2
Cora lanciò un’occhiata allo specchio mentre le abili dita di Abdia, la devota balia che l’aveva allevata con più amore della sua stessa madre, le intrecciavano i fluenti capelli biondi in un’acconciatura adatta a una dama del suo rango. Fu un sollievo notare che la vaporosa gorgiera di merletto nascondeva perfettamente i lividi che Andriolo, con la consueta brutalità che le riservava nelle parentesi di intimità coniugale, aveva lasciato sulla delicata pelle della gola.
Nel corso della notte appena trascorsa si era accanito più del solito, sfogando il livore che lo animava sulla giovane moglie che mai gli dava motivo di risentirsi. Forse era proprio la sua inesperienza a suscitare nel marito reazioni così violente, rifletté Cora. Lei cercava di soddisfarlo in ogni modo nella speranza di rabbonirlo, ma invece di estinguersi, la rabbia che ribolliva in Andriolo pareva trarre alimento dalla sua docilità.
«Cora, ti senti bene?»
Distogliendosi da quei pensieri, la giovane donna tornò al presente e si costrinse a sorridere alla governante. «Ma certo che sto bene» mentì.
«Da quando sei diventata una bugiarda, bambina?»
«Bugiarda?»
«Sei così ammaccata per tutte le botte che ti ha dato, da smentirti da sola» replicò Abdia. «Tuttavia, sei padrona di raccontarmi che non è vero e che le mie sono soltanto meschine insinuazioni.»
«Abdia, io non dovrei ascoltarti e tu non dovresti...»
«Perdonami se insisto, bambina» la interruppe la donna, «ma sono preoccupata per te e non posso evitare di interferire, non fosse altro che per esortarti a reagire!» Abdia corrugò la fronte sotto il bordo arricciato della cuffia bianca e, tenendo una forcina sollevata a mezz’aria, scrutò Cora per alcuni istanti prima di aggiungere: «Dovresti confidarti almeno con i tuoi genitori, se vuoi la mia opinione. È una vergogna che quel mostro privo di cuore che ti hanno costretta a sposare debba picchiarti ogni volta che condividete il letto».
«La salute di mia madre è peggiorata, negli ultimi tempi, e non voglio che si preoccupi per me.» Soffocando un sospiro avvilito, Cora concentrò l’attenzione sull’immagine che lo specchio rifletteva. La giovane dama dal raffinato abito blu di seta cordonata, impreziosito da una catena d’argento filigranato e perle, sembrava serena, almeno esteriormente. Nessuno avrebbe sospettato che un dolore pulsante le torturava le tempie, e che per almeno una settimana avrebbe dovuto evitare di muoversi bruscamente, perché quello era l’unico modo per alleviare gli spasmi che le dilaniavano il ventre, colpito più volte dai calci del marito.
Andriolo la picchiava per il perverso gusto di infierire, traendone piacere, e poi abusava del suo corpo senza alcuno scrupolo, come se lei fosse una bambola di pezza con cui giocare e non un essere umano che soffriva, inerme e quasi priva di sensi sotto di lui. Dopo quei feroci amplessi, tronfio e soddisfatto di aver assolto agli obblighi maritali, per un po’ la lasciava in pace, consentendole di riprendersi fisicamente ed emotivamente. Purtroppo non si trattava che di brevi tregue: deliberatamente subdolo, Andriolo trovava divertente tenere la moglie sulla corda di un angoscioso, diabolico tira e molla che le logorava i nervi, senza mai lasciarle intuire quando sarebbe stata la prossima volta.
Cora si sentiva intrappolata in un incubo spaventoso, perché non aveva modo di prepararsi mentalmente al nuovo, ripugnante assalto di un bruto che godeva perversamente a piombare a sorpresa nel talamo nuziale, rivendicando i propri diritti.
In quei brevi periodi di tregua Andriolo, che aborriva ogni forma di morigeratezza e sembrava non contemplare nemmeno il concetto di astinenza, sfogava le sue brame altrove, dedicando le proprie attenzioni alle più ricercate prostitute di Milano. Quegli incontri, che avvenivano nei postriboli più frequentati dai gentiluomini suoi pari e si svolgevano invariabilmente all’insegna della più sfrenata lussuria, erano piacevolissimi intermezzi in attesa di ricominciare a tormentare la sua vittima preferita, la moglie, e per quanto apparisse strano, gli eccessi anziché sfiancarlo sembravano rinvigorirlo benché si fosse ormai lasciato alle spalle gli ardori della gioventù.
