Scene mute di un matrimonio

Al tavolo di un’osteria del Carso triestino, gli amici venuti a prendere un po’ di fresco osservano ironici una coppia a un altro tavolo, verosimilmente marito e moglie. Seduti uno di fronte all’altro e al proprio bicchiere, i due non si scambiano una parola, armeggiano ognuno col proprio iPhone o altro consimile aggeggio; talora parlano, non col compagno bensì con interlocutori invisibili, ma in genere sono silenziosi, assorti in se stessi e nei loro apparecchi. Qualche anno fa avrebbero probabilmente interposto fra loro un giornale, cortina cartacea quasi di ferro ora sostituita da nuovi muri isolanti più sofisticati.

All’altro tavolo qualche sogghigno è d’obbligo e sottolinea il piacere di sentirsi censori dei tempi e della decadenza degli autentici rapporti umani. Celibi e nubili, in particolare, sono gratificati di toccar con mano la noia del matrimonio, la lontananza che si insinua in una coppia fissa. In generale, serpeggia la soddisfazione di criticare la banalità e la stereotipia altrui – banali sono sempre gli altri – di sentirsi liberi da convenzionalità e da routine, anime autentiche pronte a vedere ovunque altre che non lo sono e a compatirle, criticarle, correggerle, liberarle dalla meccanica ripetizione della loro esistenza, insegnar loro come si vive. In ogni fustigatore della banalità quotidiana c’è un maestro di scuola, magari uno di quelli di una volta, con la bacchetta in mano.

A quale tavolino siedono gli avventori più vivi? Ogni tanto i due probabili coniugi, sia pur fugacemente, si guardano; un istante di tranquilla, misteriosa tenerezza. Lei, una volta, gli sfiora il braccio. Perché, per essere più vera, dovrebbe chiudere il suo marchingegno digitale, che nulla toglie a quella carezza? E perché stare insieme in silenzio dovrebbe essere sempre segno di aridità e lontananza? Certo, l’estraneità può essere un morso di infelicità e derubare le persone – specie se si tratta di persone che si amano o che si sono amate o che si accorgono dolorosamente di amarsi ma in un modo reciprocamente incompatibile – di quel dialogo in cui soltanto veramente esistiamo.

Ma il feroce e disumano ingranaggio della realtà ci priva troppo spesso di un altro bene: della solitudine, del nostro bisogno di essere soli, di vivere almeno ogni tanto in quel Far West del nostro cuore in cui siamo talora veramente noi soltanto se siamo soli, come il cowboy dei vecchi western. Amare significa anche comprendere e proteggere quella solitudine di cui l’altro ha bisogno; comprendere che lui o lei può voler pranzare fuori casa non solo perché ha una banale e sempre riverita colazione di lavoro che non offende alcun matrimonio, ma perché quel giorno ha bisogno di stare unicamente con i propri pensieri e con il loro randagio vagabondare e perdersi. E invece, dice un verso di Rilke, “si spingono gli amanti / sempre a calpestare i confini uno dell’altro”.

I due presunti coniugi a quel tavolo non hanno dunque alcun dovere di diventare loquaci né altri hanno diritto di sapere se sono felici o infelici, se e come si amano, se e quali torti si sono inflitti a vicenda. La verità umana è anche il rispetto di questa opacità, diritto inalienabile di ognuno, anche se incessantemente violato. Perché questa smania di frugare nella vita degli altri, cercando di passarla ai raggi X, pretendendo di conoscerne la verità e spesso inquinandola proprio col ronzarci intorno, sempre convinti di farlo per amore di quegli altri che magari preferirebbero ce ne stessimo un po’ lontani e tranquilli? Come dice don Chisciotte, se la veda ciascuno col suo peccato.

23 agosto 2013