PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

 

 

Di questo libro, del quale il favore dei lettori ha esaurito in poco più di un anno la prima edizione, anche ai critici più benevoli non è andato a genio il titolo: « un po' pesante » è sembrato a Pietro Pancrazi; « alquanto soggettivo » l'ha giudicato Mariano D'Amelio. E di molti altri lettori so che, al primo sguardo sulla copertina, si sono messi in diffidenza: credendo alcuni (specialmente se erano magistrati) di indovinare in quel titolo un certo sottinteso ironico, di reminiscenza bernesca o erasmiana; sospettando altri (specialmente se erano avvocati) di trovarsi di fronte all'espediente professionale di un collega lungimirante, il quale, pur di ipotecare a vantaggio dei proprî clienti la simpatia dei giudici, non aveva esitato a presentarsi dinanzi a loro sotto la veste inchinevole del panegirista.

L'autore sente perciò il dovere di spiegare qual'è stato il motivo che l'ha indotto a preferire quel titolo: e sarà pago se riuscirà a dimostrare che, anche se non è stato scelto bene, è stato scelto tuttavia con intenzioni pure.

Nella parola « elogio » l'autore non ha voluto nascondere alcun pungiglione satirico, come dimostra l'onesta reverenza colla quale nel libro si parla del giudicare; ma neppure ha voluto nascondervi lo stucchevole miele di una studiata captatio benevolentiae, com'è attestato dalla libera sincerità colla quale nello stesso libro si parla dei giudici. L'autore, nello scegliere quella parola già un tempo adoprata per indicare un genere di esercitazioni oratorie oggi cadute in disuso, l'ha preferita proprio per una certa sua patina antiquata e libresca, ch'essa ha assunto nella tradizione; sembrandogli che proprio per questo essa potesse esattamente esprimere che, pur nel lodare i giudici, l'autore non si è proposto scopi praticamente professionali, ma ha voluto conservare una certa sua sorridente e distaccata serenità letteraria e si potrebbe dire umanistica, la quale gli ha permesso (se egli non si è illuso) di serbar le distanze e la dignità, lodando con discrezione e senza servilismo, e sorridendo senza offesa e con indulgenza sulle debolezze umane: con simpatia e si potrebbe dir con poesia, se non paresse presunzione scomodar la poesia per queste faccende di giudici e di avvocati.

Ma, subito dopo avere scelto per le ragioni suddette il titolo di « elogio », che, a lasciarlo così solo, poteva far pensare a un mero svago letterario, l'autore ha creduto opportuno aggiungere che quell'elogio dei giudici era stato scritto da un avvocato, perché gli è sembrato che proprio per questo il libro potesse presentarsi ai lettori con una certa attendibilità di documento, in quanto proveniente da una di quelle persone che, per aver quotidiana esperienza dei rigori dei giudici, e per esser naturalmente portati alla polemica e all'invettiva, tanto più hanno diritto di esser creduti quando affermano che nei magistrati le virtù son di gran lunga prevalenti sui difetti. Insomma, con quell'aggiunta al titolo, l'autore ha voluto discretamente rassicurare il lettore, così: — Io dico bene dei giudici, pur essendo avvocato: dunque, se te lo dico io, ci puoi credere! — Argomento del libro non è dunque soltanto il giudice; ma il giudice in quanto è visto dall'avvocato: ossia, si potrebbe anche dire, l'avvocato in quanto, frenando per un istante i suoi naturali istinti critici, si metta a contemplare con equanime serenità (come non sempre gli riesce) il quotidiano interlocutore della sua professione che è il giudice. In questo dialogo tra il giudice e l'avvocato, non direi che il giudice sia il protagonista: quello che conta è il binomio costituito da questi due termini inscindibili, la relazione di reciprocità che passa tra queste due forze, nell'equilibrio delle quali si riassumono tutti i problemi, giuridici e morali, della amministrazione della giustizia.

L'autore, in molti anni di esercizio della professione forense, si è convinto che qualsiasi perfezionamento delle leggi processuali rimarrebbe lettera morta, là dove, tra i giudici e gli avvocati, non fosse sentita, come legge fondamentale della fisiologia giudiziaria, la inesorabile complementarità, ritmica come il doppio battito del cuore, delle loro funzioni: solo se i giudici e gli avvocati saranno disposti ad accorgersi della stretta comunanza delle loro sorti, che li costringe, uniti ad uno stesso dovere, ad innalzarsi o ad avvilirsi insieme, potranno collaborare tra loro con quello spirito di comprensione e di estimazione che attutisce gli urti del dibattito, e snoda, sotto il calore della indulgenza umana, gli incagli dei peggiori formalismi.

