VII GIORNO
Casa di Aurelio sul colle Viminale
Il segretario terminò di fare i conti. A quanto si sarebbero potuti mettere i dieci cubicoli singoli? E le stanze a sei letti? Era il caso di prevedere un padiglione separato per gli ospiti di maggiore importanza? Si doveva consentire la presenza nella struttura di uno schiavo personale adibito ad assistere i pazienti durante la notte? In questo caso, quale maggiorazione di prezzo era ragionevole applicare? Sarebbe stato conveniente chiedere una piccola quota mensile preventiva alle famiglie, in cambio dell’assistenza gratuita in caso di malattia di uno dei loro membri? Un simile contratto poteva venir proposto, con eventuali agevolazioni, anche ai grandi proprietari che dovevano farsi carico della salute di un gran numero di servi, liberti o dipendenti a vario titolo? E gli infermieri sarebbero stati maschi o femmine? Ipparco avrebbe sicuramente preferito queste ultime, pensò Castore chiudendo i pugillares. Però bisognava prima convincerlo della bontà di un progetto amministrativo che l’avrebbe sollevato da ogni preoccupazione gestionale, lasciandolo completamente libero di dedicarsi all’ars medica. E ancor prima occorreva propiziare il finanziamento dell’opera, riportando agli antichi fasti la povera Pomponia.
«Iberina!» chiamò a voce tonante, e quando l’ancella comparve le annunciò: «Vieni, andiamo dal medico».
«Ma io sto benissimo!»
«Non è vero, sei malata. Senti un dolorino fastidioso... ecco, proprio qui» disse il segretario mentre le apriva la tunica per indicare il punto che avrebbe potuto indurre maggiormente in tentazione l’anziano cerusico. «Datti un po’ di fucus sulle labbra, bello rosso, mi raccomando: a Ipparco piacciono le ragazze vistose.»
Poco dopo i due prendevano la porta.
Ambulatorio di Ipparco in vicus Trium Ararum
«Ti preparerò un infuso di mammole, mirra e zafferano, con cui laverai gli occhi tre volte al giorno» sentenziò Ipparco, dopo aver osservato a fondo le palpebre arrossate di un nuovo paziente.
«Tutto qui?» replicò deluso l’altro, fermamente convinto che i bravi medici fossero quelli che ordinavano un gran numero di farmaci. «E quali giaculatorie dovrò recitare, nel frattempo?»
Ipparco ebbe un gesto di stizza e fu lì lì per ribattere che da secoli nessuno riteneva di dover coinvolgere i Numi dell’Olimpo nella cura di una semplice infiammazione. Una rapida occhiata al tessuto pregiato e alle vistose fibulae sulla tunica del cliente, tuttavia, lo persuase ad ammorbidire i toni: doveva far cassa per aumentare il salario della più giovane e graziosa delle assistenti, che minacciava di passare al servizio di un medico meno esperto ma più aitante, senza contare che l’ambizioso progetto del valetudinarium aveva impegnato ormai tutti i suoi risparmi. Pescò quindi in una pisside in cui conservava parecchi codicilli a uso dei devoti e dei superstiziosi, ognuno con una diversa preghiera, ed estrasse a caso il primo che gli capitò tra le dita.
«In questo particolare caso è bene rivolgersi a Giunone, che con i suoi grandi occhi bovini propizierà la guarigione» disse dopo aver letto il nome della divinità a cui era dedicata la supplica.
«Aiuterebbe un’offerta al tempio?»
«Male non fa» assentì Ipparco di malavoglia. I vari collegi sacerdotali avrebbero dovuto riconoscergli una congrua percentuale, anziché limitarsi a esporre gli ex voto dei pazienti persuasi che a risanarli fosse stata la benevolenza dei Numi, anziché la sua umanissima esperienza di povero mortale, pensò seccato mentre si detergeva accuratamente le dita nell’aceto.