«Che c’è, cara? A cosa pensi?» Allarmata dal prolungarsi del silenzio, la balia guardò Cora con espressione interrogativa.
«Scusami, Abdia, mi sono distratta un’altra volta» si giustificò la giovane con un’occhiata contrita. «Riguardo ai miei genitori, in verità ho cercato di far capire a mio padre ciò che avviene, ma...»
«Che cosa ha detto Guglielmo?»
«Ha preferito lasciar cadere il discorso.»
Abdia la fissò attonita per diversi minuti. «Ma come? Non gli hai mostrato i lividi? Non gli hai fatto vedere i segni che tuo marito ti lascia sul corpo?»
«A che cosa sarebbe servito? C’è forse miglior cieco al mondo di chi non vuol vedere?» Cora allargò le mani in un gesto esplicito. «Del resto era scontato che non volesse intromettersi in quelle che giudica scaramucce tra novelli sposi.»
«Non posso credere che un padre possa comportarsi con tale indifferenza!» Lo sdegno dell’anziana governante era così sentito da farle sbiancare le labbra per la collera che le ribolliva nello stomaco.
«Eppure è la verità.»
«Ma perché si comporta così? Un padre ha il diritto, che dico... il dovere di diffidare un genero manesco dal malmenare la figlia!»
«Sì, in effetti potrebbe farlo.»
«No, dovrebbe» puntualizzò Abdia con acredine. «Magari minacciandolo di riaccoglierti in casa propria se la musica non cambia. Allora Andriolo sarebbe costretto a rispettarti, non credi?»
«Forse. Suppongo che mio padre non voglia inimicarsi il marchese. Quanto alle mie lamentele, tutto ciò che ho ottenuto è stato aggiungere al danno anche la beffa!»
«Che cosa vuoi dire?»
«Mio padre mi ha fatto una delle sue ramanzine, rinfrescandomi la memoria sui doveri che mi competono, compreso quello di subire e tacere quando il mio nobile consorte decide di battermi a sangue, quale che sia il pretesto per farlo.»
«Bah, è veramente il colmo! Non si è ancora accorto che Andriolo è un diavolo sotto mentite spoglie?» sibilò inviperita Abdia, sistemandole una ciocca dorata sulla guancia per mascherare un ulteriore segno delle pesanti carezze di Baldassarri. «Come se tu meritassi tanta violenza da parte sua. Gli obbedisci come un cagnolino, sottostando agli obblighi coniugali con maggior grazia di quanto spetti a un simile cialtrone.»
«Discuterne è inutile» decise Cora, ponendo fine alla conversazione con un gesto perentorio.
«Vorresti anche che tenessi il becco chiuso?» borbottò, esacerbata, la governante.
«Se mio marito ti udisse non esiterebbe a scacciarti, perciò bada a non oltrepassare il limite. Andriolo è il padrone, qui, e non gradirebbe apprendere da una delle sue spie che mi stai sobillando contro di lui.»
«Credi che mi faccia paura?»
«A te no, ma a me sì, Abdia. E di certo ci andrei di mezzo anch’io.»
«Mio Dio, è vero! Oh, tesoro, perdonami.»
«Più che a evitare l’ennesima rappresaglia di mio marito, è a te che penso. Andriolo non ha mezze misure nella sua aberrante irascibilità, e non potrei certo impedirgli di metterti alla porta, se decidesse di farlo.» Cora scosse il capo, come se respingesse a priori la sola idea. «Che cosa farei senza di te, se accadesse?»
«Stai forse chiedendomi di fingere di non vedere?»
«Per amor mio, sì.»
La bocca di Abdia si assottigliò in una piega risentita. Non sopportava l’idea di dover assistere passivamente ai soprusi di Andriolo... Cora era la figlia diletta che il cielo le aveva concesso quando si era preso la piccola Rachele, e tutto in lei si ribellava alla prospettiva di voltare il capo dall’altra parte. La sua mente andò a ritroso nel tempo e quando dalla memoria affiorò l’immagine del faccino grinzoso di Cora la prima volta che l’aveva tenuta tra le braccia, la commozione le dilagò nel cuore.
