Una folla per nessuno
L’istantanea risale a parecchi anni fa e ne sono venuto in possesso grazie a un collega del suo protagonista, vittima o beneficiario dell’episodio, che me l’ha raccontata. Illustre matematico dedito a impervi studi ultraspecialistici e accessibili solo a pochi del mestiere, questi era stato invitato a tenere un corso annuale in una prestigiosa istituzione interdisciplinare, il Collège de France, che vede alternarsi nelle sue aule le più grandi celebrità internazionali del sapere scientifico e umanistico. Già il titolo del corso annunciato scoraggiava gli incompetenti ossia quasi tutti i miliardi di abitanti della Terra, tranne un pugno di geni sparsi chissà dove, sicché lo scienziato, che si attendeva al massimo un paio di ascoltatori, rimase stupefatto, alla prima lezione, di trovarsi davanti a tre o quattrocento persone. Ovviamente non fece alcuna concessione all’inclito pubblico, non perché disprezzasse stoltamente i profani ignoranti, come tanti ermetici e sacrali pseudoaristocratici, spesso più incolti delle disprezzate masse, ma semplicemente perché il suo argomento non consentiva semplificazioni divulgative.
Persuaso che si trattasse di un equivoco, si aspettava che alla seconda lezione la folla si sarebbe volatilizzata. Alle lezioni seguenti, la massa invece aumenta. A un certo punto, incuriosito, egli chiede a una signora, seduta in prima fila con l’aria della tipica assidua consumatrice di tutte le conferenze, se il tema e il suo svolgimento non siano troppo ardui, non presuppongano troppe conoscenze sofisticate, impossibili per un ascoltatore medio. La signora risponde, serafica: “Ah, non so, noi siamo qui perché in quest’aula, l’ora dopo di Lei, parla Roland Barthes, e altrimenti non si trova posto.”
Così il matematico, per tutto l’anno, si reca a far lezione a una folla strabocchevole totalmente disinteressata a lui. Sembra che la cosa non gli sia dispiaciuta. Certo, la perfezione sarebbe stata l’assoluta sicurezza che in quel nereggiare di pubblico non ci fosse nessuno, neanche uno, venuto per lui; in tal modo il suo discorso avrebbe raggiunto un’inarrivabile dignità metafisica e avrebbe acquistato, grazie a quella ressa di cercatori di sedie, una libertà vertiginosa, un’assurdità gloriosa, la possibilità di dire davanti a tutti qualsiasi cosa, anche la più insensata e bislacca. Invece il dubbio di avere anche solo un ascoltatore vero incatena questa libertà, fa svampire la gigantesca e inebriante bolla di sapone; costringe il docente a scendere da questa nuvola irreale, a rimettere i piedi per terra, nuovamente alle leggi ligio, a fare la sua brava lezione, il suo compito, a recitare come tutti la sua parte decorosa, meritoria e tristanzuola nel teatro del mondo.
In fondo, ciò che è successo in quell’aula non è dissimile da ciò che avviene, anche se in forme meno eclatanti, più o meno in quasi tutte le conferenze, in cui nessuno ascolta nessuno e dunque ognuno parla a nessuno. Ci si siede, ci si mette una faccia seria e nobilmente interessata come ci si mette una cravatta e ci si abbandona al fumo dei propri pensieri, come l’oratore si abbandona al fumo delle proprie parole. Ma quante altre volte, e non solo nelle aule delle conferenze, ci si parla senza ascoltarsi e si passa uno accanto all’altro stranieri e lontani, subito inghiottiti dalla folla, avendo lasciato morire una possibilità d’incontro, di amicizia, di amore.
Non è detto che i letterati, come quello dell’ora seguente in quell’aula, vengano compresi, quando seducono e solleticano il pubblico, più di quel matematico. L’unica differenza è che, mentre tutti si rendono conto di non capire niente delle formule matematiche – e quindi almeno sanno di non sapere – tutti o quasi si illudono di capire le metafore anche arzigogolate, scambiando quel vago titillamento delle papille intellettive provocato dal fuoco d’artificio delle immagini per una comprensione – e dunque non sanno nemmeno di non sapere e di non capire. Comunque, in un caso come nell’altro, si esce soddisfatti di aver partecipato a qualcosa d’importante, fermamente intenzionati a ripetere l’esperienza la settimana dopo ma contenti che, per quel giorno, sia finita. Che sollievo per tutti, oratori e ascoltatori, quando finisce una lezione.
14 febbraio 2002