II

 

 

DEL GALATEO

(OVVERO DELLA DISCREZIONE)

NEI GIUDIZI

 

 

Finché il processo si concepiva come un duello tra litiganti, in cui il magistrato, quale un arbitro in un campo ginnastico, si limitava a segnare i punti e a controllare che fossero osservate le regole del giuoco, pareva naturale che l'avvocatura si riducesse ad essere una gara di acrobatismi, e che il valore dei difensori si giudicasse con criterî, per così dire, sportivi. Un motto di spirito, che non facesse fare un passo alla verità, ma che colpisse sul vivo qualche difetto del difensore avversario, mandava in visibilio la platea, come oggi, nello stadio, il colpo maestro di un calciatore: e quando l'avvocato si alzava per l'arringa, si volgeva indietro, verso il pubblico, collo stesso gesto del pugile, che, salendo sulla pedana, ostenta la turgidezza dei bicipiti.

Ma oggi, quando ormai tutti sanno che in ogni processo, anche in quelli civili, si esplica non un giuoco atletico, ma la più gelosa ed alta funzione dello Stato, le schermaglie non si addicono più alle aule giudiziarie. Gli avvocati non sono né giocolieri da circo, né conferenzieri da salotto: la giustizia è una cosa seria.

 

 

Io mi domando — mi confidava un giudice — se negli stranissimi atteggiamenti di certi avvocati in udienza non si debba riscontrare una misteriosa origine medianica.

Costoro, quando non veston la toga, sono in verità persone garbate e discrete, che conoscono bene, e mettono in pratica, tutte le regole della buona creanza. Fermarsi con loro per via, a parlare del tempo che fa, è un riposante piacere; essi sanno che non è bello alzar la voce in conversazione, si astengono dall'adoprar parole enfatiche per esprimer cose semplici, si guardano dall'interromper la frase dell'interlocutore o dall'infliggergli il tormento di lunghi periodi filati: e quando vanno in una bottega a comprare una cravatta o si siedono a conversare in un salotto, non li vedi mettersi a tirar pugni sul banco del venditore, o puntar l'indice sgranando gli occhi contro la padrona di casa, che serve il tè.

Eppure, quando sono in udienza, queste persone bennate dimenticano il galateo ed il buon gusto. Coi capelli arruffati e la faccia congestionata, tiran fuori dalla strozza una voce alterata e gutturale, che sembra amplificata dalle arcane cavità di un altro mondo: cambiano gesti e vocabolario; e perfino cambiano (anche questo ho notato) la pronuncia abituale di certe consonanti. Bisogna dunque pensare che essi cadano, come si suol dire, in trance, e che, attraverso la loro persona inerte, parli lo spirito di qualche ciarlatano di piazza sfuggito dall'inferno?

Così dev'essere: non si riuscirebbe a capire altrimenti come costoro possan credere consapevolmente che, per farsi prender sul serio dal tribunale, si possa in udienza urlare, gesticolare e stralunar gli occhi in modo tale che, se lo adoprassero a casa loro, mentre sono seduti al loro desco familiare, tra i loro innocenti figliuoletti si scatenerebbe una clamorosa tempesta di ilarità.

 

 

Sarebbe utile che tra le varie prove che i candidati all'avvocatura debbono superare per essere abilitati all'esercizio della professione, fosse compresa anche una prova di resistenza nervosa, come quella a cui vengono assoggettati gli aspiranti aviatori, Non può essere un buon avvocato chi è sempre pronto a perder la testa per una parola presa a traverso, o che alla villania dell'avversario sa reagire soltanto col ricorrere al gesto tradizionale degli avvocati di vecchia scuola, di afferrare il calamaio per lanciarlo. La nobile passione dell'avvocato dev'essere in ogni caso consapevole e ragionante: avere i nervi così solidi da saper rispondere alla offesa con un sorriso amabile, e da ringraziare con un garbato inchino il presidente burbanzoso che ti toglie la parola. È ormai noto che le vociferazioni non sono indizio di energia, e che la improvvisa violenza non è indizio di vero coraggio: perder la testa nel dibattimento vuol dire quasi sempre far perdere la causa al cliente.

 

 

L'avvocato che credesse di intimorire i giudici a forza di urlacci, farebbe venire in mente quel contadino che, quando perdeva qualcosa, invece di recitar preghiere a Sant'Antonio che fa ritrovar le cose smarrite, cominciava a sgranargli contro una sfilata di bestemmie; e poi voleva giustificar questo suo empio comportamento col dire:

— I santi per farli smuovere non bisogna pregarli, bisogna impaurirli.

 

 

L'aforisma iura novit curia non è soltanto una regola di diritto processuale, la quale significa che il giudice deve trovar d'ufficio la norma che serve al fatto, senza aspettare che le parti gliela suggeriscano; ma è anche una regola di galateo forense, la quale avverte che l'avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l'aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri. Sarà un grande giurista, ma è certo un pessimo psicologo (e quindi un mediocre avvocato), colui che, parlando ai giudici come se fosse in cattedra, li indispettisce colla ostentazione della sua sapienza e li affatica con desuete astruserie dottrinali.