C’era ancora una lunga coda in ambulatorio, ma il medico aveva tutt’altro per la testa: lo stabile da restaurare che aveva individuato per il centro era già stato messo in vendita e il senatore non accennava ancora a scucire il becco di un sesterzio, cosicché era stato costretto a provvedere di persona all’anticipo. Ma quando aveva cercato di affrontare lo spinoso discorso, Publio Aurelio aveva glissato, chiedendogli invece lumi su una certa malattia della pelle – richiesta molto strana, dato che nella pulitissima domus degli Aureli nessuno soffriva di simili affezioni – e sommergendolo poi di domande altrettanto strane sulla decomposizione dei cadaveri. Sì, era possibile che una salma, sostanzialmente integra subito dopo la morte, apparisse a due giorni dalla dipartita fin troppo gonfia: dipendeva dalle condizioni in cui era stata conservata, aveva risposto con infinita pazienza Ipparco, ben sapendo che il senatore non si sarebbe accontentato di spiegazioni approssimative. Poteva avvenire, per esempio, se il corpo era stato esposto a una fonte di calore vivace, oppure se il processo di disfacimento che segue alla dipartita era stato interrotto o rallentato da qualche fattore esterno, quale ad esempio il freddo, per riprendere poi con improvviso vigore. Proprio a questo proposito, aveva aggiunto sagacemente il medico, era il caso di prevedere nel costruendo valetudinarium un locale sotterraneo dove mantenere freschi i cadaveri, in modo da poterli poi sottoporre a un’eventuale autopsia... Ma bisognava fare in fretta, molto in fretta, perché occorrevano fondi immediati.
«Corri troppo, pensa a guarire Pomponia, poi si vedrà» era stato il commento spicciativo del senatore, e Ipparco non aveva osato dirgli di avere iniziato a credito i lavori di restauro all’edificio presso la porta Esquilina prima ancora di cominciare a curare la matrona.
Presto i creditori avrebbero bussato alla sua porta, trovandolo del tutto insolvente... Asciugatosi le mani, Ipparco accantonò il grave cruccio, per concentrarsi di nuovo sui pazienti: avrebbe dovuto curarne settemilaseicentoquattro soltanto per pagare i primi debiti, quindi tanto valeva cominciare.
«Avanti il prossimo!» annunciò e alla porta comparve uno sfolgorante Castore, che spinse dentro la procace ancella Iberina.
«Dove avverti il dolore, esattamente?»
La ragazza indicò il cuore, e mentre il medico si chinava, gemette piegandosi in due: «Ohhh, mi manca il respiro!».
Con gesti rapidi Ipparco disfece il nodo dello strophium, mettendo a nudo il seno. Se ne stava lì, con l’orecchio incollato al busto della ragazza e la mano destra impegnata a tenere discosta la poppa bianchissima, quando Castore, che aveva origliato tutta la conversazione per entrare al momento giusto, fece irruzione nell’ambulatorio.
«Ah-ah!» disse alzando l’indice in segno di rimprovero. «Mi meraviglio di te, Ipparco. D’accordo che malgrado l’età tu non voglia darti per vinto, ma non ti credevo capace di approfittare del tuo ruolo professionale e della fiducia riposta in te dal senatore per molestare la sua ancella preferita.»
«La ragazza si sente male!» ribatté il medico, prima di accorgersi che Iberina aveva gli occhi di nuovo aperti e sembrava stare benissimo. «Ah, brutto imbroglione! Di tutti i trucchi più lerci, luridi, immondi, vili e meschini...»
«Calma, calma, non sarò certo io a fare la spia.»
«Mai e poi mai Publio Aurelio crederebbe a una simile fandonia!»
«Oh, certo, il dominus è senza dubbio troppo nobile per contestare le tue esose parcelle, per quanto poco gradisca che ci si avvicini a donne che gli spettano di diritto, come signore e padrone della sua casa!» mentì spudoratamente Castore, che alla bella Iberina si avvicinava spesso e volentieri.
