certo che sei tu! E questo tuo raro privilegio farà un’ottima impressione sul cavalier Servilio quando ti ripresenterai a lui, introdotto dal sottoscritto, per guarire la sua cara sposa oppressa dalla melanconia.»
Il mendicante esitò. Non era un lestofante, anche se a qualche trucchetto ogni tanto doveva ricorrere per sopravvivere, dopo che la maledetta cortina bianca gli era scesa sugli occhi, oscurandoli. Ma aveva un suo orgoglio, un orgoglio da pitocco beninteso, poca cosa, però sempre orgoglio era. Pur facendo l’indovino, non ricorreva quasi mai alla menzogna, ascoltava semplicemente con pazienza le vicissitudini di coloro che si affidavano ai suoi uffici e prevedeva, magari con più garbo e partecipazione, ciò che chiunque sarebbe stato capace di prevedere. “Vedo che gli Dei sono propizi a tuo figlio, quindi è molto probabile che gli concedano di tornare dalla guerra” diceva alle madri in ansia. “A meno che lui stesso, desiderando ardentemente un destino più glorioso, non voglia gettarsi con eccezionale audacia nella battaglia per raggiungere anzitempo da eroe lo splendore dei Campi Elisi.” E alle donne incinte: “Se il giorno del parto Venere si sarà unita a Marte con grande ardore reciproco, allora nascerà una femmina; ma se quel giorno la Dea non avrà voluto concedersi all’amante, Marte resterà solo e quindi nascerà un maschio”, e ai negozianti: “Sì, soldi ce ne sono, li vedo, sono proprio un bel gruzzolo, però se non starai molto attento, potresti perderli anziché guadagnarli”, e agli innamorati: “La tua puella ti ama, questo lo vedo con chiarezza, quindi anche nel caso che rivolgesse le sue attenzioni a qualcun altro, sarebbe soltanto per ingelosirti”. Di ritorno dai suoi consulti, i postulanti non ne sapevano più di prima, ma in compenso avevano sempre qualcosa da sperare, quindi si sentivano meglio e facevano scivolare volentieri le loro modeste monetine nel sacco proteso.
Di qui a essere un vero veggente, tuttavia, di strada ne passava parecchia, si disse onestamente Xalxas. A dire il vero però di sogni ogni tanto gli capitava di farne davvero, tanto che una volta, caduto nelle braccia di Morfeo, gli era parso proprio di essere tornato ai tempi dei re, quando Roma era giovane e semplice, e i ricchi non emanavano odori molto diversi da quelli dei poveri. E in effetti, lauchum, lucumone, significava appunto “re”, quindi quello che Castore gli proponeva di sostenere non sarebbe stata una vera menzogna...
«Che dovrei fare?»
«Per il momento un buon bagno. È un pezzo che non vai alle terme, eh? Vedremo di rimetterti a nuovo» disse guidando il vecchio in direzione dello stabilimento più vicino.
Il segretario non era stato l’unico ad appostarsi fuori dalla casa di Pomponia: da lontano, anche sei occhi piccoli e cattivi avevano osservato attentamente il senatore Stazio mentre usciva dalla casa dell’amica.
Tramandano che le Parche, compagne del Fato, fossero tre vecchie incartapecorite, delle quali la prima, Cloto, tesseva il filo della vita di ogni mortale, la seconda, Lachesi, lo aggrovigliava secondo il suo destino e la terza, Atropo, lo recideva inesorabilmente quando il tempo concesso era scaduto. Tali a queste megere infernali apparivano le fattucchiere Danae, Dione e Deiope, ancora furibonde per il brusco trattamento subito.
«Eccolo là, quell’infame che ci ha screditato!» disse Danae, scuotendo vigorosamente la collana di ossicini che le pendeva dal collo vizzo.
«Lo sistemeremo a dovere» si ripromise Dione ridendo con la bocca sdentata.
«So io qual è la pozione adatta per alienargli il favore del Dio Priapo» fece Deiope. «Bava di serpente velenoso, l’ala di un uccello sinistro, il cuore di tetro gufo e le viscere di una stridula strige sventrata viva. Basterà gettargli addosso qualche goccia di questa pozione, per colpirlo con un malocchio devastante!»
«Forza allora, mettiamoci al lavoro!» la esortarono le altre due con un ghigno malvagio.
La residenza di Tito Servilio e della matrona Pomponia sul Quirinale doveva essere quel giorno terra di agguati proficui, perché, oltre a Castore con Xalxas e alle streghe col senatore, un altro pedinamento era in corso.
