13

 

Lago Maggiore, 1893

A Berenice Lovati piaceva la propria indipendenza e non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo, neppure per un marito. Non sentiva affatto la mancanza di un uomo. Non dopo il fuggevole e squallido rapporto avuto con un mascalzone che aveva tradito la sua fiducia, all’unico scopo di annotare una conquista in più nell’elenco dei trofei sentimentali al suo attivo. Ma l’esperienza serve pure a qualcosa e la batosta inflittale da Elpidio Cernuschi, un damerino fatuo e sfaccendato, le aveva insegnato che ci si rimette sempre un po’ di cuore cedendo alle false lusinghe dei libertini in circolazione. A prescindere dalla determinazione con cui scoraggiava qualunque corteggiatore apparisse all’orizzonte, dal fatto di non avere uno straccio di fidanzato e che non lo stesse neppure cercando, per lei la vita era soddisfacente quanto bastava a rendere costruttive e serene le sue giornate. Obbedire a un despota con baffi e calzoni non rientrava nei suoi progetti futuri!

E non le importava nulla se veniva considerata una stravagante zitella perché a ventisei anni non era sposata e neppure in procinto di convolare a nozze. Berenice era una fautrice del progresso e giudicava una barbarie che, alle soglie del XX secolo, la condizione femminile fosse ancora così rigidamente imbrigliata in schemi antiquati e restrittivi. A suo modo di vedere, la colpa era delle donne stesse, e benché una ristretta percentuale di loro rivendicasse una totale uguaglianza con gli uomini, le altre non sembravano perseguire aspirazioni diverse da quella di realizzarsi in ambito matrimoniale. Naturalmente a parole tutte facevano un gran parlare di diritti negati e di volontà di affrancarsi dal soffocante predominio maschile cui le donne erano state soggette per secoli. Chiacchiere, perché poi si innamoravano e addio sogni di emancipazione! Gettati alle spalle proteste e reclami, si accontentavano del tradizionale ruolo di moglie prima e di madre dopo. Curiosamente, le signore che frequentava, poche in verità, non suscitavano l’impressione di essere molto felici per aver coronato il loro romantico sogno d’amore. In effetti potevano anche essere sovrane incontrastate di quel regno domestico che era la casa, ma questo comportava l’asservimento ai doveri coniugali e alle regole imposte loro dai mariti, che le trattavano come schiave.

Nella sua allargata famiglia matriarcale, invece, non c’erano tiranni che spadroneggiavano come sultani d’oriente, Dio ce ne scampi! Magari qualcuno era convinto che sulle donne di casa Lovati pendesse un’oscura maledizione che comprometteva fidanzamenti e matrimoni, constatato che sia gli uni sia gli altri immancabilmente fallivano. Avendolo dunque sperimentato di persona, nessuna di loro si era azzardata a riprovarci. Essere padrone incontrastate della propria vita era un privilegio, ma la solitudine affettiva era il prezzo che si doveva pagare in cambio dell’autonomia individuale.

Forse l’ipotesi della maledizione non era poi così assurda perché, malgrado avessero fatto del loro meglio per mostrarsi buone mogli, i mariti a un certo punto avevano disertato oppure avevano spostato l’attenzione altrove. Con un’aneddotica così poco promettente, le Lovati alla lunga avevano desistito dall’impari lotta contro un destino che perseverava ad accanirsi e che le voleva evidentemente sole.

Be’, meglio sole che male accompagnate, comunque!

Deluse chi da un amaro abbandono del marito, chi dalla disonestà di un fidanzato, come Berenice, quattro generazioni di donne con un cospicuo conto in sospeso verso gli uomini coabitavano in discreta armonia in una villa di epoca settecentesca ristrutturata e immersa in due ettari di giardino verdeggiante, circondato da un alto muro di cinta che, come un bastione difensivo, si ergeva tra loro e una società che era ancora profondamente maschilista.

Sua madre Marta guardava però al passato con il distacco di chi è ormai oltre il rancore e le inutili recriminazioni. Il marito e padre di Berenice, inseguendo il sogno di una facile ricchezza, non dava più notizie di sé da quando, tre lustri prima, era partito per il remoto Klondike a cercare l’oro in compagnia di altri illusi. Marta non aveva la minima idea di dove avrebbe potuto indirizzare una lettera per sapere se era vivo o morto. Si considerava vedova a tutti gli effetti e si era messa il cuore in pace da un pezzo, convinta che lui non sarebbe ritornato mai più.

