PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

 

 

*A distanza di quasi venti anni dalla seconda edizione, ormai da tempo esaurita, questa terza edizione può mettere a profitto le esperienze forensi, annotate giorno per giorno, di un periodo di eccezionali cataclismi, in cui anche la giustizia ha avuto le sue catastrofi (ma anche le sue vittorie): il periodo delle persecuzioni politiche e razziali, la guerra esterna ed interna, la lunga agonia dei trapasso dalla dittatura alla libertà, e poi il faticoso decennio del dopoguerra, durante il quale e avvenuto, purtroppo, che gli scandali giudiziari siano diventati a poco a poco Tarma preferita delle lotte di parte. Dure prove anche per la Magistratura: anzi micidiali e angosciose per essa più che per ogni altro ordine di pubblici uffici, perché in tempi di tirannia o di scatenati odi civili pare che venga a mancare il terreno ove possa metter radici qualsiasi forma di ordinata e imparziale giustizia.

Per questo, all'annuncio di questa terza edizione, mi sento rivolgere da più parti, la stessa domanda ironica: — Anche oggi, dopo l'esperienza di questi ultimi venti anni, ti ostini a mantenere il titolo del libro? anche oggi, dopo il tribunale speciale o i tribunali straordinari della repubblica di Salò, insisti nell'« elogio dei giudici »? —

Rispondo: — Il titolo resta immutato: e con più convinzione di prima. — Quelli del tribunale speciale o dei tribunali straordinari non li chiamo giudici: il nome adatto per loro lo disse morendo un magistrato, il sostituto procuratore Pasquale Colagrande, quando all'alba del 15 novembre 1943 uscì a passo fermo dalla prigione del Castello Estense di Ferrara, per andare incontro ai fucilatori appostati. Dicono che il suo cadavere sia stato ritrovato coi pugni strettamente chiusi, e che l'ultima parola da lui lanciata a quel gruppo di sicari sia stata questa: « Assassini! »: e non fu un'imprecazione, ma una sentenza.

Io non parlo degli assassini. Il nome di « giudice » è un nome onesto ed austero, come quello che distingue un ordine religioso: io parlo dei giudici della Magistratura italiana, di quella di tutto il popolo, non di un partito, di quella a cui apparteneva Pasquale Colagrande: investito dalla luce violenta del martirio al suo oscuro posto di lavoro, egli era soltanto uno dei mille togati che anche in tempi di terrore rimasero a testimoniare coll'assidua opera di ogni giorno quella continuità della giustizia, che basta essa sola, finché sopravvive, a far sentire che non è ancora giunto il momento di considerare tutto irrimediabilmente perduto.

Se la vita dello Stato non precipitò nel caos e il domani della Liberazione poté vedere l'ordine ristabilito con una rapidità che parve miracolo, a ciò contribuì in maniera decisiva la continuità di una Magistratura rimasta fondamentalmente sana anche attraverso la macerazione del ventennio, e per questo, anche dopo il crollo universale, riconosciuta degna di ricollegare, come un ponte lanciato attraverso l'abisso, il passato coll'avvenire, l'antico col nuovo. Non si tratta di elogio (o di biasimo) al comportamento dei singoli magistrati: è una valutazione che investe il tipo, il carattere morale di tutta la Magistratura, la quale, anche se ha avuto durante il ventennio le sue ombre e le sue debolezze individuali, è stata certamente, come corpo, meglio di tutti gli ordini costituiti, quello che ha continuato a considerare il proprio ufficio come una missione e come un impegno di fedeltà, che si può pagare anche colla prigionia e colla morte: la trahison des clercs ha avuto dai giudici minor contributo che da ogni altra categoria di intellettuali.

I problemi giuridici della Magistratura non entrano altro che di riflesso nelle pagine di questo libro: l'elogio non va alle leggi, ma alla condizione umana del magistrato italiano: a quest'ordine di asceti civili, condannati, in una società sempre più sprezzante dei valori morali, alla solitudine, all'isolamento, in certi periodi anche alla miseria ed alla fame, e tuttavia capaci di rimanere con dignità e discrezione al proprio posto anche in tempi di generale rovina, per cercar di introdurre nelle formule spietate delle leggi la comprensione umana della ragione illuminata dalla pietà.