Mi viene in mente quel vecchio professore di medicina legale, il quale, accorgendosi che un esaminando si era preparato, invece che su certe sue dispense ingiallite in cinquant'anni d'uso, su un difficile testo moderno, gli disse, interrompendolo con aria sospettosa: — Ragazzo, mi pare che tu ne voglia sapere più di me —; e lo bocciò.

 

 

Io ho fiducia degli avvocati — mi diceva un giudice — perché apertamente si presentano come difensori di una parte e confessano con questo i limiti della loro credibilità; ma diffido di certi giureconsulti della cattedra che, senza firmar le comparse e assumere apertamente l'ufficio di difensori, mandano dentro all'incartamento di causa, indirizzati a noi giudici come se fossimo loro scolari, certi loro pareri che chiamano « per la Verità », quasi volendo farci credere che in queste consultazioni su commissione essi non intendono fare opera di patrocinatori partigiani, ma di disinteressati maestri che non si curano delle cose terrene. Questo modo di fare mi sembra indiscreto per due motivi: primo, perché se il consilium sapientis era in uso quando i giudicanti erano analfabeti, offrire oggi al magistrato che ha la sua laurea una cosiffatta lezioncina a domicilio, non è fargli un complimento; secondo, perché non si riesce a comprendere come avvenga che, in questi pareri inseriti in un fascicolo di parte, la Verità, col V maiuscolo, coincida sempre coll'interesse della parte che allega il parere.

Questa era anche l'opinione di un giureconsulto che se ne intendeva, — mi aggiunse il giudice, che era anche, a tempo perso, un erudito; e mi recitò un passo dello Scaccia che dice così: — Ego quidam, contra cuius causam allegabatur consilium antiqui et valentie doctoris, dicebam: amice, si pars adversa, quae eo tempore litigabat, adivisset prius illum doctorem cum pecunia, tu nunc in causa tua haberes consilium illius pro te.

 

 

L'avvocato che nel difendere una causa entra in aperta polemica col giudice, commette la stessa imperdonabile imprudenza dell'esaminando che durante la prova si prende a parole coll'esaminatore.

 

 

Quando l'avvocato, nel parlare in udienza, ha la sensazione che il giudice abbia un'opinione contraria alla sua, non può affrontarlo direttamente, come potrebbe fare con un contraddittore posto sullo stesso piano. Egli si trova nella difficile situazione di chi, per confutare l'interlocutore, deve prima di tutto blandirlo: di chi, per fargli intendere che ha torto, deve cominciare col dichiarargli che è perfettamente d'accordo con lui.

Da questo disagio deriva, nella classica oratoria forense, il frequente ricorso alla preterizione, figura retorica della ipocrisia: la quale affiora perfino in certe frasi di stile, come quella, abusata e goffa, con cui l'avvocato, quando vuol ricordare ai giudici qualche dottrina, dice untuosamente di volerla « ricordare a sé stesso ».

Tipico, come esempio di siffatti espedienti, l'esordio di quel difensore che trovandosi a sostenere una certa tesi giuridica dinanzi a una Corte, che già due volte aveva deciso la stessa questione contraddicendosi, cominciò il suo discorso così:

— La questione che io tratto non ammette che due soluzioni. Cotesta Eccellentissima Corte l'ha già decisa due volte, la prima volta in un senso, la seconda volta nel senso contrario…. — Pausa: poi, con un inchino: — …. e sempre benissimo! —

 

 

Amo la toga, non per le mercerie dorate che la adornano né per le larghe maniche che danno solennità al gesto, ma per la sua uniformità stilizzata, che simbolicamente corregge tutte le intemperanze personali, e scolorisce le disuguaglianze individuali dell'uomo sotto l'oscura divisa della funzione. La toga, uguale per tutti, riduce chi la indossa ad essere, a difesa del diritto « un avvocato » : come chi siede al banco del tribunale è « un giudice », senz'aggiunta di nomi o titoli.

È di pessimo gusto fare apparire in udienza sotto la toga il professore Tizio o il commendatore Caio: come sarebbe mancanza di buona creanza rivolgersi in udienza al presidente o al pubblico ministero, chiamandoli signor Giuseppe o signor Gaetano. Anche la parrucca degli avvocati inglesi, che può parere un ridicolo anacronismo, ha questo stesso scopo di affermare l'ufficio sull'uomo: nascondere il professionista che può anche essere calvo e canuto, sotto la professione, che ha sempre la stessa età e lo stesso decoro.

