Parleremo
Anche quest’anno, come da più di vent’anni, siamo ritornati nel piccolo paese in mezzo a quei boschi il cui destino, da secoli, è quello di segnare precari e ostinati confini tra imperi, repubbliche o regni che la storia ha via via travolto senza cancellare i solchi che li hanno divisi. Ma stavolta, ad accoglierci per alcuni giorni nella locanda all’orlo della foresta, c’è soltanto Ida. Lui, Toni – il marito, l’oste, il padrone – è morto pochi mesi fa, a un’età peraltro rispettabile come quella degli alberi intorno alla casa. Ida saluta, mostra la solita stanza, racconta della morte di Toni e di altri cambiamenti avvenuti negli ultimi dodici mesi.
Dopo un po’, mi accorgo che la conversazione è più lunga di tutte quelle avute con lei negli anni passati. Anzi, è la prima volta che parla veramente con noi. Le altre volte salutava, preparava la stanza e spariva, per riapparire soltanto all’ora dei pasti, con i piatti in mano. Nel frattempo aveva tagliato e raccolto la legna, spazzato il pavimento, lavato e stirato la biancheria, nutrito le galline e i conigli, steso le lenzuola ad asciugare, apparecchiata la tavola; spesso era anche scesa al paese vicino, a fare la spesa. Dopo i pasti, sparecchiava, diceva una o due parole e spariva in cucina a lavare i piatti. Non raccontava mai alcuna vicenda né esprimeva opinioni.
Era lui, Toni – il cui unico compito era quello di versare ogni tanto un bicchiere di vino, al bar, a qualche occasionale e raro avventore di passaggio – a parlare, a dire la sua, a narrare con sanguigna e intelligente concretezza. Raccontava del servizio militare ai tempi del fascismo, in Abruzzo, del ritorno a piedi dopo l’8 settembre, della guerra partigiana nei boschi; commentava la politica locale e mondiale. Nelle sue parole c’erano destini e volti di persone, idee e convinzioni, immagini delle trasformazioni epocali cui aveva assistito, passivo ma consapevole, da più di tre quarti di secolo. Sapevo cosa aveva fatto e dove era stato, cosa pensava della politica, dell’universo e del Padreterno.
Di Ida non sapevo quasi nulla; a lei non era mai venuto in mente di dirci la sua sull’universo né a noi di chiederglielo. Ora invece, di colpo, con la morte del marito Ida era divenuta un soggetto, un interlocutore, un’autorità, una persona con cui fare i conti. Si rivolgeva a noi con la familiarità di sempre ma non più in poche, necessarie parole, bensì sciolta e loquace. Era vissuta contenta col suo uomo, con lei gentile e affettuoso, ma nella sua ombra. Ora quest’ombra non c’era più e anche lei era visibile nella luce del giorno. Era sinceramente triste per la morte del suo Toni, ma quella morte le aveva dato un’indipendenza, una dignità prima ignote a lei stessa. La sua condizione contadina non le aveva offerto quelle possibilità di rivalsa spesso godute dalle donne nel tradizionale matrimonio borghese ora andato più o meno in pezzi, quella tirannia esercitata sull’uomo nei dettagli quotidiani che non conferisce alla donna reale autonomia, bensì quell’avvilente potere che talora i servi hanno sui padroni, senza per questo cessare di essere servi – il maschio, in quel caso, resta sultano, anche se ridotto a poco a poco a eunuco, rassegnato a consolarsi ingozzandosi di cibo.
Ida non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di queste rivalse che degradano sia chi le pone in atto sia chi le subisce. Non è stata una serva padrona, ovvero un’arpia; è stata solo una schiava e ha perciò conservato l’oscura dignità degli schiavi, della sottomissione patita per necessità e senza isteria, degli animali costretti al giogo e dei soldati costretti a marciare, indistinguibili gli uni dagli altri e tanto meno banali degli ufficiali che urlano loro degli ordini. Ora Ida ha tutta la dignità della responsabilità. È lei che gestisce quella locanda e la sua vita; è lei che, come tutti gli uomini liberi, ha cose da dire. Parleremo, dice, una di queste sere parleremo.
26 gennaio 2004