Casa dei Babri sul colle Palatino

La domus dei Babri sul Palatino era parata a lutto. Quando Aurelio vi fece il suo ingresso, magnificamente avvolto nella toga di gala col laticlavio, la folla si fendette per farlo passare, meravigliata dalla presenza di un padre coscritto nella casa di una stirpe che, sebbene vetusta, da quasi un secolo non ricopriva cariche pubbliche. La nobiltà a Roma non durava per sempre, reputavano infatti i quiriti, né l’origine aristocratica da sola era sufficiente a confermarla: bastavano due generazioni senza magistrati eletti per sancire la decadenza di una schiatta, e l’ultimo rappresentante pubblico dei Babri era soltanto un lontano bisnonno edile.

Alla scarsa fama pubblica, tuttavia, corrispondeva un patrimonio abbastanza sostanzioso, valutò il patrizio, che aveva preso le sue brave informazioni: dopo decenni di decadenza, la nuova prosperità dei Babri era ora sotto gli occhi di tutti. Malgrado la vita ritiratissima condotta da Fastia e dai suoi nipoti, infatti, un flusso notevole di denaro si riversava nelle casse della famiglia dalle miniere di piombo e argento in Sardinia recentemente riattivate – i cui diritti di gestione erano stati concessi dall’amministrazione imperiale, in deroga alle norme, al fratello defunto della matriarca per i suoi meriti militari – così come dai vigneti del Piceno e soprattutto dalle villae rusticae site nella conca bonificata del vecchio lago Velino, fertilissima da quando, ben tre secoli prima, gli ingegneri romani ne avevano convogliato le acque in eccesso in una gigantesca cascata artificiale.

Aurelio si guardò in giro incuriosito. Le esequie erano imponenti, considerato il fatto che si celebrava una defunta di sesso femminile. Certo, esistevano parecchi precedenti di onoranze solenni attribuite a donne celebri: per esempio il famoso funerale di Giulia, moglie di Caio Mario e zia di Cesare, durante il quale il futuro dittatore aveva fatto spregiudicatamente sfilare la maschera dell’illustre congiunto, proclamandosene di fatto l’erede, o anche quello di Cecilia Metella, nuora di Crasso, che riposava ora sulla via Appia, in uno dei più imponenti mausolei mai costruiti nell’Urbe.

A essere ossequiata dal sontuoso apparato di quel giorno, però, era soltanto la discendente di una famiglia antica ma provinciale, andata sposa con una dote esigua a un Babrio qualunque, patrizio ma non molto illustre. Fastia tuttavia, aveva saputo muoversi accortamente per riportare in auge i suoi eredi: un tale grandioso funerale non poteva essere che lo spettacolo di esordio di chi mirava a nuove e ben più allettanti mete...

«Che pompa volgare, per un’italica qualunque» commentava infatti un oscuro questore, che aveva dalla sua soltanto una lontanissima parentela con la moglie dell’imperatore, Valeria Messalina.

«Un’esibizione davvero gretta» gli fece eco uno dei tanti popolani che campavano presenziando a qualunque solennità nel cui corso fosse previsto un banchetto gratuito.

La cerimonia sarebbe durata ore e ore, col corteo, l’elogio, le lamentazioni delle prefiche e infine l’accensione della pira. Per il momento però, la salma era ancora esposta nell’atrio, in modo che tutti potessero renderle omaggio. Aurelio non mancò di approfittarne.

Sebbene non avesse mai avuto il piacere di conoscere in vita la donna che giaceva sul catafalco, il patrizio si soffermò più a lungo degli altri ospiti davanti ai suoi resti: Fastia Velthinia, sontuosamente abbigliata con abiti preziosi, appariva un po’ scura di pelle e, malgrado gli sforzi dell’impresa libitinaria per presentarla al meglio, mostrava un evidente gonfiore sulle guance, che due giorni prima, sul letto di morte, erano apparse invece incavate. La spiegazione più semplice, naturalmente, è che fosse priva di denti e i truccatori le avessero imbottito le guance con fiocchi di lana, per darle un aspetto più naturale e meno emaciato.

Il senatore fece per ritirarsi, ma poi, ignorando la fila di condolenti che gli premeva alle spalle, si voltò di nuovo a scrutare attentamente la salma: non soltanto le gote, anche le braccia sembravano troppo enfiate e troppo livide...

«Donna eccezionale» commentava intanto qualcuno. «Comandava famiglia e servitù a bacchetta, con pugno di ferro!»

Il senatore, che ben sapeva come i funerali fossero occasioni in cui la gente parlava volentieri – di solito bene del morto e malissimo dei vivi –, aguzzò le orecchie per non lasciarsi sfuggire una messe preziosa di chiacchiere, pettegolezzi e maldicenze.

«Sfortunata, col primo nipote, la povera Fastia, e dire che prometteva tanto bene!» fece una matrona dall’aria sussiegosa all’amica che la accompagnava.

«Be’, non è mica colpa sua, se è rimasto tanto tempo prigioniero!»