«Fuori di qui, infame ciurmatore!» gli ingiunse Ipparco, rosso fino alla punta dei capelli.
«Aspetta, approfittiamone per scambiare due chiacchiere... ti cerco da qualche giorno, ma pare che sia più facile ottenere un’udienza da Claudio Cesare al Palatino che prendere un appuntamento con te!»
«Il mio tempo appartiene ai pazienti.»
«Ed è appunto di questi che desidero parlarti» spiegò il segretario, per poi ordinare in tono mielato all’ancella. «Vai pure, cara, ci vediamo stasera.»
Ipparco, però, che si era offeso assai per la sceneggiata, afferrò un bisturi affilato e lo puntò con fare deciso all’inguine dell’alessandrino. «Ti concedo soltanto dieci parole, prima di tagliare netto.»
Il segretario non batté ciglio. «Tu lo vuoi il tuo valetudinarium, vero? Ebbene, anch’io! Ecco fatto: dieci parole in tutto!»
Il medico abbassò la lama, scorato.
«Non l’avrò mai e per di più andrò in rovina!» gemette raccontando per filo e per segno le sue amare vicissitudini. «Come posso guarire la matrona Pomponia, se rifiuta di assumere i miei farmaci?» borbogliò infine con un singulto.
«Faremo in modo che li prenda ugualmente!» esclamò il segretario con un gesto di incoraggiamento.
«Ma in che modo?»
«Per questo esiste Castore, il fido Castore, il probo Castore, il tuo amico Castore! Combatteremo gli impostori con le loro stesse armi: influsso benefico contro influsso benefico, acqua miracolosa contro acqua miracolosa. Ho la persona adatta per influenzare la cara signora: accetterà di aiutarci, vedrai, basta soltanto che ci presentiamo a lui con una buona provvista di lupini tostati... inoltre sto elaborando un piano che ti permetterà di salvare il tuo ospedale e guadagnarci pure. Intanto corri a offrire un sacrificio ai Numi, perché ho trovato chi ti finanzierà: Numerio Aurelio Figulo, cugino del senatore!»
«Ma nemmeno per sogno, ti conosco troppo bene! Niente imbrogli nella mia professione: io sono un bravo medico» chiarì l’altro risentito.
«E bravo medico rimani, Ipparco» lo rassicurò il segretario. «Però bisogna vedere se preferisci essere un bravo medico ricco o un bravo medico povero. E adesso ascoltami...»
Via Appia a Porta Capena
Uscita dall’ambulatorio, Iberina non si diresse subito alla grande casa sul Viminale: l’intendente Paride non la vedeva, il segretario non la vedeva, il medico dalle mani lunghe non la vedeva, e non la vedeva nemmeno quel patetico sacco di lardo con la testa a pera che si era messo ad asfissiarla con le sue pressanti attenzioni. Aveva quindi modo di dedicarsi ai suoi passatempi preferiti, tra i quali spiccava, per interesse e vocazione, la compagnia di maschi vigorosi e piacenti.
Percorso il vicus Trium Ararum, l’ancella si lasciò alle spalle il Circo Massimo, dirigendosi verso le torri gemelle di Porta Capena, dove terminava la zona all’interno della quale era proibita la circolazione dei veicoli a trazione animale durante le ore diurne. Subito dopo la porta, cominciava l’Appia, col suo traffico caotico di carri, carretti, carrucae, birocci, raedae, e, data la vicinanza del circo, pure bighe e quadrighe. A farla da padroni erano cavalli, asini e buoi, in attesa del calar del sole per entrare in centro, coi carichi destinati ad approvvigionare l’intera città. Ce n’erano ovunque, persino davanti al porticato del tempio di Honos et Virtus, e occorreva prestare la massima cura a dove si mettevano i piedi, per non imbattersi in qualche maleodorante deiezione.