Il marito di nonna Luisa era addirittura riuscito a far invalidare dalla Sacra Rota le loro nozze quando un’ingenua ereditiera aveva perduto la testa per lui al punto da finanziare di tasca propria la causa di annullamento. Abbandonate moglie e figlia senza un barlume di scrupolo, suo nonno aveva disconosciuto la prole per venalità e convenienza. Era stato un affronto per Luisa, diventata bersaglio dei maligni pettegolezzi del prossimo, alimentati dal suo ex marito al fine di giustificare agli occhi altrui il suo indegno comportamento. Ma non era sempre il più debole a essere linciato dalle malelingue? Lei aveva sopportato e sofferto in silenzio e tirato avanti a testa alta, consapevole che un simile vigliacco non meritava una lacrima né un rigurgito di rimpianto da parte di una moglie che anziché dolersi doveva rallegrarsi che fosse stato accalappiato da un’altra.

Stessa sorte era toccata alla mite zia Finnea, il cui marito, colto da una improvvisa vocazione religiosa, si era ritirato in un convento da un giorno all’altro facendosi frate. Fortunatamente, nel loro caso, non c’erano figli, ma a Finnea era occorso molto tempo prima di riuscire a trovare la forza di rassegnarsi allo strano epilogo della sua unione coniugale. Quanto al monaco, incurante del dispiacere che le aveva inflitto, aveva persino la spudoratezza di scriverle in occasione delle ricorrenze canoniche quali Natale e Pasqua, inviandole come se nulla fosse la sua benedizione. Lei non aveva mai contraccambiato, limitandosi a gettare tra le fiamme i suoi messaggi.

Andando a ritroso nel tempo, Berenice aveva verificato che neppure alle antenate erano state risparmiate disastrose traversie coniugali. Probabilmente, era stato tramandato ai discendenti un resoconto delle vicende un po’ romanzato, ma c’era in ogni caso da sbizzarrirsi perché pareva sancito dal fato che le donne della famiglia Lovati dovessero imbattersi solo in furfanti dall’indole gretta e che si distinguevano per esemplare egoismo.

Opportunisti come quasi tutti i rappresentanti dell’altro sesso, quegli uomini si erano adoperati essenzialmente per soddisfare se stessi e le proprie inclinazioni, più che le esigenze di mogli e figli. Perché, a conti fatti, erano i figli a scontare in prima persona gli errori di quei padri sconsiderati. Lei non era disposta a correre rischi di quel genere, né teneva a farsi piantare di nuovo in asso da una canaglia. Era forse indispensabile esibire un giovanotto al fianco e avere una fede al dito per sentirsi realizzate?

Assolutamente no!

Le disillusioni erano sempre in agguato, e il passato non si poteva relegare in un ripostiglio come una cosa che non serve più: ciò che si è vissuto, nel bene e nel male, finiva per condizionare sia il presente che futuro, se non si imparava dai propri errori. Di conseguenza, una Lovati portava con fierezza le cicatrici della mal riposta fiducia negli uomini e non cadeva due volte in certe trappole allettanti. Tieni gli occhi aperti e il cuore chiuso, insomma, era diventato per lei un efficace monito a non lasciarsi fuorviare dagli ardenti baci di un innamorato.

Berenice traeva grandi soddisfazioni dal lavoro che svolgeva, e a volte si chiedeva come potessero altre donne optare per una diversa scelta accettando di dipendere dai loro mariti. Lei adorava scrivere e illustrare racconti per bambini: dalla sua penna nascevano folletti, fate e streghe che poi tratteggiava abilmente con gli acquerelli. Il talento era fonte di gioia, e farsi trasportare dalla fantasia in quella soleggiata casa nei dintorni di Angera era il non plus ultra della fortuna. Firmava le fiabe con lo pseudonimo di Tifania Stella e l’editore, un distinto signore di mezza età, pubblicava volentieri le sue opere sebbene fossero create da una donna, forse perché i piccoli lettori erano entusiasti delle portentose creature ideate da Tifania. I folletti Yoda e Dudis, la fata Sprilù, la strega Oxana erano soltanto alcuni dei personaggi di cui narrava le peripezie. Tuttavia, anche se dotati di portentosi poteri magici, li aveva resi simpatici attribuendo loro dei difetti molto umani.

«Berenice, cara, c’è un selvaggio al cancello che vuole parlare con qualcuna di noi» le annunciò sua madre, entrando nello studio in quel momento. «Credi sia opportuno riceverlo?»

«Un selvaggio, mamma?» lei riemerse dai propri pensieri e scrutò con perplessità Marta. «In che senso quel tale sarebbe un selvaggio

Marta inarcò un sopracciglio. «Be’, ha una bizzarra giacca con le frange e un cappello sformato che mi pare sia quello portato dai famigerati cowboy del West... Sai, l’ho visto su un libro che descrive i popoli dell’America.»

«Il che non fa necessariamente di lui un selvaggio» obiettò Berenice con dolcezza. Voleva un bene dell’anima a sua madre, coraggiosa e pragmatica come tutte le Lovati.