Le virtù e i difetti dei giudici non possono dunque essere serenamente apprezzati se non quando si pensi che essi sono in realtà la riproduzione su un diverso piano, e quasi si potrebbe dire l'ombra deformata dalle distanze, delle corrispondenti virtù e manchevolezze degli avvocati. Questo è lo stato d'animo da cui è nato il libro presente: esame di coscienza di un avvocato, che per arrivare a comprendere l'umanità dei giudici, ha creduto indispensabile considerare la loro condotta, per quella legge di reciprocità di cui poco fa si è discorso, come una serie di risposte e di reazioni dialettiche alla condotta degli avvocati.

 

 

Ma un uguale sforzo di comprensione l'autore umilmente si augura che anche i giudici voglian compiere a favore degli avvocati: perché pensa che la missione umana e sociale dell'avvocatura non potrà essere giustamente valutata nella pubblica opinione, se non saranno i magistrati a dar l'esempio di voler render giustizia, prima che ai patrocinati, ai patrocinatori.

In verità, per chi volesse giudicare dai segni esterni, l'avvocatura come libera professione potrebbe sembrar vicina al tramonto. I soliti luoghi comuni contro i vizî degli avvocati, che da secoli hanno fornito materia spassosa agli innocui raccoglitori di facezie, hanno ceduto il campo in questi ultimi anni, e non in Italia soltanto, a una ragionata ostilità contro l'avvocatura; nella quale, considerata come la più tipica fra le professioni cosiddette liberali, alcuno ha creduto di scorgere una specie di residuo fossile del declinante individualismo, che sarebbe inconciliabile col prevalere dei principî autoritarî e che tra breve anch'essa dovrebbe esser del tutto eliminata dalla trasformazione, che si afferma inevitabile, delle libere professioni in pubblici impieghi. Né si può dire che da qualche venatura di questo spirito sia del tutto immune il recentissimo Progetto preliminare di riforma del processo civile, il quale, pur rispettando l'avvocatura come libera professione, ed anzi esplicitamente riconoscendo che il mantenimento dell'autonomia professionale è per essa un'esigenza di pubblico interesse, contiene peraltro contro le temute mariolerie degli avvocati un tale armamentario di rigorose sanzioni, da far pensare che il problema più urgente della riforma del processo civile sia oggi quello di difendere i poveri giudici contro le male arti degli avvocati, considerati, a quanto pare, non come i loro collaboratori più fidi, ma come i loro più pericolosi insidiatori.

Ora io credo che di questo stato d'animo, oggi più che mai diffuso, siano più che tutti responsabili i magistrati: i quali, vivendo a quotidiano contatto cogli avvocati e conoscendo quindi per esperienza propria alcune degenerazioni inevitabili di questa professione, sono naturalmente portati, come nel giornaliero attrito accade anche tra persone che in fondo si vogliono bene, a sentire piuttosto il fastidio dei difetti che il compiacimento delle virtù: dei difetti che sono soltanto di una esigua minoranza, mentre della grande maggioranza sono le virtù.