Ma, nel licenziar questa terza edizione, accanto a Pasquale Colagrande, ad altri volti amici mi vien fatto di inchinarmi nel ricordo, perché mi par che in essi la morte abbia fissato per sempre le più nobili virtù della Magistratura.

Uno è Pasquale Saraceno, consigliere alla corte d'appello di Firenze, ove nel 1944 era arrivato ancor giovanissimo, per concorso, dalla pretura di Viareggio. L'avevo conosciuto negli anni della guerra, mentre era ancora pretore, e spesso veniva a trovarmi nella mia casa al mare. Passavamo lunghe ore a discutere di problemi di diritto, per cercare un rifugio e un diversivo contro quell'angoscia che sempre più ci schiacciava. Egli era tutto preso dai problemi della ricerca della verità nel processo penale: l'errore giudiziario era la sua ossessione. Aveva chiesto, con ingenua serietà, al Ministero il permesso di esser rinchiuso sotto falso nome per qualche mese in un carcere, tra i delinquenti comuni, per misurare coll'esperienza le loro sofferenze e cercare nella realtà del carcere la giustificazione (se c'è) della pena. E soprattutto lo turbava l'idea del povero, preso negli ingranaggi della giustizia, che non ha mezzi né cultura per difendersi anche se è innocente: e gli pareva che la giustizia e il patrocinio, come sono ordinati da noi, si riducessero spesso ad essere un privilegio dei ricchi. Anche egli finì in un modo, che a ripensarlo ora, mi sembra pieno di significati simbolici. Durante le settimane della battaglia di Firenze, mentre nelle vie vicine al centro i partigiani insorti si battevano contro le pattuglie tedesche appostate alle cantonate e contro i franchi tiratori fascisti annidati nei tetti (tra i giovinetti che dettero la vita in quei giorni per liberare la città, fu Paolo Galizia, figlio del primo presidente della corte d'appello), Pasquale Saraceno, che si era rifugiato colla famiglia nel grande palazzo della corte in Via Cavour, si affacciò un istante sulla soglia, tenendo per mano accanto a sé il suo bambino. Bastò che si sporgesse appena, e subito una fucilata da un tetto lo colpì: c'era, puntata in permanenza contro il portone della giustizia, la mira di un assassino. Ma il bambino restò incolume: ora sarà un giovinetto. Quando sarà diventato uomo anche lui, sentirà ancora nella sua mano fatta adulta la stretta e l'incoraggiamento di quella calda mano paterna che credeva nella giustizia.

Ma non posso, accanto a quella giovanile faccia fiduciosa, non rievocare anche la pensosa immagine di Aurelio Sansoni, che fu durante il ventennio magistrato in Toscana nei varî gradi fino alla corte d'appello, e finì, dopo la liberazione, presidente di sezione alla corte suprema. Gli avvocati lo chiamavano « Cristo », perché aveva veramente, nella faccia scarna e mesta anche quando sorrideva, l'impronta rassegnata e dolente di un Crocifisso ligneo: quasi per testimoniare che la giustizia nasce dal dolore. Qualcuno, nei primi tempi del fascismo, lo chiamava anche « il pretore rosso »: e non era in realtà né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per far la volontà degli squadristi che invadevano le aule. Era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano « rosso » (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria). Ma quello che soprattutto non gli potevano perdonare coloro che lo chiamavano così, era la pietà umana dalla quale egli non sapeva concepire separata la sua funzione di giudice. Per lui ogni giudicabile era un problema umano, non un caso giuridico: un uomo vivo, non una formula (proprio per questo, in questa terza edizione, gli episodî più toccanti di umanità giudiziaria hanno, nel mio pensiero, la sua figura). Alla sezione penale di cui egli fu per un lungo periodo presidente, era addetto da tanti anni un vecchio usciere, Gervasio, che tutti gli avvocati conoscevano per nome e al quale chiedevano prognostici per le loro cause: un uomo bonario e saggio, di quella saggezza che gli derivava da tutta una vita passata in quelle aule a contatto quotidiano colla colpa e col dolore. Accadeva talvolta che quando il presidente Sansoni, ammantato dalla sua toga, usciva pensieroso dal dibattimento, trovasse Gervasio che gli apriva la porta della camera di consiglio: e gli venisse fatto di fermarsi, lui giurista, per domandargli: — Che ne pensi, Gervasio? Credi proprio che meriti d'esser condannato? — Gervasio sorrideva umilmente sotto i bianchi baffi spioventi: — Che vuol che ne capisca io, signor presidente? Io sono un povero ignorante…. — Ma quei due uomini, il presidente e l'usciere, così distanti per cultura e per grado, si guardavano negli occhi con una stessa luce di bontà: che è linguaggio uguale per tutti gli uomini, qualunque sia la istruzione e l'ufficio.