Sistemandosi il fisciù di seta e merletto sulle spalle, Marta fece una smorfia di disappunto che accentuò il reticolo di rughe sul suo viso incipriato. I capelli, ormai più grigi che biondi, erano pettinati in un sofisticato chignon che sottolineava l’ossatura minuta dell’ovale e i suoi dolci occhi azzurri. Aveva sposato un cugino Lovati di terzo o quarto grado, Arturo, di cui era stata veramente innamorata. Invece il marito le aveva preferito il freddo, lontano Canada infliggendole un tale inconsolabile dolore da farla piangere per mesi. Lui non le aveva mai scritto e tutto faceva supporre che non fosse sopravvissuto alle massacranti condizioni di vita dei cercatori d’oro. Quanto a lei, era comprensibile che nutrisse una patologica diffidenza nei riguardi di chiunque indossasse dei calzoni, si trattasse anche di un angelo sotto mentite spoglie. Non che Berenice potesse biasimarla: avvertiva un’identica idiosincrasia nei confronti di quel genitore a cui non aveva fatto in tempo ad affezionarsi.

«Selvaggio o no, cara, sai perfettamente che non sono propensa ad accogliere in casa persone che non conosco affatto. Potrebbe essere un delinquente e qui non ci sono che donne fragili e indifese.»

«Concordo con te, Marta, ma non possiamo lasciarlo in eterno sul cancello» intervenne a bassa voce zia Finnea, facendo timidamente capolino nella stanza. La matura signora sembrava sempre muoversi in punta di piedi, come se deplorasse attirare l’attenzione su di sé o arrecare un qualunque disturbo ai suoi stessi familiari.

«Se non gli verrà aperto, sarà costretto ad andarsene» decretò l’altra perentoria, risolvendo sbrigativamente il problema.

«Non mi pare comunque educato.» L’estremo garbo di Finnea, che a dispetto della connaturata ritrosia riusciva chissà come a tener testa alla volitiva Marta, stupiva sempre Berenice. A cinquant’anni aveva ancora una figuretta dritta e snella, e radi fili argentati brillavano nella folta chioma rosso tiziano della quale da signorina era stata orgogliosa. I suoi lineamenti erano però abbastanza scialbi, con una costellazione di efelidi che in gioventù doveva aver attirato ben pochi sguardi di ammirazione. Pure, dagli schivi occhi chiari trapelava talora un fuoco interiore che indubbiamente aveva sedotto il latitante consorte. Lei poteva anche rifiutarsi di varcare il portone del convento in cui egli si era ritirato per dedicarsi alla preghiera, e distruggere senza nemmeno averle aperte le lettere che le mandava, ma era ovvio che ancora lo rimpiangeva.

«Dubito che sia un lupo mannaro e lo riceverà Berenice, se tu non te la senti» tagliò corto a quel punto la nonna, entrando nello studio dell’amata nipote e rivolgendosi alla figlia Marta. La vecchia signora si fece strada fino al tavolo da lavoro di Berenice, appoggiandosi al bastone per zoppicare meno. Le ginocchia erano deformate dall’artrite e le costava fatica camminare anche per brevi tratti. «Ordina ad Argia di accompagnare qui quel tizio e facciamola finita con gli indugi.»

«E se l’è un malnat

Le quattro donne presenti si volsero verso la cameriera tuttofare, che si esprimeva quasi sempre in dialetto. Argia, immobile sulla soglia, torceva una cocca del grembiule immacolato con dita rese irrequiete dall’ansia. Era una sedicenne robusta e schietta, con lisci e sottili capelli castani che teneva imbrigliati sotto la cuffia a furia di forcine. Arrivava da una delle valli che si aprivano sulla riva piemontese del Lago Maggiore e non era neanche graziosa, ma era svelta e volenterosa come nessuna e si guadagnava ogni singolo centesimo dello stipendio che le veniva corrisposto da Berenice.

«I malnat, come li chiami tu, non suonano il campanello» le fece notare nonna Luisa con il suo immancabile buonsenso.

«Ma parla strano che quasi non si capisce» obiettò la servetta, «e se posso permettermi di dare uno spassionato consiglio, per semplice prudensa non lo farei entrare. Non mi fido troppo di quel sciur... di quel signore che piomba in casa nostra per chissà cosa!» concluse nel suo linguaggio decisamente pittoresco ma di grande effetto.

«Qualunque lingua parli, non implica che non si debba ascoltare per quale ragione vuole conferire con noi.» A Berenice veniva da ridere: Argia storpiava le parole in maniera atroce ma pareva non farci caso, rilevando però lo stesso difetto negli altri.

«Gli ho dato un’occhiata dalla finestra della mia camera.» Finnea s’intromise ancora, esitante. «Ho l’impressione che il visitatore, di chiunque si tratti, non si sposterà dal cancello finché non otterrà ciò che vuole. Pertanto dobbiamo riceverlo.»