Il terapeuta Calcedonio infatti stava seguendo il suo collega Porfirio, che, dopo essersi soffermato ad ascoltare non visto le tre vecchie, aveva ricominciato a camminare col passo sostenuto che gli permettevano le sue gambe lunghe. Quando Porfirio giunse in prossimità dell’Alta Semita, davanti all’arcaico Capitolium vetus, il guaritore ritenne fosse venuto il momento di raggiungerlo: calcata ben in testa la mitra partica, sollevò con entrambe le mani la tunica da druido e, mentre il collare egizio gli tintinnava addosso come un concerto di sistri alla festa della Gran Madre Terra, si mise a corrergli dietro.
«Collega, ehi collega, aspettami!»
Porfirio lo guardò dall’alto in basso, in senso sia metaforico sia letterale, dato che Calcedonio gli arrivava appena alle spalle. Normalmente lo avrebbe trattato con l’alterigia supponente riservata ai ciarlatani che con i loro imbrogli rovinavano la reputazione alla gente di qualità come lui, ma, essendo tutt’altro che sprovveduto, sapeva bene quando era il caso di cercarsi un alleato, quindi decise di soprassedere.
«La cara matrona si sentirà certamente meglio dopo l’imposizione delle tue mani dal fluido magico» disse in tono accattivante.
«Senza dubbio. Tanto più che si avvarrà anche delle tue formidabili pozioni: gliene hai lasciate ben quattro fiale, se non sbaglio» replicò Calcedonio.
«La cura è efficacissima a patto di seguirla a lungo. Non vorrei però che quell’impiccione di Publio Aurelio dissuadesse la povera signora dal farlo.»
«Lo conosci?»
«Sì, ahimè. Si tratta di un senatore, uno della solita banda insomma, di quelli che si fanno beffe di noi e sono disposti a riporre fiducia soltanto nei vecchi tromboni saccenti che hanno studiato a Pergamo e ad Alessandria, come il borioso Ipparco di Cesarea, non a caso il suo medico personale. Ha già cominciato a instillare dubbi nel cavalier Servilio, che prima di consegnarmi l’onorario mi ha subissato di domande...»
«Be’, avrà pensato che un aureo per quattro boccette colorate fosse un prezzo un po’ alto...»
«Anche mezzo aureo per tenere qualche istante le dita sul ventre, esimio collega Calcedonio, potrebbe sembrare eccessivo a un tirchiaccio meschino. Ma noi, che ben sappiamo quanto valgano le nostre cure e come si debba instancabilmente ripeterle prima di vederne gli effetti benefici, non possiamo lasciarci screditare dallo scetticismo di un ottuso ficcanaso!»
«Ah, quanto mi piacerebbe che quel tizio cadesse ammalato e per guarire dovesse ricorrere alle mie mani, o alle tue fialette!»
«Purtroppo pare che abbia una salute di ferro e goda anche di sufficiente vigore virile da bazzicare un numero cospicuo di matrone e cortigiane» storse il naso Porfirio. «Certo, se gli succedesse qualche fenomeno increscioso proprio in questo campo, ovvero se gli accadesse di fare una figura meschina con una delle sue tante amanti, verrebbe di sicuro a miti consigli. Ho sentito poco fa le tre vecchiacce che ha fatto cacciare meditare di fargli un incantesimo proprio in questo senso, ma ovviamente non combineranno nulla.»
«Purtroppo» deplorò Calcedonio, non afferrando subito l’allusione, visto che i fluidi fenomenali gli si erano tanto concentrati nelle mani da lasciare poco materiale per il cervello.
«Chi sa guarire le malattie sa anche come provocarle» chiarì il collega.
«Oh oh, che bella idea! Come intendi procedere, Porfirio?»
«Esistono sostanze che propiziano il coito e altre che lo impediscono. Se riusciremo a fargli assumere una di queste ultime, sarà costretto a ricorrere ai nostri uffici.»
«Ma non seguirà mai i tuoi consigli» protestò l’altro, tardo a comprendere.
«Non spontaneamente. Però ha un intendente malaticcio e piuttosto ingenuo al suo servizio, tal Paride, che fa proprio al caso nostro. Ci offriremo di provare su di lui una cura a titolo gratuito, e mentre tu gli imporrai i tuoi palmi prodigiosi proprio sugli occhi io opererò la sostituzione di una giaretta del vino del padrone con una identica in cui è stato inserito un farmaco propiziatore della castità. A quel punto lo avremo in nostro potere!»
«Geniale, Porfirio! Quando si comincia?» fece Calcedonio entusiasta.
«Dammi il tempo di preparare l’infuso, lo metteremo in un’anfora di vino. E non appena lui sarà inguaiato, ci dedicheremo a quella poveretta di Pomponia che ha bisogno di lunghe cure: suppongo che ci vorranno mesi e mesi per rimetterla in sesto...»
«Abbiamo tutto il tempo, collega!» fece Calcedonio gongolante, accarezzandosi la barba arricciolata da mago caldeo.