«Sì, ma è sempre stato una testa calda... Qualcuno mormora persino che prima di partire avesse compromesso la promessa sposa e Quinto sia servito da rimedio.»

«Davvero? E perché mai lui si sarebbe prestato?»

«La dote! Sofio Sofiano era un plebeo con un bisnonno schiavo, che non vedeva l’ora di imparentarsi con una famiglia perbene. E poteva giocarsi la pedina di una figlia unica belloccia, anche se di quella bellezza appariscente che di solito gli uomini cercano nelle lupae dei bordelli, non certo in una vereconda sposa romana. Ora, sappiamo bene come Fastia dal canto suo – non per dir male dei morti, eh, che riposino in pace! – fosse una tirchiaccia attratta dal denaro come una falena dalla fiamma della lucerna: non ricordi la sua prima nuora? Sarà anche stata della gens Valeria, ma quant’era bruttina! Un fuscello, una cosetta piccina piccina, quattro ossa di prosciutto, gli occhi chiari e slavati... però era facoltosa assai, quindi a quell’arpia andava benissimo.»

«Ma il figlio, rimasto vedovo, si consolò prendendosi una plebea bene in carne, tal Filinnia, che dette alla luce Quinto» ricordò la seconda pettegola.

«Il pecorone! Dammi retta, se Fastia avesse ordinato al nipote superstite di sposarsi soppesando il patrimonio, anziché l’illibatezza della moglie, lui avrebbe di certo obbedito! Naturalmente sono soltanto voci, ma quando c’è fumo, c’è arrosto: adesso Quinto, Lucio e Sofia vivono assieme e soltanto i Numi sanno che cosa accade in quella casa, al calare della notte!»

«Tu dici che... oh no, come puoi supporre una cosa simile!» esclamò la seconda matrona, coprendosi la bocca col velo per celare l’espressione scandalizzata.

Aurelio, che lo scialbo Quinto darsi alle orge proprio non ce lo vedeva, alzò il sopracciglio destro, in un’espressione alquanto perplessa.

«Non c’è più il senso della morale, oggi» continuava a imperversare la vipera. «Quando si permette ai nuovi ricchi con le unghie ancora sporche di terra di sedere in Senato, che fine vuoi che facciano i buoni principi? E se aggiungi che a comandare al Palatino è uno zoppo deficiente assieme alla moglie puttana, capirai bene come Roma sia ormai diventata un covo di degenerati!»

Il senatore grugnì, come sempre quando sentiva offendere il vecchio e saggio amico che sedeva sul trono dei Cesari. Poi cedette finalmente il posto alle due comari, pronte a esibire una faccia di circostanza tristissima e compunta.

Qualcosa non quadrava, continuava però a ripetersi; quindi si risolse a mandare in avanscoperta Cicurio, che, ormai parte integrante della servitù della casa, l’aveva accompagnato in quella occasione ufficiale insieme a un nutritissimo drappello di domestici, annunciatori, nomenclatori e guardie del corpo.

«Vedi di fare qualche domanda ai libitinarii, particolarmente alle prefiche, che hanno la lingua lunga» gli ordinò, mettendogli in mano di che pagare lautamente le informazioni, prima di riprendere ad aggirarsi con atteggiamento mesto tra i dolenti, nella speranza di captare ancora qualche brano di conversazione.

Intanto, mentre gli invitati continuavano a sfilare in gran numero, si erano presentati i primi membri della famiglia: Sofia, accompagnata dai figli, entrambi con le bullae infantili appese al collo, e dal padre Sofio Sofiano; un passo più indietro Lavinia, fosca come le nubi dell’estremo Settentrione.

Subito uno degli ospiti, un mastodontico omone dalle fattezze animalesche che inalberava una toga stazzonata come un vessillo di resa, si avvicinò al più giovane dei Babri, il piccolo Furillo, un ragazzino dal corpo robusto e un viso serio, a cui la mascella fin troppo volitiva attribuiva un’aria perennemente imbronciata. Il sorriso compiaciuto con cui lo scimmione lo rimirava scomparve tuttavia subitaneamente non appena i suoi occhi caddero per caso su Publio Aurelio.

A tutti è nota l’ira funesta del Pelide Achille, nonché gli infiniti lutti che addusse agli Achei, ma soltanto i più dotati di immaginazione riuscirebbero a figurarsi l’espressione furente dell’eroe nel momento in cui Agamennone gli sottrasse l’ancella Briseide. Tale e quale allo sguardo che il Piè Veloce doveva aver rivolto al prepotente capo della spedizione contro Troia, fu l’occhiata feroce che l’omone riservò al senatore, del tutto ignaro delle ragioni di tale palese antipatia.

«Dov’è Lucio?» continuavano intanto a spettegolare le due comari. «Pare che prima di partire fosse carico di debiti...»

«È gente dal sangue dubbio, credi a me. Hai visto il bambino? Ha preso tutto dall’Avvoltoio, il suo prozio, non assomiglia per niente al padre. Sempre che padre lo sia davvero, il povero Quinto... Non ci sarebbe da meravigliarsi se quella sfacciata di Sofia si fosse presa qualche libertà» continuavano a malignare le matrone.