«Non sono affatto d’accordo» ribatté Marta, arricciando le labbra in segno di disapprovazione.

«Ma io sì» la contraddisse Berenice, nonostante si fosse prefissa di terminare in santa pace lo schizzo a carboncino di uno stupendo liocorno protagonista della fiaba che stava scrivendo.

«Molto bene!» la nonna le sorrise incoraggiante, controllando con un gesto abituale che i bianchi, corti capelli fossero in ordine. Una civetteria che non mancava di meravigliare chi la conosceva, perché non era affatto vanitosa. All’epoca dell’annullamento del matrimonio con quello là, come soleva etichettare con sommo disprezzo il marito, evitando di pronunciarne il nome, era incantevole e con una capigliatura lunga sino ai fianchi, tanto bella da destare l’invidia di molte amiche. Umiliata dall’indegna condotta di lui, se l’era tagliata in una foggia più adatta a un uomo che a una donna e non li aveva mai più fatti crescere. Il legittimo astio per il traditore si era dissolto con l’avanzare dell’età, naturalmente, ma lei non aveva rinunciato alla chioma sbarazzina, quasi fosse un vessillo conquistato sul campo dell’onore.

«Mi domando cosa mai potrebbe fare un singolo individuo contro un gruppo di donne coriacee come noi?» osservò Berenice.

«Era esattamente ciò che pensavo» assentì Finnea, condividendo obiettivamente quel punto di vista.

«Se poi si tratta di un seccatore, bambina» raccomandò Luisa alla nipote, «noi siamo nel salotto adiacente e verremo a darti manforte al minimo segno di difficoltà, ci puoi contare.»

«D’accordo, nonna.»

Cinque minuti dopo, l’accigliata Argia introdusse l’oggetto di quel femminile contendere e si eclissò riluttante, precipitandosi nel salotto adiacente con le altre signore, le orecchie incollate alla parete e pronta a intervenire, casomai avesse colto una qualunque inflessione minacciosa nelle parole che l’intruso avrebbe proferito.

«Sono Drake Wilton e vi porgo i miei omaggi, signora» si presentò lo sconosciuto, muovendo qualche passo verso Berenice. Lei, aggirata la scrivania, gli si era fatta incontro, approvando tra sé che si fosse tolto il cappello con il dovuto riguardo, prima di piegare il capo in un informale cenno di saluto. «Grazie per aver acconsentito ad accogliermi in casa vostra.»

«Prego. Suppongo che siate venuto per un preciso motivo, signor Wilton» gli rispose lei con altrettanta disinvoltura.

«Esattamente, e mi auguro di non causare eccessivo disturbo.»

«Me lo auguro anch’io, signore. A proposito, sono Berenice Lovati.»

«Lieto di fare la vostra conoscenza.»

«A cosa debbo la vostra visita?» Lei aveva sbrigativamente saltato i convenevoli, andando dritto al dunque.

«Non siete una donna che si perde in preamboli, eh?» Il visitatore si guardava intorno con occhi ai quali difficilmente doveva sfuggire anche il più insignificante dettaglio di tutto ciò che lo circondava.

«Quasi mai, in effetti.»

«Quand’è così, vengo al nocciolo della questione e vi informo che vorrei discutere con voi di qualcosa che ritengo importante e che riguarda entrambi, signora Lovati.»

«Importante questione? In merito a che cosa? Chi siete di preciso? Vi rendete certo conto che sono costretta a porvi queste domande, dato che non vi ho mai visto prima? Non riesco anzi a immaginare che cosa possano avere in comune due persone che s’incontrano per la prima volta. Perché non ci siamo mai incontrati, vero?»

«No, signora, e vorrei spiegarvi che...»

«Signorina, per la precisione» lo corresse lei con un impersonale sorriso, assolutamente a proprio agio.

«Scusate.» Drake annuì compunto, ma nello sguardo gli si accese una scintilla di divertimento che non sfuggì all’interlocutrice. «Ho temuto che non voleste ricevermi, sapete?»

«Be’, dopotutto siete un estraneo, signor Wilton, e la cautela non è mai troppa, non siete d’accordo? E tuttavia non avrei potuto agire diversamente, se non altro per educazione.»

Le indirizzò un’occhiata genuinamente perplessa. «Cautela? Perché mai? Sono disarmato e non rappresento una minaccia.»

«Non vi conosco abbastanza per esserne sicura.»

«State tranquilla, non mordo nessuno, specialmente le donne.»