Osservate in udienza, mentre un avvocato da pochi istanti bravamente giostra in quell'eroico corpo a corpo oratorio che è il farsi ascoltare da un collegio che ha già sentito suonare mezzogiorno, l'atteggiamento di quel giudice che attentamente esamina il proprio orologio e lo rigira e lo scruta dalla parte della mostra e da quella della calotta, quasi sperando che quel luccichio di vetro e di metallo abbacini e riduca al silenzio l'oratore. Non occorre esser dotati di virtù divinatrici per leggere in quell'atteggiamento, come su un libro stampato, il pensiero del giudice: — Ecco che anche oggi questo seccatore ci manda a casa in ritardo: anche oggi troverò il pranzo freddo per colpa sua…. — E poi, da queste malinconie domestiche, il pensiero, mentre quello sconsigliato si ostina a parlare, assurge ad assiomi di ordine sociale: — Gli avvocati parlano e scrivono troppo: parlano e scrivono non per far l'interesse del cliente, ma per darsi aria di saperne più dei giudici e per impinguare le proprie parcelle. Una causetta da nulla, che si sbrigherebbe in cinque minuti, si gonfia, se è affidata al fiato degli avvocati, peggio di un pallon volante. Se non ci fossero gli avvocati, ci sarebbero meno cause: anzi, probabilmente, non ce ne sarebbe più neanche una. Perché i processi li mettono su gli avvocati: coi loro cavilli e le loro bugie. Se non ci fossero gli avvocati, i litiganti direbbero sempre la verità: anzi non avrebbero neanche bisogno di dirla, perché si abbraccerebbero fraternamente prima di averla detta. E non ci sarebbero più, nel processo, le sottigliezze escogitate dai legulei: non ci sarebbero più questioni di competenza, né appelli, né ricorsi in cassazione. Se non ci fossero gli avvocati, la giustizia si svolgerebbe alla buona, con spirito paterno e patriarcale…. — E così di seguito, fino a che l'incauto oratore non si decide a mandare i suoi giudici a pranzo.

Ma poi, se il giudice, che così ragionava sotto lo stimolo dell'ora meridiana (male suada fames), torna a meditare su questi problemi nella riposata serenità del tardo pomeriggio, egli stesso non stenta a comprendere che tutto quanto ha pensato in un momento di malumore a carico degli avvocati, era offensivo ed ingiusto in prima linea contro gli stessi magistrati; poiché, come ciascuno può rilevare considerando la celebre serie di disegni che il Daumier dedicò alle gens de justice, non si mettono in caricatura gli avvocati senza che i giudici siano coinvolti nella stessa beffa. Avvocati e giudici giuocano nel meccanismo della giustizia come in pittura i colori complementari: che, proprio perché opposti, meglio brillano nel ravvicinamento. Le virtù che più si onorano nei magistrati, la imparzialità, la resistenza a tutte le seduzioni del sentimento, e quella serena indifferenza quasi sacerdotale che i più torbidi casi della vita purifica e ricompone sotto la rigida formula della legge, non brillerebbero come brillano se accanto ad esse, a dar loro maggior risalto, non potessero affermarsi in contrasto le opposte virtù degli avvocati, che sono la passione della generosa lotta per il giusto, la ribellione ad ogni soperchieria, e la tendenza, inversa a quella dei giudici, ad ammollire sotto la fiamma del sentimento il duro metallo delle leggi, per meglio formarle sulla viva realtà umana.

Proprio per questo dovrebbero i giudici essere i più strenui difensori dell'avvocatura: poiché solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali; solo là dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l'avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia.

Non conosco maggiore aberrazione di quella di chi vuol vedere nella contrapposizione tra giudici e avvocati un'espressione tipica della antitesi tra interesse pubblico e interesse privato, tra autorità e individualismo. In realtà l'avvocatura risponde, anche nello Stato autoritario, a un interesse essenzialmente pubblico altrettanto importante quanto quello a cui risponde la magistratura: giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello Stato, che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione. Certe mansioni dinamiche del processo, le mansioni di impulso e di iniziativa, non si potrebbero demandare al giudice senza distruggere quella posizione psicologica di iniziale indifferenza, in cui egli deve trovarsi per conservare intatta fino al momento della sentenza la sua imparzialità: e sono per l'appunto gli avvocati, che assumendo a proprio conto gli urti e le polemiche, permettono al giudice di rimaner indisturbato sul suo soglio, al disopra delle passioni e delle risse. Ma questo carattere pubblicistico che hanno gli avvocati, intesi come organi complementari dei giudici, non importa necessariamente che essi debbano esser trasformati in funzionarî, come nella Prussia di Federico il Grande o in altre più recenti esperienze altrettanto significative.

Se prima condizione dello Stato forte è la fiducia del popolo nella giustizia e se coll'accrescersi dell'autorità dello Stato si accresce di pari passo l'esigenza di avvicinare la giustizia al popolo, non si può dimenticare che il tramite necessario attraverso il quale la giustizia viene a contatto col popolo, è, prima che il giudice, l'avvocato. Solo nella libera professione, che ha come pernio la scelta e la fiducia personale del cliente nel suo difensore, l'avvocato può trovare l'autorità morale necessaria per esercitare in mezzo al popolo quella funzione di araldo della giustizia, che è, in sostanza, una quotidiana esaltazione dello Stato.

