La parola giusta nella bocca sbagliata
Credo sia stato Karl Kraus a inventare l’espressione “La cosa peggiore è la parola giusta nella bocca sbagliata”. Ad esempio – ma si tratta di esempi troppo facili – la parola “patria” in bocca a un nazionalista oppure “Dio” in bocca a un intollerante bigotto; “mamma” in bocca all’oratore di un family day o “diversità” sproloquiata in qualche corteo. La battuta di Kraus mi è venuta in mente qualche giorno fa in treno, vedendo e inevitabilmente ascoltando le discussioni di una coppia seduta davanti a me nello scompartimento. Doveva trattarsi di due persone non alla loro prima esperienza coniugale, di diritto o di fatto, con altre famiglie alle proprie spalle e figli, almeno alcuni, non in comune.
L’uomo appariva ansioso, preoccupato per qualcuno evidentemente vicino a lui più che alla sua ben curata compagna. Forse una figlia, nominata poco prima; in ogni caso una persona giovane di sesso femminile, come si poteva evincere dalla natura dei disagi di cui, secondo quanto capivo, lei evidentemente soffriva, che angosciavano l’uomo e soprattutto lo spiazzavano, lo rendevano insicuro sul comportamento da assumere nei confronti di tante manifestazioni di quei disagi – ascoltarli, prenderli sulle proprie spalle, oppure affrontarli con fermezza anche severa per non aggravarli dando loro troppa corda. Era sconcertato; sembrava incapace di distinguere le grida d’aiuto di una profonda sofferenza dall’assillante pretesa egocentrica che talora accompagna quest’ultima. C’è la brutale indifferenza o il fastidio dei sani verso i malati e c’è la congiura dei malati contro i sani.
L’uomo, agitato, annaspava nella ricerca di capire quale comportamento fosse più giusto e più utile a chi gli stava così a cuore e le cui difficoltà lo sbalestravano. Chiedeva anch’egli aiuto e consiglio e la sua vicina – tale quantomeno per quel che riguardava l’assegnazione del posto sul treno – lo consigliava con sbrigativa risolutezza. Da quel che capivo, nel mio indiscreto ma inevitabile origliare, i suoi verdetti erano giusti e intelligenti. Gli impartiva consigli e ordini di comportamento severo, spicciativo e perfino seccato, che a suo avviso avrebbe contribuito a sdrammatizzare la situazione, a far capire all’interessata che le sue ansie erano ubbìe, aiutandola così a non prenderle lei stessa troppo sul serio e dunque a soffrirne meno. Erano parole sostanzialmente giuste, appropriate alla realtà, indicazioni utili. Ma la bocca che pronunciava quelle parole – una bella bocca, ma tesa e indurita – dava loro un tono che ne annullava o capovolgeva l’effetto e il senso, come una sala dalla cattiva acustica guasta una musica che vi si suona. Non c’era, su quella bocca, alcuna dolorosa ancorché ferma partecipazione allo smarrimento del suo compagno e alle pene, reali seppur forse esagitate, della persona che gli era così cara. La piega di quelle labbra non diceva una severità assunta controvoglia perché ritenuta necessaria e utile; su quelle labbra c’era una sfumatura di inconsapevole malignità, l’insoddisfazione spesso legata alla malignità, l’infantile cattiveria dispettosa del bambino nei confronti del pianto del compagno cui ha inflitto un piccolo oltraggio, innocente e malvagio.
Forse l’uomo, in quel momento debole e irresoluto, era in altre circostanze forte e deciso, una presenza dominante e a Dalila non spiaceva troppo tagliare al suo Sansone i capelli, vederlo incatenato dalla propria debolezza. La sua bocca non era più nemmeno bella, come può esserlo anche una bocca crudele, rapace o perversa, ma non una bocca su cui aleggia malignità. Così le parole giuste e intelligenti della donna, che di per sé avrebbero potuto aiutare l’uomo ad affrontare meglio l’ansia che lo invadeva, diventavano inutili e dannose, perché per essere veramente giuste e soccorrevoli avrebbero dovuto condividere quell’angoscia, senza assecondarla ma prendendola su di sé e facendola propria. Ma per far questo avrebbero dovuto uscire, tali e quali, da un’altra bocca. Meglio il contrario, meglio parole sbagliate in una bocca giusta, pensavo, vedendoli alzarsi, insieme e stranieri, per scendere dal treno un paio di stazioni prima della mia.
23 gennaio 2013