I nipoti diretti non si vedevano ancora e la folla stava facendosi pressante, quindi la padrona di casa, affiancata dal massiccio genitore, si decise contro la consuetudine a raccogliere di persona le prime condoglianze.

«Grazie della visita Tiberio Gallo, grazie Marco Cecilio, grazie Gneo Aurunco, grazie Gaio Minucio, grazie Mamerco Voluso, grazie Tito Postumio, grazie Aulo Cornelio, grazie Marco Popilio, grazie Gaio Cosso, grazie Appio Prisco, grazie Gneo Proculo...»

Nel riverire gli ospiti la bella Sofia teneva pudicamente gli occhi bassi, senza guardare in faccia nessuno, e il fatto che non sbagliasse mai un nome aveva del prodigioso. Così come pareva prodigioso che le sue palpebre socchiuse riuscissero a evocare di più di quanto avrebbe promesso il piglio sfrontato di un’altra donna, osservò il senatore mentre le rivolgeva un paio di parole di conforto, sperando che le pettegole avessero visto giusto nel sostenere che si concedeva qualche libertà.

Fu allora che le pupille di Sofia Sofiana si levarono, per un solo brevissimo istante, sufficiente tuttavia perché Aurelio, forte della sua larga conoscenza del sesso femminile, fosse certo di interpretarne correttamente il messaggio: c’era un invito in quel fuggevole sguardo, un’esortazione precisa, un’inconfondibile lusinga. Il giubilo del patrizio fu tale da costringerlo a richiamare alla memoria lunghi anni di meditazioni epicuree per nascondere un’espressione di trionfo che si sarebbe rivelata senza dubbio poco consona alla luttuosa circostanza.

Ma non fu abbastanza rapido nel dissimularsi. Mentre retrocedeva verso la folla in attesa, infatti, i suoi occhi incontrarono quelli di Lavinia, non altrettanto benevoli.

Tramanda Tito Livio che, con Annibale alle porte dopo la sconfitta di Canne e la disfatta delle legioni, i Romani si risolvessero a praticare un costume barbarico rarissimo nella Città Eterna, seppellendo vivi nel Foro Boario due celti e due greci, presi tra gli schiavi reputati più adatti al brutale rito. La scelta non doveva essere stata facile, ma Aurelio avrebbe giurato che l’espressione con cui lo fissava Lavinia in quel momento fosse simile a quella del magistrato eletto per eseguire il sacrificio umano, quando si era soffermato sulle vittime destinate a una fine tanto crudele.

E due, si disse il patrizio, prendendo atto di non essere troppo popolare da quelle parti.

Un attimo dopo la scostante cugina dei Babri era scomparsa e davanti a lui si parava Sofio Sofiano.

«Senatore, che piacere averti tra noi!» esclamò questi accogliendolo con grande entusiasmo. Ecco da chi aveva ereditato il suo piacevolissimo aspetto la moglie di Quinto, si disse Aurelio contemplando il ricco popolano di origine schiavile, che a più di sessant’anni appariva ancora un uomo piuttosto attraente, sebbene l’appetito smodato e le abbondanti libagioni ne avessero appesantito la corporatura eccezionale.

«Donna lodevole, Fastia, donna straordinaria. Fin dall’infanzia fui amico fraterno del suo unico figlio e reputai un onore unire i miei destini ai suoi attraverso il matrimonio dei nostri eredi.»

Un onore costoso, almeno a quanto sostenevano le due matrone pettegole, pensò il senatore, stupendosi di dover guardare dal basso in alto – lui che pure superava di gran lunga in statura gran parte dei suoi concittadini – il possente suocero di Quinto. Sofio teneva tuttavia le spalle un po’ curve, quasi intendesse farsi perdonare l’altezza eccessiva: leone rampante tra i suoi pari, aveva sempre provato un’insana reverenza per le famiglie di antica tradizione, la stessa che lo aveva spinto a sostituire prontamente il mancato genero col suo fratello minore. Sarebbe stato interessante conoscere i particolari della transazione matrimoniale, rifletté Aurelio, rimpiangendo di non poter ricorrere in quel frangente ai lumi dell’informatissima Pomponia, che giaceva tuttora nel suo letto di spine.

In quella, qualcuno lo tirò per le falde della toga.

«Padrone, padrone, l’ho trovato! Quel Febo che mi ha venduto la tomba è qui, in questa casa! Ho creduto di riconoscerne la voce poco fa mentre passavo da un corridoio interno per chiedere ai libitinarii l’informazione che desideravi. Stava litigando di brutto con un tale, per questo me ne sono ricordato. Anche la sera in cui lo conobbi alla taverna, aveva berciato per via del prezzo del vino: dev’essere un autentico attaccabrighe! Comunque l’ho visto in faccia e sono sicurissimo di non sbagliarmi... ah, eccolo là!» fece un agitatissimo Cicurio e additò il varco da cui Lucio Babrio entrava in quel momento, a fianco del fratello. «E quello che gli cammina accanto è il tizio che bisticciava con lui poco fa.»