Iberina sollevò un poco la sua lunga tunica all’ultima moda – Publio Aurelio si vantava di vestire le sue ancelle meglio di molte matrone –, del tutto inadatta a scarpinare sul lastricato di una strada periferica. Non sempre però alla raffinatezza esteriore faceva riscontro un’equivalente gagliardia, e Iberina non mancava di apprezzare i modi rozzi e immediati dei popolani, quando erano accompagnati da argomenti sostanziosi. Aveva dunque imparato a procacciarsi ogni tanto qualche diversivo ruspante nei quartieri bassi: l’appetibile giovanotto che due giorni prima l’aveva fermata all’Argiletum, esibendo un magnifico sorriso e un’espressione vogliosa, pareva dotato di tutte le qualità necessarie per ambire a far parte delle sue frequentazioni segrete, quindi gli avrebbe fatto una sorpresa...
La bottega si apriva sul recinto adibito alla cura degli animali da traino e al pareggio degli zoccoli, messi a dura prova dai lunghi viaggi. L’ancella avanzò trionfante, senza accorgersi dell’ombra nascosta dietro l’attiguo sepolcro dei Marcelli, intenta a spiarla come un pettirosso che osserva l’agitarsi di un lombrico sotto una zolla di terra.
«Pollio, sei qui?» chiese la ragazza con voce argentina.
Vedendola accanto al cancelletto, il giovane dal bel sorriso mollò immediatamente la zampa dell’asina che stava accudendo e le andò incontro, mentre lei giocava a farsi rincorrere rintanandosi dietro all’animale e sporgendo poi la testa come a comporre il profilo di uno scherzoso centauro.
Poco dopo lo stalliere la guidava all’interno dell’officina, chiudendosi ben bene alle spalle la serranda di legno.
Casa di Aurelio sul colle Viminale
Castore, dopo aver ascoltato il racconto del padrone sulla popina, aveva deciso di misurarsi anche lui in qualche partitella alla taberna lusoria dell’Argiletum. Poche ore più tardi faceva dunque ritorno al Viminale, le spalle appesantite dalle tuniche, dagli abiti e dai mantelli di cui aveva spogliato gli incauti giocatori con i suoi famosi dadi truccati, ovviamente dopo aver loro sottratto tutti i liquidi e gli eventuali certificati di deposito. Carico com’era, quasi si scontrò col pio Paride che accompagnava alla porta due visitatori dall’aspetto inconsueto, candido quello alto e magro, giocosamente multicolore quello piccolo e grosso, che cercava di raddoppiare la statura minuscola inalberando in testa una mitria gigantesca.
Paride li salutò con un’aria tanto lieta da sfiorare la demenza, tenendosi la mano destra sulla fronte come se le sopracciglia rischiassero di cadergli da un momento all’altro sul naso.
«Chi erano quelli?» chiese Castore con interesse non troppo profondo, mentre l’intendente continuava a sorreggersi la testa nella speranza di trattenere ancora qualche istante il calore taumaturgico emanato dalle mani di Calcedonio.
«Guaritori. Mi hanno offerto una seduta gratuita perché sperimentassi il loro metodo assolutamente innovativo contro il raffreddore perenne che mi perseguita.»
«Funziona?» domandò scettico l’altro.
«Spero. La terapia è lunga e costosa, ma per fortuna ho qualche risparmio da parte.»
«Bravo, pensa a star bene, Paride» gli batté la mano sulla spalla Castore, convinto in cuor suo che la salute precaria dell’intendente dipendesse soprattutto dalla grave carenza di liquori inebrianti, di carne suina bella grassa e di esercizi fisici volti alla riproduzione.
Poco dopo entrava in cucina con l’intenzione di dissetarsi decentemente, visto che alla bisca gli era toccato di ingollare un vinaccio imbevibile per ingraziarsi i polli da spennare. In un angolo occhieggiava una giaretta di liquore di Chio, allungato con l’acqua di mare, che poche ore prima non c’era. Stava per romperne il sigillo quando scorse accanto ai fornelli un’anfora già aperta di buon Ulbano schietto, molto più vigoroso e saporito. Si versò in gola quello, decidendo di incamerarsi comunque il vinello greco in attesa di una buona occasione per scolarselo.