Abdia era entrata a servizio dei Lovati quando Clorinda, la madre di Cora, aveva dato alla luce la prima figlia. Spossata dal parto e dotata di scarso istinto materno, la gentildonna non era stata in grado di allattare la neonata e Abdia, che aveva perso da poco la propria piccina e il marito a causa delle febbri maligne, aveva accettato con gioia di fare da balia a quella bambina affamata di latte e di attenzioni, riversando su Cora tutto l’affetto che il destino aveva negato alla sua sfortunata Rachele.
Qualche anno dopo era nato Ottavio, il secondogenito dei Lovati, un bimbo adorabile e dall’intelligenza precoce che era diventato il pupillo di entrambi i genitori. Abdia si era presa cura anche di lui, ma quando Ottavio aveva compiuto sei anni era subentrato alla balia un attempato istitutore incaricato di impartirgli la necessaria istruzione.
Essendo femmina, Cora ne era stata ovviamente esclusa. «A che pro sprecare quattrini per erudirla?» era stato lo sbrigativo commento di Clorinda. «L’unica cosa che una donna deve sapere è come curare l’andamento di una casa e come svolgere tutte le mansioni di natura prettamente femminile a essa connesse.»
Cora, tuttavia, era una ragazzina che apprendeva con facilità, e assistendo di tanto in tanto alle lezioni dell’istitutore aveva imparato a distinguere le lettere dell’alfabeto e poi a comporre frasi di senso compiuto. Usava parole semplici e non conosceva bene l’ortografia e la grammatica, tuttavia era molto orgogliosa di saper scrivere e leggere e annotava regolarmente i propri pensieri in un quaderno che teneva chiuso a chiave nella sua camera.
Con il passare degli anni, Cora si era trasformata in una bella fanciulla che attirava le occhiate ammirate di molti giovanotti quando la domenica usciva di casa per assistere alla messa con la propria famiglia. Due o tre pretendenti si erano fatti avanti per chiederla in sposa, ma Guglielmo non li aveva ritenuti adatti. Poi l’attempato Andriolo, Marchese Baldassarri, aveva chiesto la mano di Cora e questa volta il padre non aveva esitato a dare il proprio consenso.
Le nozze erano state fortemente volute anche da Gaspare Lovati, un cugino di Guglielmo sposato con la Baronessa Mainardi e imparentato con Andriolo. Questi, vedovo per la seconda o terza volta, aveva notato la fresca e deliziosa Cora durante un rinfresco offerto da Gaspare al quale era stata invitata la famiglia Lovati al completo, e se ne era immediatamente incapricciato. Quella fanciulla dall’aspetto sano e dal corpo ben fatto, timida e pura come un angelo, gli era parsa subito adatta a renderlo padre e a perpetuare la sua discendenza, riempiendo Palazzo Baldassarri di un nugolo di mocciosi vigorosi come lui, e non si era fatto sfuggire l’opportunità di impalmarla. Guglielmo era al settimo cielo: maritare la figlia a un aristocratico di antico e illustre casato qual era Baldassarri era un onore che lo rendeva più che soddisfatto!
Andriolo, lungimirante e scaltro come una volpe, si era lanciato in una corte serrata e rispettosa, subissando di gesti galanti e di omaggi l’inesperta fidanzata, la quale in sua compagnia era così in soggezione da proferire a stento qualche banalità priva di senso. Invaghito e impaziente di metterla incinta, il marchese aveva rotto gli indugi ed era riuscito a persuadere i familiari della fanciulla ad affrettare le nozze.
Frastornata e lusingata dalle dichiarazioni d’amore imperituro di Andriolo, la giovanissima Cora si era ritenuta fortunata per essere stata scelta da un gentiluomo distinto come Baldassarri. Tutto lasciava prevedere che il marchese sarebbe stato un buon marito, ma se anche non fosse stato di suo gusto non avrebbe fatto alcuna differenza: non avrebbe potuto rifiutarlo comunque, perché era soltanto una donna e le donne non avevano voce in capitolo nelle contrattazioni matrimoniali.