«Ne prendo atto con sollievo!» Berenice scrutò quella faccia stretta e scurita da una prolungata esposizione al sole che incombeva sulla sua. Era così alto! Lunghe ciglia nere ombreggiavano gli occhi scuri e infossati nelle orbite, conferendo al naso aquilino un che di arrogante, sottolineato anche dalla piega ostinata della bocca carnosa. Poteva avere trentotto, quarant’anni al massimo, forse anche meno: era l’aspetto vissuto a farlo apparire più vecchio di quanto doveva essere in realtà. Argia e sua madre avevano ragione: si avvertiva in Drake Wilton un che di selvaggio che intimoriva. Un brivido le scivolò sulla pelle sotto lo sguardo penetrante del visitatore, che a sua volta la stava osservando con aperta curiosità. No, pensò dopo il sommario esame, quell’uomo doveva possedere una forte personalità e la presunzione del maschio che non è soggetto a chicchessia perché è lui a dominare gli altri. I disordinati riccioli bruni sconvenientemente lunghi sul collo, oltre a invocare a gran voce una drastica sforbiciata, erano la conferma che era un tipo fuori dell’ordinario, insofferente alle mode e refrattario a qualsiasi genere di conformismo. Benché non fosse un Adone, pochi uomini, stando alla disincantata obiettività di Berenice in materia, eguagliavano il rude fascino del visitatore e il sensuale magnetismo che si sprigionava dalla sua alta e dinoccolata figura.

«Signor Wilton» lo sollecitò, distogliendo con uno sforzo gli occhi da lui, «volete accomodarvi e dirmi come posso esservi utile?»

«Volentieri, signorina.» Drake eseguì un lancio perfetto, centrando con il cappello la sedia più prossima, prima di sprofondare nella poltrona che gli veniva indicata. Ne apprezzò la comodità con un cenno del mento squadrato, poi accavallò le lunghe gambe. Portava stivali di cuoio marrone impolverati e spelacchiati sulla punta ma di ottima qualità, come d’altronde il resto del vestiario, improntato soprattutto alla praticità ma per nulla trascurato. «Non voglio sottrarvi tempo prezioso e per non tergiversare oltre» proseguì con quella voce dal timbro virile e dall’accattivante pronuncia straniera, «sono qui allo scopo di rintracciare i discendenti di Cora Lovati.»

«I discendenti di Cora Lovati?!»

«Sì, e presumo che voi lo siate. O sbaglio?»

Berenice, che aveva intanto preso posto sull’altra poltrona, lo fissò disorientata. «Ma Cora è morta da secoli!»

«Era una vostra antenata, non è vero?»

«Perché vi interessa saperlo?»

«Siete o non siete una sua pronipote?» insistette lui.

«Non riesco a immaginare perché vi interessi tanto appurarlo, ma in effetti sono l’ultima Lovati inscritta nell’albero genealogico del nostro casato, signor Wilton» gli confermò Berenice. «Ovviamente anche Cora apparteneva alla nostra famiglia.»

«Percepisco una sfumatura risentita nel vostro tono.»

«Sul serio? Potrebbe trattarsi di un riflesso involontario. Lei è stata la pecora nera della famiglia e non è che ne andiamo fieri.» Allargò le braccia quasi a volersi scusare e aggiunse con una lieve sfumatura d’imbarazzo: «Ma d’altro canto, signor Wilton, chi non cela uno scheletro nel proprio armadio?».

«Nella mia non ce ne sono, finora.» Drake schiuse la bocca in un sorriso che rivelò la dentatura candida e regolare. «Ma ammetto che l’averne o no dipende unicamente dal capriccio della sorte.»

«Era sottinteso» replicò lei. «Signor Wilton, chiedo venia per non averci ancora pensato, ma posso offrirvi qualcosa?»

«Perché no? Del whisky, magari...?»

«Whisky?! Non abbiamo quei liquori esotici, mi spiace. Soltanto ratafià, se lo gradite. Oppure del nocino.»

Lui fece un reciso cenno di diniego declinando l’offerta, poi armeggiò nella giacca di pelle a frange, estraendo un sigaro sottile. «Posso fumare o v’infastidisce l’odore del tabacco?»

«Fate pure.» Gli indicò un posacenere d’argento e lo guardò mentre sfregava uno zolfanello sulla suola degli stivali. «Sembrate avere una certa familiarità con la nostra antenata vissuta oltre duecento anni fa, anche se indirettamente... Come mai?»

«Sì, conosco diverse cose di questa signora perché un mio avo fu molto legato a lei» le rivelò Drake. Studiò Berenice per qualche istante, tentando di indovinarne il carattere. I modi decisi e spigliati e la padronanza di sé erano notevoli in una donna giovane, e bastava guardarla per capire che dietro l’avvenenza albergava una volontà di ferro. Era proprio il contrasto tra la seducente esteriorità e l’indole d’acciaio a intrigarlo. Lei catturava subito l’attenzione con quei capelli che rivaleggiavano con l’oro delle spighe di grano maturate al sole. Il viso, con il naso impertinente e gli intensi occhi turchesi, poteva diventare in un battibaleno l’ossessione di un uomo. E se la bocca morbida faceva pensare più a baci voluttuosi che a frivoli discorsi, il corpo era indubbiamente adeguato al resto. La porzione di busto che il corpetto dell’abito blu dallo scollo modesto faceva risaltare, evocava in Drake un’idea tutt’altro che approssimativa dei peccati della carne. E che provocazione, quella fossetta sul mento! Era pronto a scommettere che fosse indice di un temperamento dalle sfaccettature singolari e sicuramente poco malleabile.