Casa dei Babri sul colle Palatino
Sofia, celata dietro alla cortina del tablino, contemplava con fierezza il figlio maggiore, chino su un esercizio di composizione greca.
Quando l’aveva messo al mondo, a poco più di diciassette anni, le era subito stato evidente che non sarebbe diventato un colosso. Poi era iniziata una lunga odissea tra medici, farmaci e persino indovini. Lei aveva tremato per la vita del figlio ogni volta che si prendeva una brutta febbre, cercando di non ascoltare Fastia, che, tirando in ballo fatture e malefici, le faceva cambiare bambinaia a ogni piè sospinto. Ovviamente si trattava soltanto di sciocche superstizioni, perché se la nonna avesse avuto ragione, allora non avrebbe dovuto cercarla molto lontano, l’incantatrice invidiosa, perché era evidente quanto Lavinia la invidiasse, per la sua bellezza, per il marito e per i suoi figli, e chissà quante ne aveva imparati, di sortilegi, mentre viveva in campagna, in mezzo agli schiavi ignoranti degli ergastula rurali! Ma a quelle ciance lei non prestava fede e comunque non era certo la cugina povera che Sofia temeva. Ben altro era il dubbio, ben altro il rimorso: parecchie volte, vegliando al capezzale del figlio ammalato, si era domandata se la fragilità del piccolo non nascesse dalla sua stessa colpa, e si era ripetuta che no, non poteva essere vero. L’antica teoria della contaminatio, ormai desueta, voleva infatti che qualunque contatto fisico col maschio inquinasse per sempre la donna che vi aveva accondisceso – anche se forzatamente – rendendola indegna di un onesto sposo: per questo la nobile Lucrezia si era data la morte dopo essere stata violata dal figlio di Tarquinio il Superbo, chiedendo al marito Bruto di vendicarla. Da quel gesto eroico erano nati i consoli, la repubblica, la gloria di Roma. Ma naturalmente nessuno credeva più a quelle vecchie storie del mos maiorum, nemmeno lei, quindi la debolezza del suo primogenito non poteva essere ascritta al suo cedimento, la notte prima che Lucio partisse, quando era scivolata fuori dalla casa di suo padre per raggiungerlo. Era stato allora che lui le aveva dato la catenella d’oro rosso da portare alla caviglia: sarebbe stato il loro segreto, il loro pegno fino al suo ritorno. E lei l’aveva messa, ogni giorno, aspettandolo con un languore che credeva estraneo al suo sesso, identico a quello che riconosceva ora montarle dentro impetuoso, dopo tanti anni. L’aveva tenuta al piede anche mentre portava nel suo ventre il figlio di un altro, fino al giorno in cui aveva capito che non sarebbe tornato mai più.
«Madre!» esclamò Quinto scorgendola con la coda dell’occhio accanto alla cortina.
«Sono qui, caro» rispose lei sollecita, cullandoselo con gli occhi.
Un figlio simile – intelligente, volenteroso e di buon cuore – era un dono degli Dei che andava meritato, pensò. Si ripassò a memoria i versi del primo commovente distico che lui le aveva dedicato a nove anni e quelli della lunga ode in suo onore, redatta soltanto l’anno prima.