Ingenua e indifesa come un agnello destinato al sacrificio, Cora non aveva il minimo sentore di ciò che l’aspettava dopo lo scambio dei voti nuziali, e così Abdia aveva deciso di trasferirsi con lei nella fastosa dimora dei Baldassarri, che si trovava nei pressi della Porta Comasina, non molto distante da Villa Gonzaga. Quell’individuo corpulento dalla mani grosse e pelose e dagli occhi sfuggenti le ispirava scarsa fiducia, per non dire un vero e proprio ribrezzo, e lei non voleva separarsi da Cora, che a sedici anni era ancora di un candore disarmante per quanto riguardava i rapporti coniugali. L’inetta Clorinda, tutta pudore e svenimenti, non si era certo presa la briga di spiegare alla figlia come funzionavano le cose tra un uomo e una donna tra le cortine del talamo, e Abdia aveva dovuto provvedere personalmente a colmare la lacuna.
Egoista e indolente, Clorinda era restia a privarsi di una collaboratrice affidabile ed efficiente qual era Abdia e sulle prime aveva cercato di opporsi al trasferimento. D’abitudine scaricava sulle spalle della governante ogni genere di incombenze con la scusa della salute cagionevole, benché fosse piuttosto una forma di pigrizia congenita a farle preferire il letto ai doveri di moglie e di madre. Ma Abdia era troppo affezionata alla fanciulla per lasciarsi convincere, e si era mostrata irremovibile, dichiarandosi pronta a fungere anche da cameriera personale, pur di stare accanto alla creatura che aveva allevato con la dedizione di una madre. Chi altri avrebbe vegliato su Cora, se non l’avesse fatto lei?
«Per favore, Abdia, non immischiarti in questioni che riguardano esclusivamente me e mio marito.»
Riportata al presente dalla voce supplichevole di Cora, la balia la guardò con aperta aria di sfida. «E se io non volessi ubbidire?»
«In tal caso significherebbe che della mia incolumità non t’importa nulla» rispose la giovane in tono dolente, e i suoi occhi azzurri furono attraversati da un lampo di paura, subito dissimulata dalle lunghe ciglia. «Andriolo spasima per un figlio, come ben sai» continuò, «e la sua violenza nasce probabilmente dal fatto che ancora non sono riuscita a dargliene uno...» Tacque, pensando che null’altro avrebbe altrimenti giustificato il comportamento del marito durante gli osceni convegni notturni che lei attendeva ormai con sgomento.
«Non è certo colpa tua se non hai ancora concepito un figlio!» protestò Abdia.
«Probabilmente secondo lui la causa sono io, quindi stanne fuori, ti prego» le raccomandò di nuovo Cora.
«Bambina mia, come puoi chiedermi una cosa simile?» replicò la governante.
«Più che chiederlo, lo esigo, Abdia.»
La donna posò il pettine e si ritrasse quando Cora si alzò dalla sedia. La seta dell’abito produsse un lieve fruscio e la figura sottile si stagliò sullo sfondo della finestra. Il sole accendeva i capelli della fanciulla di caldi riflessi d’oro, e così incorniciata, pensò Abdia, sembrava un dipinto di seducente leggiadria femminile, capace d’incantare chiunque, anche se così in controluce appariva più che mai vulnerabile e fin troppo facile da sopraffare. Nonostante ciò che Cora le aveva detto, dubitava che quello che accadeva tra lei e il marito dipendesse esclusivamente dalla sua incapacità di rimanere incinta. Forse Baldassarri non poteva fare a meno di usare violenza alle donne... Forte della propria supremazia, se la sua indole era così malvagia non avrebbe smesso di farla ingiustamente oggetto di angherie anche se queste compromettevano la salute della moglie. Cora era dimagrita moltissimo dal giorno del matrimonio, e quel deperimento fisico era originato dal terrore che le incuteva il marito e dall’infelicità. Un’infelicità che si sovrapponeva alla monotonia di giornate fitte di doveri e di notti in cui quel debosciato di Andriolo la trattava come una poco di buono. Abdia poteva anche non intromettersi, se così voleva la diretta interessata, tuttavia era molto preoccupata per la precarietà della situazione. «Come puoi pretendere che assista senza dir nulla ai maltrattamenti che quell’uomo ti riserva?» ribatté con voce colma di apprensione.
«È spiacevole, te ne do atto, ma tutto si risolverà entro breve, ne sono più che sicura» ribadì Cora con un sorriso che però non raggiunse gli occhi azzurri. «Promettimi di non commettere imprudenze.»
