IX
DELLE PREDILEZIONI DI AVVOCATI E GIUDICI PER LE QUESTIONI DI DIRITTO ? PER QUELLE DI FATTO
Anche nella vita giudiziaria i mestieri più utili sono spesso i meno pregiati. C'è, tra gli avvocati e i magistrati, una certa tendenza a considerare come materia di scarto le questioni di fatto e a dare alla qualifica di « fattista » un significato dispregiativo; mentre, per chi cerchi nei difensori e nei giudici più la sostanza che l'apparenza, tale qualifica dovrebb'essere un titolo di onore.
Il fattista, magistrato o avvocato, è un valentuomo, modesto ma onesto, al quale il trovar la soluzione giusta che meglio aderisca alla concreta realtà sta più a cuore che il far bella figura come collaboratore di riviste giuridiche; e che, pensando più al bene dei giudicabili che al bene proprio, si sobbarca per loro al lungo studio degli incartamenti, che richiede abnegazione e non dà gloria.
È un peccato che, nell'ordinamento attuale della carriera giudiziaria, la costanza con cui il giudice ascolta i testimoni e la diligenza con cui postilla i documenti non siano, come le sentenze brillantemente motivate in diritto, titoli che si possano far valer negli « scrutinî »: per questo il giudice che predilige le questioni di diritto pensa assai spesso, più che alla giustizia, alla promozione.
C'era una volta un medico che quando era chiamato al letto di un malato, invece di mettersi ad osservarlo e ad ascoltarlo pazientemente per diagnosticare il suo male, cominciava a declamare certe sue dissertazioni filosofiche sull'origine metafisica delle malattie, che, a suo dire, dimostravano superflue le auscultazioni del degente e perfino la misurazione della temperatura. I parenti che attendevano la diagnosi intorno al letto, rimanevano sbalorditi da tanta sapienza: e l'ammalato, di lì a poche ore, tranquillamente moriva.
Questo medico, a volerlo definire con gergo forense, si potrebbe chiamare uno specialista per le « questioni di diritto ».
Ex facto oritur ius è una vecchia massima, cauta ed onesta, che impone, a chi vuole ben giudicare, di accertare prima di tutto, con fedeltà pedantesca, i fatti di cui si discute. Ma certi avvocati la intendono a rovescio: quando hanno escogitato una loro brillante teoria giuridica che si presta ai virtuosismi del facile ingegno, i fatti se li aggiustano alla lesta, secondo le esigenze della teoria; e così ex iure oritur factum.
Soltanto il giurista puro, che scrive trattati o fa lezione, può permettersi il lusso di avere opinioni rigide intorno a certe questioni di diritto e di dar battaglia aperta alla giurisprudenza dominante quando la ritiene sbagliata; ma il patrocinatore deve sempre mantenere intorno alla interpetrazione da darsi alle leggi una certa elasticità di opinione, in modo da potersi in ogni caso inchinare, quando si tratta di difendere l'interesse del suo cliente, alla interpretazione che, per essere seguìta dalle più accreditate autorità, assicura alla sua causa le maggiori probabilità di vittoria. Non è un buon avvocato colui che non sa resistere alla inebriante tentazione di esperimentare in corpore vili i suoi nuovi ritrovati teorici: quando si tratta di operare sulla carne viva del cliente, la discrezione gli deve consigliare, anche se come giurista si accorge che la giurisprudenza prevalente è sbagliata, di attenersi come avvocato al video meliora proboque, deteriora sequor.
« Eleganti questioni di diritto »: inutili parentesi di bravura e di agilità, buone soltanto a guastare la umana chiarezza del tema, simili a quelle acrobatiche variazioni con cui certi virtuosi di violino amano imbrogliare a metà il filo della sonata.