Alla memoria di Pasquale Colagrande, di Pasquale Saraceno, di Aurelio Sansoni, magistrati fieri ed umani, per i quali la giustizia fu non svogliato disbrigo di pratiche burocratiche, ma impegno religioso di tutta la vita, è dedicata questa terza edizione dell'« Elogio ». Ma essa è dedicata anche alla moltitudine anonima dei giudici vivi, degni di questi morti, e specialmente ai più giovani e ai più oscuri, a quelli che spinti dalla vocazione hanno appena varcata la soglia della Magistratura e ai quali è affidato il compito di render sempre migliore, cioè sempre più umana, la giustizia dell'avvenire.

In un discorso sul bilancio della giustizia, ch'io tenni alla Camera il 27 ottobre 1948, ebbi occasione di ricordare, a onore della Magistratura, un episodio che serve a dimostrare con quale discrezione e con quale impavida naturalezza certi magistrati identificarono nella loro coscienza Giustizia e Resistenza.

Rievoco l'episodio colle stesse parole registrate nel resoconto parlamentare:

« …. Voglio terminando raccontarvi il caso di un pretore toscano (non vi dirò il nome né la sede) il quale durante il periodo dell'occupazione tedesca, nel 1944, ricevè dal prefetto locale una lettera in cui gli si imponeva di arrestare i genitori dei giovani che non si presentavano alla leva e che non obbedivano ai bandi, firmati con quel tale nome che voi conoscete. La lettera del prefetto diceva così: ‘ I miei ordini non si discutono. In provincia sono io il rappresentante del governo ed ho pieni diritti. Vi ricordo, quando l'abbiate dimenticato, che siamo in fase di rivoluzione, e molto acuta. Considererò il vostro rifiuto come atto di sabotaggio e pertanto prenderò provvedimenti anche contro di voi qualora non eseguiate i miei ordini. Assicurate '. Ed il pretore, onorevoli colleghi, rispose così: ‘ Sono dolente di non poter dare l'assicurazione richiesta. Il prestare le carceri giudiziarie per la detenzione di innocenti è atto contrario alla legge e al costume italiano. Dacchè servo lo Stato nell'amministrazione della giustizia non ho mai fatto nulla contrario alla mia coscienza. Dio mi è testimone che non vi è jattanza nelle mie parole ' ». (Vivissimi generali applausi).

Una voce al centro: « Il nome del magistrato! ».

« ….Era un giovane e non dico il suo nome: perché di questi giovani nella magistratura ve ne sono a centinaia: di questi giovani che in tempi di miliardi sconci:, come sono quelli in cui noi viviamo, hanno scelto la dignitosa miseria per servire un ideale di giustizia. In questi giovani magistrati noi abbiamo fiducia ». (Vivissimi, generali applausi).

Queste sono le ragioni per le quali, alla domanda ironica dell'amico, ho risposto che dopo vent'anni mantengo a questa terza edizione, non per servile adulazione, ma per libera convinzione derivante dall'aver commisurato difetti e virtù, il titolo originario di « Elogio dei giudici ».

Firenze, Università, dicembre 1954.