«Non temere» la rassicurò Abdia. «Non potrei mai mettere a repentaglio la tua sicurezza scontrandomi con quel fur... con tuo marito.»
«Così dev’essere» sottolineò Cora. «Che mi abbia presa in moglie malgrado fossi solo la figlia di un semplice funzionario alle dipendenze del podestà è un privilegio di cui debbo mostrarmi grata.»
«Anche a discapito del tuo stesso benessere?»
«Non sarà sempre così, vedrai. Sicché, per il rispetto che devo ad Andriolo, mi sforzerò di non dispiacergli in alcun modo.»
«Bah» fu lo stizzito commento della governante. «Secondo me sei troppo remissiva, ecco qual è il problema!»
«Sono sua moglie e non posso fare altro che obbedire. Quando gli annuncerò che ho concepito un figlio – e avverrà presto, mi auguro – i dissapori cesseranno, ne sono convinta. Ma adesso vieni, usciamo. Ho ottenuto da Andriolo il permesso di far visita ai miei genitori e non voglio indugiare un minuto di più in questa casa.»
«Casa?» Abdia abbozzò una smorfia e si fece un rapido segno della croce. «Questo tetro edificio mi fa rabbrividire... Aleggia qualcosa di maligno qui dentro, bambina mia, e non mi sbaglio, credimi.»
«Hai paura dei fantasmi?»
Più che delle anime dei morti, che giudicava innocue, Abdia temeva i vivi, in particolare Baldassarri. Istintivamente avvertiva che il marchese poteva rivelarsi molto pericoloso, se provocato. Tuttavia evitò di dirlo a Cora, limitandosi a un vago cenno d’assenso, che naturalmente la giovane fraintese.
«Non ci sono spettri, qui dentro, Abdia» la tranquillizzò infatti Cora con fare indulgente. «E poi le abitazioni antiche hanno la caratteristica di suscitare in noi inquietanti sensazioni... Un improvviso scricchiolio ci spaventa perché lo scambiamo per un rumore di passi. Passi che non sappiamo spiegarci come mai provengano da quel particolare punto della casa.»
«Non è questo, tesoro.»
«No?»
La donna fu scossa da un brivido. «Dio solo sa di quali orrori è stato testimone questo cupo, gelido palazzo!» sussurrò, gli occhi che saettavano inquieti tutt’attorno, mentre la mano frugava nella tasca cercando il rosario. «È come se tra queste mura aleggiasse lo spirito stesso del male... E non mi sbaglio, credimi, anche se non saprei spiegarlo neppure a me stessa.»
Cora inclinò il capo e osservò la governante per un istante, stupita da quella dichiarazione. «Ti sei lasciata suggestionare dalle macabre storie che la servitù racconta sugli spiriti che da secoli vagherebbero tra queste mura, a quanto pare. Be’, non c’è niente di vero.»
«Lo dici tu! Una delle fantesche, qualche giorno fa, raccontava a una sguattera che la notte di Ognissanti nel salotto giallo dell’ala ovest appare una dama in abiti medievali, avvolta in un mantello viola con il cappuccio, e che la sua figura fluttua a qualche braccio dal pavimento.»
«Sono solo fantasie, Abdia.»
«Forse hai ragione» si arrese l’anziana governante. «E mi comporterò come tu desideri, se proprio vuoi, sperando nel quieto vivere.»
«Ecco, brava...»
«Che però Baldassarri non si azzardi a oltrepassare i limiti o, serva o non serva, perderò il lume della ragione e provvederò di persona a fargli piovere sul capo uno di quei pesanti vasi da fiori disposti sui davanzali. Ovviamente proprio nel momento in cui quel visci... ehm, la tua nobile metà sta passando nel cortile. Ho una mira infallibile e di solito faccio centro quando i gatti in amore mi impediscono di prendere sonno.»
«Evita di proferire minacce» l’ammonì Cora. «Qualcuno potrebbe sentirti e correre da Andriolo a riferirgli che vuoi attentare alla sua vita» concluse avviandosi alla porta per celare alla fedele governante il sorriso divertito che le aveva increspato le labbra.
«Un vaso che s’infrange a un palmo dai suoi piedi gioverebbe alla serenità coniugale, te lo garantisco» borbottò Abdia, seguendola.