All’improvviso la sfiorò il pensiero di Furillo. Stava forse trascurandolo? Quando si era scoperta pregna per la seconda volta, le era parso quasi di far torto all’amatissimo primogenito mettendo al mondo un altro figlio. Ma il nuovo bimbo era sano e forte, non necessitava di attenzioni particolari, non le chiedeva nemmeno; mai a piangere, mai a mendicare carezze o parole di sostegno, mai a lamentarsi della severità paterna, in verità quasi eccessiva. Il ragazzino andava raddrizzato, pensavano Quinto e la nonna, pena trovarsi un delinquente in famiglia. E forse non avevano tutti i torti, perché di qualche furtarello Furillo si era già macchiato davvero, senza contare le continue fughe, alcune delle quali lei stessa aveva coperto, mentendo al marito. Lui però non pareva esserle molto grato: era un adolescente chiuso, scontroso e taciturno, che, a soli dodici anni, ostentava di non aver bisogno di nessuno: un bambino schivo, pronto a rifiutare le sue tenerezze, si disse con un rammarico Sofia. Un cocciuto, un ribelle, un sedizioso inemendabile a giudizio di Quinto, che non riponeva in lui alcuna fiducia. Quella piega volitiva nella bocca da chi l’aveva presa? E quello sguardo torvo? E la mascella quadrata, così priva di grazia infantile? Non certo da lei, e nemmeno dal marito. Forse in Furillo ribolliva il sangue duro della nonna o del prozio, l’Avvoltoio...
«Temo di non riuscire a terminare per stasera, madre» confessò Quinto, e subito Sofia accantonò il pensiero di Furillo per dedicare al suo prediletto una completa attenzione.
«Smettila con i libri, vai a dormire, non lo dirò a tuo padre, stai tranquillo» lo rassicurò, spostandogli i capelli dalla fronte, come si fa con i fanciullini.
«Hai provato a parlargli della Grecia?»
«Non c’è ancora stata occasione, ma capiterà presto, ora che la nonna non c’è più» si schermì Sofia.
«Ci terrei molto: tutti i giovani romani compiono un viaggio di istruzione nell’Ellade...»
«Verrà il momento, vedrai, sei ancora tanto giovane.»
«Madre, ho quasi diciassette anni!»
«Per me resterai sempre un bambino» dichiarò Sofia, con l’intenzione di confortarlo.
Quinto invece avvertì un improvviso – e imprevisto – moto di insofferenza montargli dentro. Ma un attimo dopo già se ne rammaricava: l’appoggio di sua madre non gli sarebbe mai venuto meno, si disse, obliterando subito quel pizzico di irritazione che le parole troppo protettive gli avevano provocato. Lei sarebbe sempre stata al suo fianco e avrebbe sempre lottato per difenderlo, si ripeté convinto, senza accorgersi di stare cancellando inconsapevolmente dai suoi pensieri, dai suoi affetti e dalla sua stessa vita il fratello discolo e il padre incontentabile.
«Eccovi di nuovo! E scommetto che vi farebbe comodo qualche moneta!» disse amabile il senatore, che si era piazzato dietro alla casa dei Babri proprio per far la posta ai due gemelli.
«Altri due assi, magari» approvò di buon grado Pilunno. «Ci abbiamo bevuto del vino proprio buono!»
«Buono!» approvò l’altro, mentre tirava la manica del fratello per fargli segno di chiedere di più.
«Stavolta saranno due sesterzi, se mi direte qualcosa di interessante sui vostri nuovi padroni.»
«Il padrone vero è uno solo» rivelò subito il gemello ciarliero. «L’altro non conta niente, anche se ci ha provato – oh se ci ha provato! – a infinocchiare la vecchia: “Teta di qua, teta di là, sapessi che cosa mi è capitato quando ero prigioniero dei barbari, eh, è stata dura teta, ho temuto di non rivederti, ma fortunatamente sono riuscito a far ritorno!, eccetera eccetera”. Un leccapiedi! Fossi stato padron Quinto lo avrei sbattuto fuori a calci!»
«Calci, calci!» ribadì Picunno convinto.
«Dunque secondo voi il primogenito tentava di rientrare nelle grazie della nonna a scapito del fratello minore.»
«Mica solo della nonna!» esclamò Pilunno, stringendo l’occhio con aria complice. «Quando si è stati fidanzati con una bellissima donna, che poi ha sposato un altro, non sarebbe insolito sperare che qualcosina dell’antico affetto si sia conservato... e vivendo sotto lo stesso tetto, le tentazioni sono forti. Non mi meraviglierei se i due Babri, prima o poi, venissero alle mani.»