«Mi viene da pensare che fosse un legame particolare, se è valsa la pena di essere raccontato ai posteri, e senz’altro sarete informato sul passato del vostro avo e di Cora per esordire così.» Berenice era a disagio per l’insistenza dello sguardo che l’ospite sembrava riluttante a distogliere da lei. «Fatta tale premessa, viene spontaneo chiedere cosa vi abbia indotto a un tratto a cercare noi Lovati.»

«Un anello in cui è incastonato un rubino di enorme valore.»

«Un anello con un rubino di enorme valore?» ripeté, attonita, lei.

«Proprio così.»

«Capisco. E ditemi, signor Wilton, cosa ha a che fare l’oggetto cui avete accennato con la mia famiglia? Pensate di scovarlo all’interno di questa casa, occultato da chi vi abita, forse?» Lei era sconcertata dalla piega assunta dal dialogo. Già trovava stravagante il nome di lui perché nessuno poteva chiamarsi Drake. O sì? E gli americani usavano comportarsi così? A parte l’accento cui l’orecchio stentava ad assuefarsi, era loro abitudine apostrofare le signore con approcci così spigliati da rasentare la confidenza? Per non parlare infine di quel suo fare da avventuriero privo di scrupoli e avido di arraffare tesori e dubbie emozioni, ovunque esse fossero!

«Quell’oggetto apparteneva al mio avo, signorina» precisò Wilton con calma. «Per la precisione a Joaquin de Fuentes Wilton.»

«Cosa?!»

«Il nome non vi dirà nulla, ma sono convinto che la vostra bisavola potrebbe ragguagliarvi approfonditamente su di lui.»

«So perfettamente chi era Joaquin de Fuentes.»

«Sì?» vibrò una certa ironia nel tono di Drake. «Portava il cognome della madre, de Fuentes, e credo che Cora non avesse previsto, allora, che il padre di lui, il Visconte Adam Wilton, lo riconoscesse come figlio legittimo. Puntualizzato doverosamente questo, rivendico la proprietà dell’anello e ne esigo la restituzione.»

Berenice scattò in piedi come se fosse stata punta da un calabrone e lo squadrò indignata. «Signor Wilton, vi ho fatto entrare gentilmente in casa mia per sentire quello che avevate da dire, ma sono stupefatta, ve lo confesso, da quanto ho appreso da voi.»

«Mi pare inverosimile, se posso essere franco, che siate realmente così sorpresa da trasecolare in modo tanto plateale.»

«Ne dubitate?» Berenice aggrottò con irritazione la fronte. «Come potete anche solo aver pensato che qualcuno della famiglia, e nel novero sono inclusi coloro che vissero in passato, fosse in possesso di quell’anello? Sarete magari persuaso del contrario, ma vi garantisco che mai, se non ora dalle vostre labbra, ne ho sentito menzionare l’esistenza. Voi volete riappropriarvi di qualcosa che giustamente pretendete di riavere, ma avete bussato alla porta sbagliata perché noi non abbiamo idea di dove si trovi questo gioiello, ve lo garantisco!»

«Sì, mi aspettavo che avreste negato di averlo.» Wilton spense il sigaro con un gesto brusco. «Questo tuttavia non cambia il fatto che due secoli fa Cora si accaparrò l’anello con il meraviglioso rubino. Ho naturalmente preso in considerazione l’eventualità che chi lo ereditò potesse averlo venduto al miglior offerente: valeva un occhio della testa.»

«Ribadisco che nella storia della mia famiglia non si celano misteri ancora da svelare. C’è una documentazione riguardante le generazioni che si sono succedute e i beni ereditati, beni che via via furono ceduti dai nostri predecessori o perfino confiscati, cosicché non è restato nulla del patrimonio. Durante l’invasione napoleonica, l’argenteria e le altre cose di valore furono prese dai francesi e non mi risulta che tra quegli oggetti ci fosse l’anello di cui parlate. In ogni caso, che cosa volete adesso, signor Wilton? Ammesso e non concesso che quanto avete asserito sia dimostrabile, non vorrete un risarcimento postumo, mi auguro?»

«Non sono un bugiardo e posso provarvelo!» esclamò lui esibendo un foglio ingiallito dal tempo. «Rimettetevi a sedere e consentitemi di dirvi alcune cose, prima di leggervi questa lettera di Joaquin» la esortò con quella sua voce profonda, dall’effetto quasi ipnotico, che la indusse a obbedire, anche se con una certa riottosità.