Mezz’ora dopo sedevano comodamente nella carrozza conversando del più e del meno quando, in prossimità di una stretta curva, la vettura dovette fermarsi per agevolare il passaggio di un carro che procedeva in senso opposto. Il veicolo, trainato da un recalcitrante ronzino che sembrava in procinto di stramazzare sul selciato, era scortato da un cospicuo drappello di soldati a cavallo al comando di un ufficiale dall’espressione austera. Cora, che incuriosita si era affacciata al finestrino, fu subito attratta dalla figura del cavaliere che con disinvolta autorevolezza si stava aprendo un varco tra i passanti e gli indaffarati garzoni che in quel momento affollavano la strada. L’uomo sfoggiava un giustacuore di camoscio nero con corazzette di cuoio che mettevano in risalto le spalle squadrate e il torace forte. Cavalcava un magnifico destriero nero con una macchia bianca tra le orecchie, gli stivali infilati nelle staffe e le redini strette tra le mani ricoperte da morbidi guanti scamosciati. Era l’unico con il viso ben rasato tra i barbuti armigeri ai suoi ordini, e la carnagione bruna spiccava sull’ampio colletto bianco bordato di pizzo che completava il suo vestiario di foggia militaresca. Cora, che continuava a fissare lo sconosciuto, affascinata dalla sua postura eretta e fiera, provò un certo disappunto quando dovette rinunciare a distinguere la sfumatura dei suoi occhi perché l’ombra proiettata dalla larga tesa del cappello piumato rendeva impossibile scorgerne il colore.
Quando i due veicoli si incrociarono, l’ufficiale girò il capo verso l’elegante carrozza che sostava a ridosso della carreggiata e fissò la giovane donna che sedeva al suo interno.
Senza comprendere perché si stesse comportando come una sfacciata, Cora sostenne lo sguardo intenso del cavaliere e il cuore le balzò in gola mentre i loro occhi restavano agganciati più di quanto le convenienze, il decoro o anche solo un minimo di ritegno le consentissero di fare. Quando l’uomo sollevò educatamente una mano rivolgendole un cortese cenno di saluto, e schiuse la bocca carnosa in un sorriso, Cora si sentì pervadere da una repentina, esaltante emozione che le fece fremere i sensi e la disorientò. Avvertiva i battiti convulsi del cuore e, colta alla sprovvista da quell’inspiegabile reazione, si chiese smarrita che cosa avesse potuto provocare quel piacevole formicolare della pelle e lo strano senso di vuoto alla bocca dello stomaco. Non seppe darsi una risposta, confusa com’era da ciò che stava provando, ma dopo il lento scandire di attimi che le parvero eterni quella strana, conturbante vertigine iniziò a sfumare. Si accorse tuttavia che anche il cavaliere sembrava aver distolto con riluttanza l’attenzione da lei, svanendo infine dalla sua visuale.
Prima che potesse ricomporsi, nel riquadro del finestrino apparve la sparuta sagoma della passeggera del carro in transito. La donna indossava una misera tunica marrone simile a quella portata dai frati, e il cappuccio abbassato nascondeva i suoi lineamenti. I polsi sottili e incrostati di sangue rappreso erano imprigionati negli orrendi oggetti chiamati manichini, una specie di manette costituite da una cordicella alle cui estremità erano fissati due rigidi pezzi di legno che servivano a tormentare più che a trattenere il prigioniero, nel caso in cui si fosse mostrato recalcitrante all’arresto. Come se quella donna avesse avuto la minima possibilità di fuggire, pensò Cora, sdegnata dal disumano trattamento imposto dalle autorità di polizia alla sventurata. Era sorvegliata a vista dai soldati e offerta come un fenomeno da baraccone alla morbosa attenzione della gente, che naturalmente la faceva oggetto di irriverenti scherni. Come potevano umiliarla a quel modo? La poverina pareva esausta, eppure teneva eretta la schiena con una dignità e una forza interiori che colpirono sia Abdia sia Cora.
Sconvolta, l’anziana balia bofonchiò un qualche insulto incomprensibile all’indirizzo delle guardie. Cora, invece, con un moto di pena misto a disagio si scoprì incapace di distogliere lo sguardo mentre la condannata le passava accanto e arrossì d’imbarazzo quando, quasi avvertisse d’essere osservata, la donna sollevò il capo e la guardò. Non fu che una fuggevole occhiata, quella che passò tra le due giovani, ma Cora, pur senza scorgere gli occhi dell’altra, ebbe a un tratto la bizzarra sensazione che la prigioniera stesse cercando di trasmetterle un tacito messaggio.