«Però, se ho ben capito, sono tutte illazioni e di prove non ce ne sono» specificò il patrizio.
«Illa... che?» aggrottò le sopracciglia Picunno.
«Sì, insomma, Lucio e la cognata... nessuno li ha mai trovati in atteggiamento compromettente, vero?»
«Compro... che?» ripeté il gemello taciturno, mentre tra gli occhi gli si formava una grossa ruga, simile a quella che compare sul muso di un cane obbediente quando non è sicuro di aver capito bene un ordine.
«Insomma, quei due se la fanno davvero assieme o si tratta solo di voci?» andò al nocciolo della questione Aurelio.
Il quesito, tutt’altro che semplice e irrilevante, rese necessario un consulto: i gemelli confabularono a lungo, sottovoce, ma in modo tanto vivace che risultò evidente come, per una volta, fossero di opinioni completamente diverse.
«Ecco, non siamo sicuri... secondo te, per camminare con una caviglia gonfia ci si deve appoggiare a qualcuno? Devi sapere che tempo fa, mentre padron Quinto era fuori, ci è capitato di entrare all’improvviso in un tablino e lì c’erano Lucio e la giovane kyria, molto vicini.»
«Vicini, vicini» ribadì il fratello, indulgendo all’abitudine fastidiosa che ad Aurelio dava pesantemente sui nervi.
«Lui sembrava sorreggerla, ma un maligno avrebbe potuto pensare... noi però non si è pettegoli, quindi non abbiamo pensato niente, tanto più che, non appena ci ha visti, la kyria ha liquidato il cognato con occhi di brace, dandoci ordine di preparare un cataplasma di albume d’uovo, perché si era presa una storta.»
«Avete qualche altro fatto strano da raccontarmi?»
«Ci sarebbero le vesti umide della padrona che abbiamo trovato tra la roba da mandare in lavanderia, il pomeriggio della sua morte, ma questo certamente non può interessarti» affermò Pilunno.
«Le avete conservate?» volle sapere il patrizio, ricordando che sul letto di morte Fastia indossava abiti asciuttissimi e puliti. Alla risposta negativa, trasse dal borsello i due sesterzi e ne fece baluginare un terzo sotto gli occhi dei servi.
«Ancora una domanda. Voi siete cresciuti con la padrona, che senza dubbio conosceva tutte le leggende dell’antico popolo etrusco, quindi forse avete sentito parlare di spiriti di sesso femminile pronti a giacersi con gli umani...»
«Magari esistessero davvero, non è facile trovare certe cuccagne!» esclamò Pilunno, vivamente attratto dall’idea. «Però è vero, la kyria raccontava delle storie di demoni: Mania, la follia, che governa il mondo dei morti assieme al suo sposo Mantus, poi Charun dal viso deforme, che è il Caronte dei greci, e Tuchulcha, dal volto di avvoltoio e dalle orecchie di asino, armato di serpenti...»
«Quelle di cui voglio sapere vengono chiamate empuse» specificò Aurelio.
«Mai sentite nominare» escluse drasticamente Pilunno, e il gemello gli fece prontamente eco: «Nominare», suscitando nel patrizio il vivissimo desiderio di torcergli il collo.
Scomparso dalla vista il senatore, Pilunno si rivolse al fratello. «Forse dovevamo dirgli della caverna e del tesoro... ma noi non si è pettegoli! Siamo stati anche troppo imprudenti anni or sono, lasciandoci scappare qualche parola di troppo per vantarci della nostra impresa con la kyria. Vabbè, eravamo tanto giovani... e comunque tutti ne parlano, ma nessuno ci crede davvero» minimizzò, mentre il fratello assentiva, evitando di ripetersi, quasi non fosse del tutto convinto.