Generalmente lei non accettava imposizioni da chicchessia, soprattutto da un uomo, così sbottò, acida: «È proprio necessario? Ho delle cose da fare e detesto dilungarmi in chiacchiere inconcludenti, signor Wilton, se volete scusare la franchezza».

«Neppure io sono uno sfaccendato, caso mai vi avesse sfiorato un tale pensiero a mio riguardo» rimarcò Drake di rimando.

«No? E di che cosa vi occupate, se non sono indiscreta?»

«Sono un esploratore e un archeologo.»

«Oh, sul serio? E dove svolgete questa originale attività?» Il tono di Berenice suonò più provocatorio di quanto avesse voluto.

«Diciamo che mi sposto qua e là per il mondo alla ricerca di remote civiltà, signorina. Da alcuni mesi sono impegnato a eseguire scavi nella zona in cui, stando ai miei calcoli, sorgeva Sagalassos, una città fondata dai romani le cui rovine si presume siano esattamente dove io e i miei aiutanti abbiamo allestito il campo.»

«Sagalassos? Mai sentita nominare! Siete proprio sicuro che esista questo mitico luogo, signor Wilton?»

«Come vi dicevo, si tratta di una fiorente città romana dell’antica Pisidia, una regione dell’Anatolia. Ai tempi dell’imperatore Augusto, Sagalassos era centro di ricchi traffici e vi confluivano mercanti provenienti dall’Asia e da altri paesi. Era costruita in terrazzamenti, con un’agorà inferiore, ossia la zona destinata agli scambi commerciali, e un’agorà superiore risalente al II secolo Avanti Cristo, che rappresentava il vero cuore della città e dove si tenevano le assemblee del popolo. Sagalassos godette di una prosperità straordinaria e aveva una ricca biblioteca e un grandioso tempio con una statua di Nemesi, la dea della vendetta. Molti archeologi hanno cercato di trovarne l’ubicazione.»

«Compreso voi?»

«Sì. E credo di averla rintracciata, perciò...»

«Vi prendo in parola» lo interruppe Berenice, colpita dalla sua competenza. «Mi sfugge tuttavia il nesso tra le vostre interessanti ricerche e la mia antenata Cora.»

«È presto detto. Il capiente baule ricolmo di volumi di storia, mappe e strumenti necessari al mio lavoro che avevo portato in Anatolia con me, aveva a mia insaputa un doppio fondo. Un portatore maldestro lo ha fatto cadere e il doppio fondo si è aperto, rivelando il contenuto. Vi erano dei documenti, e tra questi una lettera di Joaquin diretta a Cora Lovati e chissà perché mai spedita alla destinataria.»

«E che cosa vi è scritto, se non sono indiscreta?»

«Joaquin era ormai vecchio quando la scrisse, forse presagendo la fine, e chiedeva alla vostra antenata la ragione per cui lo aveva lasciato proprio alla vigilia della loro partenza per l’America, malgrado gli avesse promesso di imbarcarsi con lui.»

«Questa è bella!» Berenice lo fissò beffarda. «A me risulta che le cose non si svolsero precisamente in quel modo.»

«No? E che cosa sarebbe accaduto, dunque?»

«Diamine, signor Wilton, Cora salpò con Joaquin.»

«Questa è una menzogna!» la smentì Drake con veemenza.

«Ciò nondimeno è ciò che avvenne e che ci è stato tramandato.»

«Vi ripeto che è una falsità!»

«Suvvia, sappiamo entrambi che Cora fuggì con l’amante spagnolo, portando con sé gioielli che valevano una fortuna e abbandonando il marito, Andriolo Baldassarri, nonché un figlioletto in fasce. Dovremmo pertanto essere noi a reclamare un indennizzo per il fango che il vostro antenato gettò sulla nostra reputazione! Cora era una moglie infedele, e oltre a screditare il buon nome dei Lovati, si appropriò anche di una cospicua somma di denaro, che sottrasse a Baldassarri per far fronte alle spese che la sua romantica fuga con Joaquin de Fuentes richiedeva.»

Drake si alzò e protese verso di lei la faccia incupita dall’ira. «Queste sono ignobili calunnie che non posso accettare!»

«Che dire delle vostre, allora?» Lei tentò di non farsi intimidire da quel cipiglio feroce. «Ditemi, signor Wilton, siete forse a corto di fondi con cui finanziare le vostre ricerche archeologiche in quel di Sagalassos e venite a batter cassa da me con simili fandonie?»

«Sono insinuazioni offensive ma prevedibili da parte della discendente di una donna infida e scaltra quale fu Cora Lovati, intrigante al punto da ingannare senza scrupolo gli uomini a cui era legata. Evidentemente la razza si perpetua nella disonestà di chi ha nelle vene lo stesso sangue.»