Quale fosse, tuttavia, non fu in grado di decifrarlo.
Forse la sventurata intendeva soltanto sollecitare un cenno di femminile solidarietà da parte sua, si disse, notando, prima che il carro scomparisse, un particolare che le fece correre un brivido lungo la schiena: tra le pieghe del cappuccio scintillava un occhio, verde come un prezioso smeraldo e ancora inchiodato su di lei. Il veicolo proseguì dondolando e cigolando sul granito della strada, svanendo in lontananza. Pochi istanti dopo, la lussuosa carrozza dei Baldassarri si rimise in moto per condurre le due passeggere alla loro destinazione. Cora e Abdia, turbate, si ritrovarono a guardare le botteghe che si alternavano lungo il marciapiede.
«Mio Dio, Abdia, hai visto quella poveretta?»
«Sì» mormorò l’altra con insolita mestizia. «Immagino che fosse una delle tante donne accusate di stregoneria...»
Il pietoso commento della domestica riscosse del tutto Cora da un turbamento che ancora le riverberava dentro, sia per l’incontro con l’aitante capitano delle guardie che l’aveva fissata con ammirazione, sia per la vista della detenuta scortata dai soldati. «Sì, immagino di sì» mormorò in risposta.
«Suppongo la stiano portando al cospetto degli inquisitori del Santo Uffizio.»
«Dio mio, le verranno inflitte chissà quali torture.»
«E nessuna si salva mai» le fece eco Abdia, rattristata dall’infausto destino toccato alla sventurata in cui si erano imbattute. «Aveva la faccia sfigurata, te ne sei accorta?»
«A dire il vero, ho visto ben poco di lei.»
«Le avranno fatto di tutto» seguitò la governante, «pur di estorcerle una confessione in un modo o nell’altro! Mi addolora che compiano orrori del genere tra le mura di un convento.»
«Evidentemente trovarsi in un luogo consacrato a Dio non impedisce agli aguzzini di infierire su quelle sventurate. Sai che un tempo l’Inquisizione aveva sede nel convento di Sant’Eustorgio? Solo nella seconda metà del Cinquecento gli uffici ecclesiastici sono stati trasferiti a Santa Maria delle Grazie.» Cora corrugò le sopracciglia. «A mio padre una volta fu ordinato di sostituire un funzionario addetto alla trascrizione dei verbali di un processo. Sul banco degli imputati c’era una vecchia comare accusata di fare sortilegi e fatture ai danni del prossimo. Fu un’esperienza che lui trovò traumatizzante, e che non gradì affatto.»
«Ah, non lo sapevo...»
«Non ne parla mai perché la vicenda lo turbò al punto che si rifiutò di ripeterla. Assistere ai ripetuti supplizi a cui vengono sottoposte le malefiche fu così sconvolgente che perse il sonno per mesi.»
«Un accanimento ignobile» commentò Abdia stringendo i pugni. «Streghe! Figuriamoci! Se davvero sapessero usare la magia come sostengono i giudici e chi le denuncia, come si spiega che non se ne servano per evadere dalla prigione mettendosi in salvo?»
«Un ragionamento che non fa una grinza, in effetti.»
«Già, e vuoi che ti dica un’altra cosa? Per lo più si tratta di persone che conoscono il potere curativo delle erbe e che non fanno del male a nessuno, anzi!»
«Ne sono convinta.»
«Ho sempre vissuto in campagna» continuò la balia, «e chi non poteva permettersi di pagare un medico ricorreva alle cure delle guaritrici, che ne sapevano spesso più dei dottori. Mia nonna sosteneva che qualcuna aveva anche il dono della preveggenza, mentre altre curavano i malati con rimedi utilizzati da secoli nella medicina popolare.»
«E la popolazione si fidava di loro?»
«Diamine, si fidano tuttora, bambina. Solo quelle donne, in fin dei conti, sono capaci di preparare i brevi, quei sacchettini che si portano al collo, al cui interno vengono poste immagini sacre, erbe e altre cose ritenute protettive contro certi malanni.»
«Si usano anche per il malocchio?»
«Naturalmente. In genere si mettono ai bambini, ma anche gli adulti ne fanno uso, all’occorrenza.»