Davanti alla pira, i fratelli si espressero brevemente: Fastia era stata una creatura straordinaria, ineguagliabile e senza pecca alcuna, dissero, come sempre si dice di chi è morto. Ma a pronunciare il vero e proprio elogio funebre fu il pronipote maggiore, sebbene portasse ancora la bulla al collo: un discorso fluido, ben costruito, preciso in ogni singola concordanza, con una sintassi complessa e articolata, una retorica forse un po’ trita, ma irrobustita da citazioni preziose, un piglio deciso ispirato a quello dell’autore che la lingua latina aveva saputo perfettamente manipolare e piegare ai suoi voleri, il celeberrimo Cicerone. Nessuna esitazione, nessun timore del tipo di quelli che aveva manifestato nel corso del primo incontro, pensò Aurelio: tra i meandri dell’oratoria, il ragazzo si muoveva con quella disinvoltura che gli mancava nella vita reale. Sì, Quinto il giovane aveva studiato bene, benissimo, fin troppo, si disse Aurelio raggiungendolo poco dopo, mentre entrambi i genitori se lo covavano orgogliosamente con gli occhi.

«Bella prolusione, giovane Quinto» commentò il patrizio.

«È andata bene? Spero di essere stato all’altezza, temevo di sbagliare...» sorrise lui compiaciuto.

«Quando pronunciai l’elogio funebre di mio padre ero più o meno tuo coetaneo: non potendo dire le cose come stavano, esagerai a tal punto nel parlare bene del mio augusto genitore, che chiunque l’aveva conosciuto non poté fare a meno di afferrare l’ironia.»

«Ma io.. teta... la nonna... io ho detto la verità!» protestò il ragazzo.

«Naturalmente» lo rassicurò il senatore. «Dunque le volevi molto bene.»

«Tutti volevamo bene alla nonna» fece lui, un po’ confuso.

«Anche lo zio Lucio, immagino.»

«Certo! E la nonna lo contraccambiava in pieno, sostenendo che era l’unico capace di farla ancora ridere» rispose di getto il giovane. Se quel tipo non avesse portato la toga con il laticlavio, pensava intanto, se non avesse mostrato il sigillo senatoriale all’indice e calzato i calcei curiali di gala, l’avrebbe preso per un terribile impiccione. Ma forse si stava sbagliando, perché i testi classici sui quali aveva sudato per anni ostentavano un enorme rispetto per i padri coscritti e nessuno di loro contemplava la possibilità che un senatore di Roma potesse essere anche uno spiacevole ficcanaso...

A toglierlo dall’imbarazzo intervenne il padre.

«Ave, Publio Aurelio, vedo che hai conosciuto il mio primogenito. A dire il vero ho esitato a lungo prima di lasciare a lui la responsabilità dell’elogio, malgrado il grande affetto che portava alla nostra povera nonna.»

«Molto erudito e preparato» lodò Aurelio, che durante la perfetta declamazione – in cui erano state snocciolate a una a una in un lungo elenco sfibrante tutte le donne famose defunte in età ragguardevole, da Pirra a Ecuba, da Cornelia a Livia Drusilla Claudia – era stato costretto a reprimere una serie di grossi sbadigli. L’aggettivo “brillante”, quindi, non gli uscì di bocca. Dotto e formalmente ineccepibile, certo, ma brillante proprio no, il giovane Quinto: gli difettavano smalto e lucore, come a una moneta d’oro zecchino lasciata per troppo tempo in un forziere, senza essere tratta dalla polvere da nessuna mano umana, né avida né prodiga.

«In effetti mio figlio mostra una grande predisposizione per gli studi retorici» si schermì il fiero genitore. Suo figlio non avrebbe contato le libbre di metallo estratte dalle cave, né le ollae di olio prodotte dai frantoi, si riprometteva, non avrebbe trascorso gli anni migliori della sua vita a gestire gli utili dei poderi e i profitti dei torchi di vino come un semplice procurator, incaricato di amministrare un patrimonio al quale non può accedere. Quinto il giovane, grazie all’educazione accurata e alle doti naturali, avrebbe conquistato fama e onore come patrocinatore, giacché quello era il primo gradino per concorrere alle cariche pubbliche. Gli introiti del suo duro lavoro si sarebbero trasformati in contanti, e questi a loro volta investiti in fondi agricoli, fino a raggiungere il milione di sesterzi di rendita necessario per entrare in Senato. E dato che, in attesa di quel giorno, toccava a lui fare di tutto per procurargli i necessari appoggi, Publio Aurelio, uomo potente a dispetto della terribile reputazione di stravaganza, era giunto proprio a puntino, quindi occorreva compiacerlo in ogni modo.

«Confido su una tua prossima visita, senatore. Ci terrei che avessimo modo di conoscerci meglio.»

“Soprattutto la tua splendida moglie” auspicò il patrizio tra sé, accettando prontamente l’invito.

«Dove saranno deposte le ceneri di Fastia?» chiese poi. «Nel sepolcro dei Babri sull’Appia, suppongo.»