Il giudice dev'esser distaccato da ogni legame umano, superiore ad ogni simpatia e ad ogni amicizia: ed è bene che i giudicabili lo sentano lontano ed estraneo, inaccessibile come una divinità nel suo empireo. Quando si parla di avvicinare la giustizia al popolo non si vuol dunque far discendere i giudici dal loro seggio e mandarli in giro tra la gente, come pellegrini annunziatori del diritto. Questa funzione è invece essenzialmente riservata agli avvocati: il popolo può non conoscere il suo giudice, ma deve conoscere il suo avvocato e aver fede in lui come in un amico liberamente scelto. E chi volesse trasformar l'avvocato in burocrate imposto d'ufficio ai giudicabili, con ciò non soltanto chiuderebbe il varco alla comprensione umana che segue la libera elezione delle amicizie, ma chiuderebbe altresì la sola porta attraverso la quale può passare la fiducia del popolo nella giustizia dello Stato.

Ma soprattutto si deve gelosamente conservare e incoraggiare, in questo tempo in cui gli ordinamenti pubblici si vanno sempre meglio orientando verso ideali di più vasta solidarietà sociale, questa vocazione fraterna che illumina dal di dentro la vita dell'avvocato. Egli porta nelle impassibili aule della giustizia l'irrequieto fervore della carità. Al giudice è vietato esser caritatevole; ma l'avvocato deve essere per il suo cliente, in certi momenti in cui ogni calcolo di mestiere si scioglie e si purifica nella commozione, il fratello e il confessore, che può dargli, più che la sua dottrina e la sua eloquenza, il conforto di tenergli compagnia nel dolore. Non si dimentichi che l'avvocatura è la sola professione nelle cui regole è scritto che, per i suoi seguaci, « il patrocinio gratuito dei poveri è un ufficio onorifico ». È facile far dell'ironia sull'altruismo degli avvocati; ma chi crede che la missione di carità oggi adempiuta dai liberi avvocati possa domani essere esercitata collo stesso spirito da un corpo di funzionarî tenuti soltanto alla scrupolosa osservanza dell'orario d'ufficio, non ha pensato che non si può stabilire in anticipo quali sono le ore in cui il dolore batte alla porta dell'avvocato, nel cui studio anche nelle ore notturne rimane accesa la lampada rossa, a indicare nel buio il « pronto soccorso » delle ambascie umane.

 

 

Ma sopra tutto i giudici, se vogliono comprendere ed amare come merita questa professione di carità che vive accanto a loro e riscalda le loro aule, non devono far confusione tra l'avvocatura e l'oratoria: la quale, se dal lato estetico è qualcosa di più, è qualcosa di meno dal lato morale e sociale.

Tra le numerose voci di consenso che hanno accompagnato la prima edizione di questo Elogio, qualche avvocato gli ha mosso il rimprovero di aver parlato con poco rispetto della eloquenza forense, tradizione nobilissima della avvocatura italiana. Ma l'autore crede di non aver meritato questi rimproveri; perché, se nessuno più di lui può sentire il fascino di quel miracolo che è la vera eloquenza, tanto più sorprendente quanto più rara, egli ritiene peraltro d'esser nel giusto quando pensa che, proprio perché si tratta di un dono eccezionale che solo è dato a pochissimi privilegiati, non può il processo, che serve alla vita di tutti i giorni, esser costituito per mettere in bella mostra gli oratori di eccezione, né può dal declinare di quella grande eloquenza, o dal minor campo ad essa oggi lasciato nelle aule giudiziarie, trarsi la conseguenza che sia oggi in declino la funzione sociale dell'avvocatura, e che nel processo la statura dell'avvocato sia oggi meno alta che un tempo. In realtà, come tutti sanno, anche la auspicata introduzione della oralità del processo civile non significherà che le porte del processo civile siano spalancate alla grande oratoria: poiché oralità vorrà dire sopra tutto dialogo quotidiano tra avvocato e giudice, reciproca comprensione, alimentata dal conversare senz'alzar la voce. Il giudice che ascolta rapito il grande oratore, lo ammira troppo per non sentirlo lontano da sé; ma tra giudice e avvocato non occorre ammirazione, occorre confidenza: sentirsi servitori dello stesso dovere, membri della stessa famiglia. Ben venga, se per eccezione è presente nell'aula, la grande eloquenza; ma se invece della fiorita oratoria c'è nel processo la parola disadorna e semplice di chi vuole esporre al giudice cose e non parole, sia benedetta anche così, senza vani paludamenti, l'avvocatura; senza stile di studiata rettorica, ma con stile di vita onesta; senza apostrofi e senza invettive, ma col coraggio di dir fino in fondo, con dignità e fermezza, tutto quello che occorre per far trionfare la giustizia.