«Come mai si chiamano brevi?»
«Non ne ho idea. So soltanto che sono realizzati con frammenti di reliquie o terra considerata sacra perché proviene da santuari e luoghi mistici. Gli ingredienti variano a seconda del malanno da curare. Talvolta si usano anche parole magiche scritte su pezzi di pergamena, monete, sale benedetto.»
«Interessante.»
«Sì, vero? Alcuni brevi, composti per lo più da peli di tasso, frammenti di stola di prete, corda di campane, cera di candele asperse di acqua santa e foglie di ulivo benedetto, pane benedetto e chicchi di grano, vengono usati come amuleti.»
«Si utilizzano ingredienti di origine sacra, dunque...»
«Esatto. A volte contengono persino intonaco raschiato dalla parete di edicole o affreschi raffiguranti i santi o la Vergine Maria. Questi oggetti inoltre devono essere preparati in una notte di plenilunio, perché allontanino gli influssi della cattiva magia e i danni provocati dall’invidia.»
«Da come ne parli sembrano portentosi toccasana.»
«Lo sono, infatti... anche se può capitare che non funzionino. Se il paziente guarisce, il breve viene deposto ai piedi dell’immagine da cui era stata prelevata parte del suo contenuto. Se invece muore, il sacchetto viene sepolto con il defunto.»
«Sei una vera esperta, Abdia.»
«Nei piccoli villaggi queste faccende fanno parte della vita quotidiana e si spiegano ai bambini fin da quando iniziano a comprendere gli insegnamenti dei vecchi. Ma naturalmente c’è sempre qualcuno che le ritiene eresie contrarie alla religione e frutto di superstizione, e di conseguenza le donne scoperte a praticare metodi di guarigione considerati blasfemi dagli esponenti del clero rischiano grosso... e tutto per aver fatto del bene a chi ne aveva bisogno!»
«La donna che abbiamo visto poc’anzi mi ha fatto molta pena, sai?» Cora aveva un’espressione dispiaciuta. «Sembrava sfinita...»
«Sì, è sembrato anche a me» concordò l’anziana governante, accigliandosi. «La sua sorte è segnata, purtroppo, e non c’è nulla ormai che possa sottrarla al rogo.»
«Pregherò per lei affinché non debba soffrire troppo a lungo.»
«Apprezzo la tua bontà d’animo, Cora, e l’altruismo che ti spinge a non voltare mai le spalle a chi è più sfortunato.»
«Non è forse dovere di ogni buon cristiano?»
«Sì, certo. Tuttavia credo che dovresti chiedere la grazia prima di tutto per te stessa. Se la Provvidenza non ascolta te, tesoro, non so a chi altri possa dar retta, considerato ciò che stai passando con Andriolo.»
«Vorrei che accantonassimo l’argomento, Abdia.»
«D’accordo» capitolò la donna di malavoglia. «Permettimi di aggiungere solo un’ultima esortazione a proposito dei brevi, Cora, dato che a mio parere te ne serve uno.»
«Vorresti davvero che portassi addosso un simile oggetto?» sorrise Cora. «Non pensi che Andriolo potrebbe insospettirsi e ritenere che gli stia facendo una qualche fattura?»
«Ma lo porteresti tu, non tuo marito.»
«Per lui non farebbe alcuna differenza, superstizioso com’è.»
«Ebbene, se il breve servisse a farlo rinsavire e lo inducesse a rispettare la sua brava e onesta moglie, perché no?»
«Ti ringrazio, ma non ne ho bisogno» rifiutò Cora, decisa a far desistere Abdia da quelle pratiche poco ortodosse. Non aveva bisogno di un breve, bensì di un consorte diverso da Baldassarri per recuperare la serenità e quella gioia di vivere che aveva perduto dal giorno del matrimonio. Ma sapeva che il suo sarebbe restato un pio desiderio.
«Invece ti servirebbe, te lo dico io!» tenne duro la governante, protettiva come una chioccia nei confronti della sua amata Cora.
«Non esiste modo di farti cambiare idea, vero, Abdia?»
«Puoi scommetterci! E ti procurerò io stessa il breve adatto, bambina. Ti proteggerà adeguatamente dal demonio che hai sposato.»
Cora soffocò un sospiro e preferì opporre un eloquente silenzio alla lapidaria frase della bellicosa balia.