Aurelio attese che tutta la famiglia uscisse, accompagnata da servi e da ancelle, diretta in due diversi stabilimenti termali: verso un bagno molto riservato ed esclusivamente femminile Sofia, alle comuni terme dietro il Palatino Quinto con i figli.
Come aveva sospettato, Lavinia non si era unita al gruppo: era probabile che avesse provveduto da sola alle abluzioni quotidiane durante il mattino, senza schiave di sorta a lavarla. Lo ricevette in un piccolo tablino isolato, con un entusiasmo invero non eccessivo e l’atteggiamento irrequieto di un cavallo da guerra che dilata le narici in attesa della battaglia.
Vestiva un abito di un’insolita sfumatura zafferano, che dava al suo volto bruno un pallore inquietante, quasi cinereo. Ecate dal manto color del croco, si sorprese a pensare Aurelio, echeggiando il verso di un celebre inno alla madre delle ombrose empuse: Ecate, l’amante della solitudine. Ecate, la domatrice di tori. Ecate, la luna calante. Ecate dai sandali bronzei. Ecate che si batte con la fiaccola, la spada e la lancia, accompagnata dal cane Molosso. Ma come poteva evocare la Dea infernale raffigurata sull’altare di Pergamo con tre teste e sei braccia, quella che, a dispetto degli sforzi per non sembrarlo, era indubbiamente una bella ragazza? Era forse l’espressione rancorosa degli occhi duri, specchio della rabbia che le covava dentro da troppo tempo, fin da quando aveva capito di dipendere in tutto e per tutto dalla carità pelosa della nonna? Una bella ragazza dal carattere bisbetico, si disse il senatore, dettaglio però che, lungi dallo spegnere il suo gusto per la sfida, lo attizzava assai.
«Che cosa vuoi che ne sappia io di tombe antiche e taverne della Suburra!» sbuffò lei, seccata dalla domanda. «Chiedilo ai miei cugini, Quinto il solerte amministratore e Lucio l’ardimentoso avventuriero, oppure alla domina di questa casa, a cui basta un battere di ciglia per far balzare il cuore in petto agli uomini!»
«Ah, ah, sei gelosa, piccola vipera!» rise Aurelio estasiato.
«Non certo di te, egregio Publio! Mi è concesso chiamarti così, vero, o è ritenuto poco rispettoso rivolgersi per nome a un senatore? Che cosa ti fa supporre di potermi interessare? Vediamo un po’...» disse Lavinia e cominciò a girargli lentamente attorno, fissando con particolare insistenza il torace, i glutei e l’inguine.
Era esattamente ciò che avrebbe fatto lui per mettere una donna in imbarazzo, sorrise Aurelio, trovando all’inizio assai divertente l’inusitato scambio di ruoli, convinto com’era che non fosse in grado di provocargli alcun impaccio. All’inizio, appunto. Qualche istante più tardi, tuttavia, il sorriso divenne leggermente forzato. Dopo un po’ si sorprese a provare un lievissimo fastidio. Dopo un altro po’ dovette ripetersi con tetragona sicurezza che aveva tutte le carte in regola per superare un’ispezione tanto minuziosa. Infine cominciò a chiedersi quanto sarebbe durato quello stupido gioco.
«Hai terminato?» domandò spavaldo, sperando che la voce non rivelasse la minima incrinatura.
«Quasi» rispose Lavinia tranquillissima.
La ragazza giocava duro, non era il caso di cascarci. O almeno non era il caso di far vedere di esserci cascato, pensò il patrizio, mettendosi ad aspettare pazientemente il verdetto.
Lavinia però non proferì parola. Si stava già avvicinando alla soglia del tablino, quando Aurelio, malgrado tutti i suoi buoni propositi, non resistette a chiederle: «Ebbene?».
«Sai come dicono rispondesse Marco Antonio, quando gli domandavano di Cleopatra? “Una regina, nuda, è una donna come le altre.” Be’, anche un senatore, nudo, è un uomo come gli altri» ribatté lei con un sorriso tagliente, mentre prendeva la porta.