Tra i giudizi espressi sulla prima edizione di questo Elogio, l'autore non può dimenticare quello espresso da un grande maestro di scienza giuridica, che è anche dotato come nessun altro del divino dono dell'eloquenza: il giudizio di Francesco Carnelutti, il quale ha detto che la visione espressa nell' Elogio gli sembrava « un poco malinconica », « per causa forse del temperamento dell'autore…. e certo del periodo che l'avvocatura attraversa ».

In quanto al temperamento malinconico dell'autore, è cosa che non interessa i lettori (ma tuttavia si potrebbe osservare che, se un altro autorevolissimo critico ha creduto di trovare nel libro la espressione di un ragionato ottimismo, vuol dire che l'autore non è poi tanto malinconico quanto si dice, poiché gli ottimisti sono gente, se non proprio allegra, serena). Ma in quanto alla malinconia del periodo che l'avvocatura attraversa, l'autore pensa che non sia il caso di fissarcisi troppo. Sì, non si può negarlo, il diminuire della litigiosità ha sempre più aggravato la crisi economica, e quindi il disagio morale, di molti professionisti; sì, nei dibattimenti penali i difensori non hanno più quella prevalenza (alquanto ingombrante) che vi avevano un tempo; e la libertà di difesa dev'esser praticata, oggi, con molto maggior tatto e con molto più rispetto del galateo…. Ma insomma bisogna che anche gli avvocati si abituino ad accorgersi che il mondo si trasforma: che certi gesti teatrali della loro professione sono passati di moda, che certe intemperanze di un individualismo di maniera devono disciplinarsi e fondersi in una più precisa coscienza dei doveri pubblici del loro ordine. E tuttavia, se le forme esteriori si evolvono, la sostanza umana dell'avvocatura è ben viva: se schiavi, se lacrime ancora rinserra, è giovin la terra.

 

 

Se ci sono ancora innocenti da difendere, se ci sono ancora soprusi da denunciare, se ci sono ancora dolori prodotti dall'ingiustizia e leggi dettate per guarirli, l'avvocatura è ancor giovine: e la gioventù non è mai malinconica, perché ha dinanzi a se l'avvenire.

 

 

A questo punto, qualcuno potrebbe rimproverare all'autore che, nel dettar la prefazione a un libro che si presenta come un elogio dei giudici, egli si sia diffuso ad elogiare gli avvocati; e che proprio a parlar degli avvocati egli abbia dedicato i due nuovi capitoli aggiunti a questa seconda edizione. Ma l'autore risponderebbe che, parlando degli avvocati, egli sapeva di esser sempre in tema; perché in fondo avvocati e giudici (è questa una sua fissazione, che deve essergli perdonata) non sono che due aspetti di una stessa realtà. Il più alto magistrato d'Italia, scrivendo benevolmente di questo Elogio dei giudici, si domandava: « A quando l'elogio degli avvocati scritto da un giudice? ». La domanda, finora, non ha avuto risposta; ma se mai accadrà che la risposta venga, gli avvocati, leggendo le loro lodi uscite dalla penna di un giudice, si accorgeranno che per dire bene degli avvocati non si può far altro che ripetere quasi alla lettera quello che si deve dire per lodare i giudici. E allora questo reciproco e coincidente riconoscimento di meriti, scambiato tra persone che ogni giorno lavorano insieme per lo stesso ideale, apparirà più profondo e più significativo di quanto potrebbe essere uno scambio di cortesie tra buoni vicini: più che l'elogio dei giudici o degli avvocati, sarà l'elogio della giustizia e degli uomini di buona volontà che, sotto la toga del giudice o sotto quella dell'avvocato, hanno dedicato la loro vita a servirla.