«No. Era volontà della nonna riposare per sempre accanto al cenotafio del fratello, l’eroe di guerra, il cui corpo non fu mai trovato. Collocheremo dunque l’urna nella tomba della grande gens che si estingue con lei e di cui noi siamo gli indegni eredi.»

«Velthur Velthinio Fastio cadde sul fronte del Nord, vero?» affermò il senatore, forte delle informazioni assunte negli ultimi giorni: tribuno militare, il fratello di Fastia – detto l’Avvoltoio per via del significato del nome Velthur e forse anche a ragione di altre caratteristiche non gradevolissime – aveva dato prova su molti fronti di un coraggio e di un ardimento inusitati, gettandosi più volte di persona nella mischia per farsi seguire dai soldati. Intrepido e sprezzante del pericolo, si era fatto tuttavia fama di sanguinario privo di ogni pietà, nonché di uomo meschino, incapace di dimenticare i torti subiti. Molti anni prima era stato ucciso a tradimento nel villaggio dove si era recato per trattare il rilascio di alcuni capi barbari, presi prigionieri dai Romani. Quando avevano compreso che il tribuno non avrebbe mai fatto ritorno, i legionari si erano vendicati duramente del proditorio inganno, sterminando tutta la tribù nemica, donne e bambini compresi, e riportando poi a Roma soltanto le armi e lo scudo del defunto, giacché era stato impossibile raccoglierne le spoglie.

«Una stirpe etrusca assai vetusta, la tua, proveniente da Perusia, a quanto ho sentito, molto legata alle tradizioni avite. Di certo possedeva anche un colombario in cui conservare i resti di schiavi e liberti» aggiunse poi, per condurre il discorso sul dettaglio che più lo interessava. Poteva esserci un collegamento tra il cadavere di una donna inchiodato in una tomba negletta e la morte improvvisa della matriarca della famiglia che di quella tomba era stata un tempo legittima proprietaria? Le coincidenze esistevano, si ripeté Aurelio, ma spesso portavano anche fuori strada...

«Ne abbiamo più di uno: la famiglia un tempo era facoltosa e contava parecchia servitù. Ma non saprei dirti dove si trovano ora: a queste cose pensava la nonna, che si è conservata lucida e attiva fino all’ultimo. Io gestivo soltanto i poderi e le cave che mi aveva affidato nel tempo.»

«Sei a conoscenza di un sepolcro sull’Esquilino, col frontone decorato da una scritta in alfabeto etrusco che reca il nome dei Velthinii?» non resistette tuttavia a chiedergli Aurelio.

«Se era nostro, troverò notizie a riguardo tra i documenti di famiglia, non appena mi accingerò a esaminarli» rispose l’altro, desideroso di farsi benvolere.

«Un’altra curiosità, sciocca a dire il vero... Fastia, ligia com’era alle credenze di un tempo, ti ha mai parlato delle empuse?»

«Si tratta forse di un’antica carica sacerdotale femminile o qualcosa di simile?» chiese l’altro corrugando la fronte.

«Sono spiriti, demoni femminili che secondo alcune leggende succhiano il sangue degli uomini. Per fermarle, e impedire che tornino in vita, sarebbe necessario inchiodarle al sepolcro» rivelò Aurelio, attento alla reazione del suo interlocutore.

I muscoli facciali di Quinto si mossero vivacemente, ma in modo del tutto insospettabile: se stava mentendo doveva essere un abile simulatore, rifletté il patrizio, perché ogni tratto del volto non denotava altro che uno stupore impacciato.

«Alludi forse a miti etruschi? L’unica leggenda che ricordo riguarda la Dea Atharpa, raffigurata talvolta nell’atto di piantare un chiodo per fissare gli uomini al loro destino: è evidente che si tratta di una versione indigena dell’inflessibile Atropo, la terza delle Parche, quella che secondo i greci taglia il filo della vita con le sue lucide cesoie.»

«No, non credo che c’entri nulla. Parlo invece di spiriti infernali simili alle Lamie: la strana superstizione che le accompagna potrebbe provenire dall’Oriente.»

«Allora non posso aiutarti, senatore. È vero che la nonna mi ha fatto imparare a menadito i nomi delle varie divinità dei Rasna, ma dei mostri di quelle remote contrade non so davvero nulla! Forse però potresti chiederlo a mio fratello, che ha molto viaggiato» scosse la testa Quinto accomiatandosi, visibilmente rammaricato di non poter aiutare meglio il senatore.

Lucio fu meno sollecito, meno cortese e meno formale. Non pareva affatto rattristato, bensì lieve come al solito, quasi quella a cui stava partecipando fosse un’occasione mondana qualunque e non il funerale di una stretta congiunta.

«Com’è andato il corteggiamento? Mio fratello è riuscito finalmente a invitare un membro della Curia sotto il suo tetto?» domandò in tono strafottente. «Quinto si dà un gran da fare per conquistarsi l’amicizia di chi potrebbe un giorno favorire la carriera del suo prezioso primogenito... povero ragazzo, quanto lo compatisco! Una vita da recluso, prigioniero di quattro mura, chino sui libri, mai uno scherzo, mai una marachella: proibito bighellonare con i servi, proibito giocare con i coetanei, e di belle fanciulle nemmeno a parlarne! Se io avessi un figlio, gli insegnerei a tirare di fionda e a fare a botte, poi gli darei un cavallo e un aureo, ordinandogli di scrivermi da Lutetia Parisiorum» sbottò il primogenito dei Babri.