«Nemmeno io vi permetto di offendermi!»

«Voi invece potete farlo?»

Lei era di nuovo balzata in piedi e lo fronteggiava con espressione ostile. «Voi non sapete niente di me, signor Wilton...»

«Neanche voi sapete qualcosa di chi vi sta davanti» ribatté lui in tono asciutto, troncando le sue proteste. «Ammesso e non concesso che le vostre affermazioni su Cora siano veritiere, vi suggerisco di riflettere su quanto sto per dirvi: voi asserite che lei partì con Joaquin, ma io ribadisco che lui salpò da solo, e che posso provarlo. Accantonando la discussione sul rubino, un nuovo interrogativo aleggia ora sulla vicenda: che cosa successe a Cora se non salì sulla nave con de Fuentes? Sono trascorsi più di due secoli e magari non ve ne importa un accidente, ma al vostro posto troverei inquietante essere informato che una mia ava non approdò mai nelle Americhe, contrariamente a ciò che tutti credevano. Io cercherei di scoprire che ne fu di una donna scomparsa nel nulla.» Drake afferrò il cappello e si diresse alla porta. «Ho preso alloggio al Cigno bianco, una locanda che non dista granché da casa vostra. Sono a vostra disposizione se e quando vorrete discutere con onestà e senza pregiudizi su quello che vi ho detto. Dopo aver riflettuto sui dubbi che mi auguro di aver instillato in voi.»

«Temo che aspetterete per un pezzo, signor Wilton!»

«Vi spaventa la verità?»

«E qual è la verità, la vostra o la mia?»

«La verità è quella che si può dimostrare, semplice.»

«E voi potete?»

«Naturalmente. Sono in possesso della lettera che Cora Lovati fece recapitare a Joaquin prima della partenza. Sono pronto a sottoporla a ogni meticoloso controllo che voi stabilirete di fare, compresa una perizia calligrafica, ovviamente, non appena vi sarete convinta che le cose stanno come ho detto. Vi porgo i miei più distinti saluti, signorina, confidando di rivedervi presto e di trovarvi più disponibile a collaborare.» Si accomiatò con un cenno del capo e se ne andò rapidamente lasciandosi dietro una piacevole scia di tabacco e di dopobarba al sandalo.

Berenice restò a fissare a lungo il tratto di corridoio che scorgeva dal battente rimasto aperto, domandandosi se quell’uomo fosse il più sfacciato mentitore della terra, o se quello che le aveva riferito corrispondesse al vero. Dio, era così frastornata da non potersi dare una risposta in merito. Il colloquio era stato abbastanza burrascoso e aveva originato una ridda di pensieri incontrollabili. Con la mente così in subbuglio non era di certo nelle condizioni più idonee per ragionare con la necessaria lucidità su Cora e Joaquin.

I due amanti si erano resi protagonisti di uno scandalo su cui a Milano si era spettegolato a lungo. Il Marchese Baldassarri era un personaggio in vista dell’aristocrazia e la fuga della moglie con il capitano spagnolo doveva essere stata un’onta intollerabile per lui. Berenice giudicava vergognoso non tanto che Cora avesse lasciato il consorte, quanto che avesse potuto abbandonare con tanta indifferenza un figlio nato da poco per amore di Joaquin de Fuentes. D’improvviso, come uno spettro senza pace, riaffiorava dall’oblio dei secoli quella brutta storia che allora aveva suscitato scalpore e sdegno non solo tra i congiunti della fuggitiva, ma anche tra i milanesi. Il tempo non cancellava il passato, era evidente, e restava sempre una traccia del male compiuto. Gli scandali di enorme risonanza simili a quello che aveva segnato la loro famiglia non si potevano relegare sotto una discreta lapide dopo una frettolosa sepoltura, illudendosi che non venissero più riesumati. Ecco, lo spunto sul quale imperniare una seria riflessione partiva da tale considerazione, non appena avesse recuperato una più tranquilla disposizione d’animo.

Si ripromise di parlarne con la nonna: dotata di ottima memoria, poteva fornirle maggiori delucidazioni su quell’assurda versione di Drake Wilton. Forse la nonna sapeva qualcosa di quel gioiello che valeva un occhio della testa, pensò ancora. In tutti i casi, se non altro per avere la soddisfazione di smentire quel saccente americano che credeva di saperla lunga su di lei, intendeva raccogliere la sfida che le aveva lanciato. O credeva fosse così superficiale e insensibile da infischiarsene della bisavola? Cora poteva anche essere la pecora nera della famiglia, ma era e restava una Lovati.

Infine, andare in fondo alle cose, per quanto sgradevoli potessero rivelarsi, non aveva mai rappresentato un problema insormontabile per Berenice. Avere il coraggio di guardare in faccia la vita, prima di prenderla di petto, non era solo una prerogativa maschile!