Una rosa di beati

Nella cattedrale di San Nicola, a San Pietroburgo – la provincia si chiama ancora Leningrado – subito a destra per chi entra vi è un dipinto, una grande tavola con diversi riquadri, tutti ovviamente d’argomento religioso e segnati dall’incantata fissità delle icone, non già rigido arresto del tempo ma eternità di istanti pieni di grazia e di significato, che trascendono il tempo e il suo svanire.

Un riquadro centrale rappresenta una teoria di santi, una lunga fila che si allontana e rimpicciolisce, anonimi e oscuri viaggiatori in cammino. I primi, che guardano direttamente in faccia il visitatore, si assomigliano molto, come per noi – almeno secondo un detto popolare sempre più smentito – si assomigliano un po’ tutti i cinesi; sono ovviamente vestiti nello stesso modo, indossano il saio del monaco e hanno ognuno l’aureola, perché si tratta di santi, di uomini su cui splende una grazia superiore, la luce dell’essenziale. Ma i loro volti marcati, se li si osserva bene, sono diversi; hanno ciascuno la propria espressione peculiare, uno sguardo più dolce o più deciso, una bocca più ferma o più sorridente. Sono individui, molto simili ma ognuno irripetibile.

Alle loro spalle, la schiera dei pellegrini si fa, nella prospettiva, sempre più uniforme e le singole figure si fanno sempre più piccole, sempre più indistinguibili. Sulle loro teste raggia e trema sempre l’aureola dorata, di un oro sempre più puro e luminoso; alla fine sono tutti quasi solo altrettante aureole, fuse in un unico splendere ma ognuna, sia pure per un soffio, con la sua forma e la sua individualità. Viene in mente la rosa dei beati nel Paradiso dantesco, forse anche la vacuità predicata dal buddhismo: una condizione in cui l’individuo, nella sua essenza, c’è ancora e anzi c’è nella sua essenziale purezza, ma liberato dall’ego, sia dalle sue determinazioni inessenziali e perseguite idolatricamente sia dalla sua prepotenza egocentrica.

Essere individui, in quel corteo, non significa più il dolore di essere separati dall’universo e dal fluire della vita e nemmeno il desiderio panico e autodistruttivo di dissolversi nell’oceano indifferenziato del Tutto. Significa essere un fratello tra fratelli, senza i quali non si sarebbe quello che si è; una voce nel coro, inconfondibile e necessaria ma che esiste solo se si intona a quel coro, che d’altronde ha un assoluto bisogno di essa. Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in Unum, dice la Scrittura, quale bene e quale felicità è lo stare insieme dei fratelli nell’unità ovvero, per chi ha fede, in Dio. Ma forse, per essere uno di quei viandanti, basta innamorarsi, prendere una bella scuffia che ci aiuta a trovare noi stessi fuori di noi, in un’altra esistenza. Certi capelli, non solo biondi, non hanno nulla da invidiare a quelle aureole.

14 aprile 2012