Pisciare controvento e contra legem
L’assessore comunale triestino ai Lavori pubblici, Franco Bandelli, ha stigmatizzato, con l’approvazione di molti concittadini, l’abitudine – evidentemente sempre più diffusa nella mia città – di fare la pipì in strada, la moda che induce “i giovanotti maleducati di buona famiglia ad andarla a fare sui muri, sui portoni e sulle vetture parcheggiate”. Ciò è conseguenza non tanto della progressiva scomparsa dei vecchi e gloriosi vespasiani, travolti dalle ristrutturazioni e dai lavori pubblici, quanto di diversi fattori: il crescente consumo di birra, una minore sensibilità morale nei confronti della minzione all’aperto (non più sentita quale trasgressione, al pari di altre abitudini un tempo socialmente riprovate e ora socialmente accettate) e il numero insufficiente di forze dell’ordine (specie polizia municipale) preposte alla repressione del reato ovvero a infliggere le multe recentemente stabilite dal comune di Trieste per chi piscia sulla pubblica via. A dire il vero, non mi ero accorto di questo dilagare del fenomeno e non mi capita di vederne tante tracce per le strade, ma si tratta evidentemente di una mia distrazione o forse del colpevole egoismo del letterato, insensibile ai bisogni – in senso letterale e traslato – della comunità.
Delle tre cause principali del deplorevole costume, il declino del vespasiano è forse la più importante. Il problema, tuttavia, non è solo triestino, anche se Trieste, città importante e mitteleuropea ma pur sempre di provincia, si trova ad affrontare in ritardo un’emergenza che aveva colpito Milano già nel 1981, emergenza descritta con esilarante umorismo e sbrigliata fantasia linguistica da Alberto Cavallari in quel magistrale caleidoscopio che è il suo Vicino & Lontano. Scomparso o sempre più raro “il vecchio tempietto verde” – peraltro deprecabilmente maschilista, perché offriva “ristoro unicamente all’uomo in piedi” – le autorità milanesi dell’epoca, assediate come un castello medioevale dal fossato sempre più pieno di liquame e all’affannosa ricerca di rimedi, pensarono a un certo momento di acquistare i nuovissimi cessi elettronici installati a Parigi da Chirac, allora sindaco della Ville Lumière. Forse – insinuava Cavallari – perché ossessionati dall’invidia per l’ammirata modernità o postmodernità del Beaubourg. Il desiderio di innovazione tecnologica era ed è tuttavia vivo pure a Trieste; infatti già anni fa l’assessore comunale Paolo Rovis aveva proposto di installare alcuni apparecchi “Urilift, l’orinatoio cilindrico a scomparsa”.
Non è però forse un caso che Milano abbia lasciato perdere l’idea parigina, forse per il timore che l’automatismo del vespasiano francese, il quale scatenava un mulinello purificatore di acqua e detersivi, in caso di guasto potesse scattare troppo presto e investire l’utente. Se tali guasti fossero stati frequenti, avrebbero provocato proteste e turbato la pace sociale. Il secondo fattore, la birra, ha una pesante incidenza; non solo per un processo meramente fisiologico, comune a ogni liquido, ma per un rapporto in questo caso privilegiato tra l’immissione e l’emissione del liquido, attestato da quel gentiluomo inglese il quale si chiedeva pensoso se era più intenso il piacere di bere la birra o di espellerla poco dopo. Ma sul consumo di birra, a parte i minorenni, nulla può l’autorità in un paese liberale, oltretutto sempre più permeato di ideologie radicali avverse a ogni proibizionismo.
Resta, fondamentale, l’intervento delle forze dell’ordine, della legge, che, come è noto, non può impedire materialmente i reati, ma può scoraggiarli con la loro sanzione. Ma è qui che scatta l’allarme, perché l’organico della polizia municipale è scarso, è già difficile pattugliare le strade, i sindacati sono contrari a estendere le mansioni e a “prolungare l’orario di lavoro dei vigili per ronde anti-pipì”; non ci sono fondi per straordinari, dopo le due di notte i vigili urbani non lavorano più e quel compito spetterebbe dunque alle volanti e ai carabinieri, i quali possono avere buoni motivi per ritenere di essere destinati a evitare altri e peggiori guai.
Trieste tuttavia ha un problema in più rispetto a Milano: il mare, luogo per eccellenza in cui orinare è tacitamente accettato ma non perciò meno disdicevole, quale profanazione di quel paesaggio ed elemento del mondo che più d’ogni altro evoca l’infinito, l’eros, il divino. Secondo un’antica tradizione portoghese pisciare in mare è peccato, sia pure veniale. Ma come individuare i trasgressori? Nella Londra del Settecento era proibito fare la pipì nel Tamigi, ma sorveglianti appostati sulle sue sponde potevano facilmente cogliere i colpevoli sul fatto, come tutori della legge incuranti degli spruzzi d’ogni genere avrebbero potuto farlo all’epoca del mio liceo, quando a Trieste il mare invernale infuriato dalla bora copriva il molo Audace e gelava ed era un rito virile andare in cima al molo sfidando il ghiaccio scivoloso, rischiando di finire fra le onde, e orinare in mare senza preoccuparsi della direzione del vento.
Ma come si fa a intervenire quando la si fa invece in mare, stando sott’acqua? Impiegare subacquei, sommozzatori, palombari? Le volonterose ronde auspicate dal partito della Lega Nord per sorvegliare gli immigrati sarebbero sicuramente disposte a supplire alla mancanza di vigili urbani nelle “ronde anti-pipì”, ma la loro provenienza, generalmente da terre di pianura o di montagna, le rende inadatte a operazioni sottomarine. Sempre attuale la grande domanda di Lenin: Che fare?
31 agosto 2008