 

 

Ottimo è quell'avvocato di cui il giudice, finita la discussione, non ricorda né i gesti, né la faccia, né il nome: ma ricorda esattamente gli argomenti, che, usciti da quella toga senza nome, faranno vincer la causa al cliente.

 

 

La giustizia non sa che farsi di quegli avvocati che vanno in udienza non per chiarire ai giudici le ragioni del cliente, ma per far bella mostra di sé e delle proprie qualità oratorie. Il difensore deve cercare unicamente di proiettare la sua virtù chiarificatrice sui fatti e sugli argomenti della causa, e di mantenere nell'ombra la propria persona: alla maniera di quei modernissimi congegni di illuminazione, chiamati diffusori, che, nascondendo la sorgente luminosa, fanno apparir le cose come trasparenti per una loro garbata fosforescenza interna. Al contrario delle lampade a luce diretta, prepotenti e sfacciate: che abbagliano chi le guarda, e intorno, sulle cose, non si vede che buio.

 

 

L‘avvocato che, durante una discussione, invece di parlar della causa, parla di sé, commette verso i giudici che lo ascoltano una mancanza di rispetto simile a quella che commetterebbe, se sul più bello dell'arringa, per far notare ai giudici che egli si serve dal primo sarto della città, si sfilasse la toga.

 

 

L‘avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé.

 

 

Senza probità non può aversi giustizia; ma probità vuol dire anche puntualità, che sarebbe una probità spicciola, da spendersi nelle piccole pratiche di ordinaria amministrazione.

Ciò sia detto per l'avvocato, la cui probità si rivela, in forma modesta ma continua, nella precisione con cui ordina i fascicoli, nella compostezza con cui veste la toga, nella chiarezza delle sue scritture, nella parsimonia del suo discorso, nella diligenza con cui mantiene l'impegno di scambiare le comparse nel giorno stabilito.

Ciò sia detto, senza offender nessuno, anche per i giudici: la cui probità non consiste soltanto nel non farsi corrompere, ma anche, per esempio, nel non far aspettare per due ore nel corridoio gli avvocati e le parti, convenuti per l'inizio dì una prova testimoniale.

 

 

*Ho assistito una volta, nell'aula di un alto consesso giurisdizionale, a un episodio che mi lasciò in cuore una certa amarezza: non per me, che ero spettatore, ma per la dignità dell'ufficio.

Si era alzato per parlare un vecchio avvocato, noto per la sua valentia ma anche per una certa meticolosa verbosità della sua oratoria, effetto della sua abituale diligenza e forse anche della sua età: aveva appena cominciato l'esordio, quando il giovane presidente, più noto per la sua insofferenza che per la sua tolleranza, lo interruppe sarcasticamente:

— Ho bell'e capito: lei è un di quegli avvocati che quando cominciano a parlare, vuol farci sapere anche le virgole…. — Il vecchio avvocato, senza mostrare di avvertire lo sgarbo, si inchinò:

— Signor presidente, non ho altro da dire. —

E rinunciò alla parola.

Uscendo, mi domandavo: — Che cosa è peggio, per il buon andamento della giustizia: un avvocato verboso o un magistrato irascibile? —

 

 

*Da quarant'anni faccio l'avvocato, eppure non saprei andare in udienza per una discussione senza essermi preparato, scrivendo una traccia sommaria di quel che dirò, abbastanza elastica per modificarla all'occorrenza, ma abbastanza compiuta per mantenere al discorso ordine e chiarezza. E ogni volta che devo discutere, ringiovanisco: perché prima di cominciare provo allo stomaco quello struggimento che provavo da studente prima di entrare nella stanza dell'esame, e poi, appena ho cominciato, quella specie di eccitazione inebriante che anche allora provavo dinanzi agli esaminatori.

Ma i giudici dovrebbero rendersi conto di questo cuore da esaminandi, che gli avvocati, anche se non lo dimostrano, si ritrovano dinanzi a loro. Pessimo esaminatore è colui che spaventa lo studente guardandolo con occhi burberi, o che lo scoraggia mostrando di non stare attento a ciò che dice: anche i giudici dovrebbero cercar di essere sempre pazienti e gentili esaminatori.

 

 

*La giustizia è una cosa molto seria; ma proprio per questo non c'è bisogno, signor giudice, che ella dal suo banco mi faccia quel fiero cipiglio.

Quella maschera feroce con cui ella mi guarda, mi intimidisce, e mi spinge ad esser prolisso, in attesa di leggere un segno di comprensione su quella faccia di pietra. Per intendersi, tra persone ragionevoli, bisogna esser disposti anche a sorridere: con un sorriso si risparmiano tanti discorsi inutili.

Il cipiglio è un muro, il sorriso è una finestra. Signor giudice, io son qui sotto, che mi sgolo a parlarle di argomenti molto importanti, come son quelli della libertà e dell'onore di un uomo. Sia gentile, signor giudice: ogni tanto, per farmi vedere ch'è in casa, si affacci alla finestra.