«Vorresti che calcasse le tue orme, insomma.»

«Chi credi che si sia divertito di più, in vita sua, Quinto con il suo registro dei conti o io a scorrazzare in giro per il mondo?» chiese Lucio e si passò ridendo la mano tra i capelli biondi, con lo sguardo che gli brillava al ricordo dei viaggi, delle avventure, degli amori, di tutto ciò su cui aveva messo avidamente le mani, attingendo senza risparmio ai doni della Dea Fortuna che l’aveva voluto bello e ardimentoso. E poco importava che adesso gli fosse rimasto solo un pugno di mosche, pareva gridare il suo riso sfrontato: l’aveva avuta ugualmente vinta sul fratellastro austero, ligio al dovere, alla famiglia, alla donna che lui aveva piantato in asso, distruggendone sogni e speranze.

Ma li aveva davvero distrutti del tutto?, si chiese Aurelio dubbioso. Qual era stata la reazione dell’incantevole Sofia nel trovarsi in casa l’uomo da cui era stata abbandonata? Che cosa sentiva nel vedere i due fratelli l’uno accanto all’altro, solido ma prosaico il marito, affascinante ma inaffidabile il vecchio fidanzato?

«Sono certo che mi capisci, Aurelio. Anche tu hai percorso in lungo e in largo l’Impero, senza nessuna voglia di tornare a casa» affermò Lucio, mentre gli occhi azzurri gli si perdevano in un punto lontano, vagheggiando impervie foreste e distese di acque tempestose e città dorate e lunghe strade bianche e aridi deserti e mari immensi e steppe riarse e montagne inaccessibili e pascoli sconfinati.

«Dove hai soggiornato più a lungo?» chiese il patrizio incuriosito.

«Be’, un po’ dappertutto: in Grecia, in Tracia, in Mesia...»

«Suppongo che avrai visto Tomi, il luogo dell’esilio di Ovidio» si fece attento Aurelio: era proprio a Tomi che, secondo Pomponia, Aconia Tranquillina aveva imparato a temere le empuse.

«Sì, Tomi, Odessus, Callatis, anche Serdica e Byzantium» elencò Lucio con un largo sorriso, cominciando a descrivere luoghi e popoli come se li conoscesse a menadito. Ma Aurelio, che poco si fidava della sua gran chiacchiera, non resistette a metterlo alla prova.

«A volte, giungendo ai limiti del mondo conosciuto ci si trova di fronte a fenomeni inauditi e spesso inspiegabili» affermò, non mancando di esagerare volutamente. «Gli Iperborei cari ad Apollo, lassù a settentrione, e gli Sciapodi dall’unico piede e il serpente basilisco che uccide con un semplice sguardo...»

Ma Lucio, tutt’altro che sprovveduto, si guardò bene dal cascarci.

«Di’, ma tu li hai mai visti gli Sciapodi da qualche parte? Io no» ribatté sarcastico.

«Nemmeno io. E le empuse?» insistette il patrizio.

L’altro non domandò chi fossero. Lo sapeva.

«Qualcuno pensa che esistano davvero» mormorò in tono distratto.

«Chi, precisamente?»

«Oh, non ricordo, l’ho sentito dire qualche tempo fa...»

«Dove? In Mesia, in Tracia, in Dacia, in Schitya, in Sarmatia?» lo tallonò il senatore.

«Giurerei di averne sentito parlare proprio qui, a Roma» rivelò Lucio d’un fiato, facendosi serio all’improvviso. Subito dopo riprendeva il suo contengo svagato: «Ma noi non siamo così sciocchi da crederci» concluse scoppiando a ridere.

«Certo che no!» ribatté il senatore, salutandolo amabilmente.

Furillo non ne poteva più di stare dritto in piedi, con l’odiosa bulla al collo, a salutare gente che non gli piaceva affatto, tutti con la faccia triste, come se fossero davvero in lutto per la nonna. Sapeva bene che si trattava di ipocriti: sapeva cioè che la teta era una vecchia despota, che nessuno l’aveva in simpatia, che suo padre le obbediva senza discutere salvo poi prendersela con lui per ogni nonnulla, che gli adulti dicevano un mucchio di bugie, facevano di nascosto cose proibite, fingevano sentimenti che non provavano affatto e chiamavano tutto ciò “buona educazione”.

Ma non tutti erano così, non lo zio. Chissà se la nonna gli aveva lasciato un po’ di soldi?, si chiese. Allora forse sarebbe ripartito per uno dei suoi viaggi e magari avrebbe accettato di portarlo con sé. Insieme sarebbero saliti su grandi navi che fendevano le onde, sbarcati in porti lontani dove si parlavano strane lingue e visto da vicino animali favolosi: pachidermi, chimere, centauri, ircocervi, sfingi, sirene.