Si sente ripetere che la prova testimoniale è lo strumento tipico della malafede processuale; e che dai testimoni, smemorati quando non sono corrotti, la giustizia non può attendersi che tradimenti. Sarà vero; ma io dubito che di questa tradizionale lamentela contro la fallacia delle testimonianze sia in gran parte responsabile la inettitudine o la pigrizia di coloro che sono chiamati a raccoglierle.
Quando si vede che in certi tribunali i giudici delegati alle istruttorie civili usano (forse perché sono sovraccarichi di altre mansioni) lasciare ai cancellieri o ai procuratori il delicatissimo ufficio di interrogare i testimoni, si è tratti a pensare che, se questi non dicono la verità, la colpa non è tutta loro. Un giudice sagace risoluto e volenteroso, che abbia una certa esperienza dell'anima umana, che abbia tempo disponibile e che non consideri come mortificante attività da amanuense quella spesa nel raccoglier le prove, riesce sempre a spremere dal testimone, anche il più ottuso e il più riluttante, qualche preziosa stilla di verità.
Bisognerebbe che nella preparazione professionale dei magistrati si desse largo posto agli studî sperimentali di psicologia delle testimonianze: e che nelle promozioni, prima della sapienza con cui il giudice sa legger nei codici stampati, si considerasse titolo di merito la paziente penetrazione con cui sa decifrare le crittografie nascoste nel cuore dei testimoni.
Talvolta nei processi la prevalenza data da avvocati e giudici alle questioni di diritto o a quelle di fatto non corrisponde alle reali necessità della causa, ma è determinata da motivi tattici che solo gli esperti riescono a leggere tra le righe delle motivazioni.
Un tempo, quando le sentenze degli antichi Parlamenti francesi erano impugnabili per errore di fatto ma non per errore di diritto, abilità somma degli avvocati appariva quella consistente nel travestire ogni dubbio giuridico da questione di fatto: il contrario accade oggi per gli avvocati « cassazionisti », i quali per poter denunciare in cassazione le sentenze di appello attaccabili solo per violazione di legge, dalle più modeste e concrete circostanze di fatto traggono pretesti per dissertare de apicibus iuris.
Ma a questi espedienti avvocateschi non vorremmo che ricorressero i giudici: fa pena vederli talvolta, per mettere al coperto le loro pronuncie dal pericolo della cassazione, industriarsi a passar sotto silenzio questioni essenziali di diritto e mandar per il mondo certe loro sentenze così pesantemente motivate « in fatto », che sembran proprio rivestite di una goffa corazza destinata a chiudere il varco non solo ai colpi di bravura degli avvocati (e questo può esser bene), ma anche (e questo senza dubbio è male) all'occhio indagatore della Corte Suprema.
Dire di un giudice che le sue sentenze sono « belle », nel senso che siano saggi di scrivere ornato e di luccicante erudizione esposta in vetrina, non mi pare che sia fargli un complimento. Le sentenze dei giudici devono semplicemente, nei limiti delle possibilità umane, essere giuste: di fronte alla serietà del fine pratico al quale debbono servire, che è quello di portare la pace tra gli uomini, considerarle sotto l'aspetto puramente estetico vuol dire, se non mi inganno, credere che la giustizia si possa abbassare al livello di uno svago letterario o di una esercitazione da scuola.
Né si può dimenticare che, se nelle sentenze si pregiasse sopra tutto il bello scrivere, il merito più vero di questa letteratura dovrebbe attribuirsi agli avvocati, dalle cui scritture possono i giudici attingere a piene mani le gemme stilistiche, per incastonarle senza fatica nelle motivazioni delle loro sentenze. Ma il giudice coscienzioso sa che, se gli è lecito prendere a prestito dagli avvocati gli ornamenti della retorica e dell'erudizione finché si tratta di render più brillanti le premesse dialettiche della sua sentenza, al momento di concludere deve spogliarsi di ogni letteratura, per ascoltare soltanto dentro sé stesso la parola disadorna della giustizia, che disdegna le belle frasi e si esprime per monosillabi.