A Furillo piaceva immaginare i boschi oscuri dove il pericolo era sempre in agguato, le onde gigantesche del mare aperto, i popoli selvaggi con un piede solo che comparivano sempre nei racconti avventurosi dello zio. In quel momento, però, si sarebbe accontentato di molto meno, di un viottolo, una stradina, anche solo un sentiero, lontano però da tutta quella noiosa commedia, che aveva visto il suo bravo fratello al centro della scena. Non che fosse geloso di quel bietolone, questo no – e come si poteva invidiare una mammoletta piena di brufoli che non sapeva tirare né di lancia né di gladio, aveva le spalle strette e le mani delicate di una fanciullina? –, però qualche volta gli seccava di essere il figlio numero due, quello da cui nessuno si aspettava niente, perché non era un ragazzo prodigio, lui, sapeva poco di greco e di latino e a star troppo sui libri gli veniva il mal di testa.

La cerimonia andava per le lunghe e nessuno gli badava più, ammesso che qualcuno ci avesse badato prima, notò Furillo. Forse c’era la possibilità di nascondersi in mezzo a tutte quelle toghe svolazzanti, guadagnare l’ingresso posteriore, saltare il muro di cinta e correre giù, oltre il Foro, nella Suburra, per cercare qualche giovane popolano con cui giocare a palla. No, niente palla, si corresse. Quel giocattolo tanto sospirato – ottenuto vendendo un volumen sottratto al fratello – gliel’aveva portato via un giovinastro scalzo dai pugni potenti, malgrado il suo incauto tentativo di opporsi: l’occhio nero, che invano si era sforzato di attribuire a una brutta caduta sul marmo del peristilio, gli aveva fruttato altre botte, una volta tornato a casa.

Non poteva andare lontano stavolta, suo padre l’avrebbe cercato e sarebbero stati guai grossi. Però aveva bisogno di un po’ di respiro, stava soffocando in mezzo a tutta quella calca, pensò, domandandosi se fosse una cosa molto brutta aver voglia di giocare mentre si ardeva il corpo della nonna. Ma non se ne sarebbe accorto nessuno. Detto fatto: pochi istanti dopo il ragazzino, arrampicatosi sulla siepe con l’agilità di un gatto randagio, era in cima al muro di cinta.

Anche Publio Aurelio, benché fosse un senatore consolare di altissimo rango, aveva sentito l’urgente bisogno di un po’ di aria fresca. Caso volle dunque che si trovasse sul retro della domus dei Babri quando la figuretta agile volò giù dal recinto e, avvistato l’importuno, tentò di riparare dietro a un vecchio pino.

«Gli alberi non sono l’ideale per eclissarsi, qualcosa sporge sempre. Non vorrai imitare i cani che, una volta nascosta la testa, sono convinti che tutto il resto resti invisibile?» gli fece osservare il senatore.

A Furillo scappò un’imprecazione, di quelle proibitissime che nessuno pronunciava in casa sua, ma lui aveva imparato durante le sue scorribande segrete: proprio dal senatore doveva farsi beccare, da quel pezzo grosso a cui suo padre teneva tanto!

«E vabbè, riportami indietro!» esclamò rassegnato. «Sarà solo qualche nerbata in più.»

«Perché mai dovrei farlo? Stiamo benissimo qui fuori» disse il patrizio additando la strada in salita che portava dritto alla residenza che era stata di Livia Drusilla Claudia e più lontano in basso la valle del Foro, con le sue colonne di marmo, i tetti rossi delle basiliche, i templi e gli archi. «Dov’eri diretto?»

«A giocare un po’. Ma non ho la palla, un prepotente me l’ha fregata a suon di sberle» raccontò il bambino, esagerando alquanto le dimensioni dell’avversario e tacendo prudentemente sull’origine poco onesta del giocattolo.

«E tu gliel’hai lasciato fare? Ciò è molto grave, giovane Furillo: a picchiare i più piccoli sono buoni tutti, comunque sarebbe una vigliaccata, e tu non mi sembri il tipo. Bisogna imparare a darle sode agli sbruffoni grandi e grossi, invece.»

«Vero» approvò il ragazzino. Quel tizio non era poi così male, assomigliava un po’ allo zio Lucio. Gliel’aveva chiesto, una volta, di insegnargli a difendersi e lui si era sforzato di fargli vedere alcune prese – doveva sapere cose straordinarie, per avere fatto fronte a tutti quei barbari spietati e a quei feroci pirati di cui raccontava sempre – ma le sue lezioni non erano servite a molto. Pensare che gli avevano raccontato come padre e zio, da ragazzi, erano stati entrambi abilissimi nel tiro con l’arco, al punto da sfidarsi continuamente... Nessuno dei due però si era mai offerto di insegnargli nulla. Il ricordo del severo genitore, sempre presente in fondo ai suoi pensieri, ebbe l’effetto di oscurargli all’istante il volto ancora infantile: «Mio padre non vuole che mi accapigli per strada».

«Ha tutte le ragioni. Ma non è neanche giusto consentire ai sopraffattori di rubare ai più deboli.»

«Vero anche questo.»

«Dunque, spiegami bene: il tuo aggressore era enorme, colossale e molto, molto aggressivo...»

«Proprio così!»

«Naturalmente avrai provato a rovesciarlo con un agile sgambetto.»

«A dire il vero no» si rammaricò Furillo.

«È sempre bene sfruttare la forza e l’impeto dell’avversario.»

«Come si fa?» chiese il ragazzino vivamente incuriosito.

«Lo sgambetto è un’arte: bisogna esserci portati e anche esercitarsi molto, serve costanza» stabilì il senatore con voce autorevole. «Prova a ribaltare me, per esempio.»

Furillo mise avanti il piede destro, e si trovò subito con la schiena a terra.

«Sbagliato! Per squilibrarmi, devi incastrare bene la gamba tra le mie e far leva: se trovi il punto giusto, ti sarà sufficiente una spintarella. “Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo!” diceva Archimede: vedi di applicare il suo principio.»

Chissà se le insegnavano in Curia quelle cose?, si chiese Furillo, e la sua stima per l’alta assemblea che legiferava da secoli sui destini dell’Urbe crebbe enormemente.

«Fammi riprovare» disse entusiasta e tentò di nuovo di stendere il senatore, ripromettendosi di domandare al suo dotto fratello notizie di quel tal Archimede, che doveva essere stato di sicuro un celebre lottatore antico.

«Va già meglio. Ma tieni presente che l’altro non se ne starà lì buono buono a farsi spedire col sedere all’aria, per cui devi anticipare le sue reazioni» chiarì Aurelio, scoprendo contro ogni previsione di possedere un’innata vocazione pedagogica.

Soltanto in quel momento gli venne in mente che la sfida nel corso di un solenne funerale tra un discolo e un padre coscritto in un vicolo polveroso del Palatino avrebbe potuto suscitare qualche perplessità in individui di idee ristrette, ancora prigionieri degli schemi ingessati della dignitas e del mos maiorum.

Troppo tardi. Alzando lo sguardo verso il pino che svettava ai margini della strada, il patrizio apprese con disappunto come il suo corso di lotta per principianti non fosse sfuggito a due ospiti ritardatari, che fissavano strabuzzando gli occhi la sua elegante toga col laticlavio, ormai del tutto impolverata. E non si trattava di personaggi di poco conto: il primo era l’augure Servio Cornelio, un triste figuro totalmente privo del senso dell’ironia, da cui il patrizio era spesso stato ripreso per la sua abitudine di irridere l’oracolo dei sacri polli, il sacrificio del cavallo di Marte e l’abbigliamento bizzarro del Flamen Dialis. Il secondo invece era l’edile Pinario Pulvillo, che lo aveva in forte antipatia, sospettandolo – a ragion fondata – di un trascorso con la di lui sorella, donna esuberante e oltremodo generosa delle sue grazie.

I due magistrati si scambiarono un’occhiata significativa, blaterando tra i denti qualcosa sull’irrimediabile declino dell’aristocrazia senatoria che difficilmente si sarebbe potuto scambiare per un apprezzamento verso l’ultimo erede della stirpe degli Aureli Stazi. Poi raccolsero con un gesto sussiegoso le falde della veste di gala e voltarono le spalle al reprobo per fare il loro solenne ingresso nella casa in lutto.

Poiché la frittata era fatta, sarebbe stato inutile tentare di raccogliere le uova, si disse Aurelio, rivolgendo di nuovo la sua attenzione al giovane allievo.

«Giova una bella ginocchiata all’inguine?» chiese quest’ultimo, che nel frattempo era andato elaborando i suggerimenti ricevuti poco prima.

«Non quando sei impegnato in uno sgambetto: una gamba ti serve per far leva, l’altra per star dritto, e purtroppo non se ne possiede una terza, a meno di essere una Triquetra.»

«Triché...?»

«È una testa di Gorgone, da cui si dipartono tre gambe tozze. Piaceva ai cretesi e anche ai siculi» spiegò Aurelio.

«Sai un sacco di cose» si stupì Furillo. «Come le hai imparate?»

«Oh, esistono molti modi di apprendere quello che non si sa... per esempio studiando» rispose il senatore. Il ragazzino storse la bocca, ma evitò di replicare, perché quello strano patrizio non gli sembrava proprio tipo da prediche.

«E se quando si sta per battersi viene paura?»

«È semplice: non la si fa vedere.»

«Anche se si ha una fifa blu?» domandò Furillo perplesso.

«Soprattutto se si ha una fifa blu» gli raccomandò il senatore, prima di accorgersi che il corteo funebre stava per avere inizio. «Ehi, sarà meglio riguadagnare i nostri posti prima che la nostra assenza venga notata.»

Poco dopo ricompariva tra i notabili, grave e serioso come si addiceva a un padre coscritto tenuto a partecipare a esequie solenni.

Furillo lo guardò con una certa ammirazione: quello era un uomo! Quasi come lo zio...