IV

 

 

DELLA COSIDDETTA ORATORIA FORENSE

 

 

Prendete due o più persone mediocremente colte e ragionevoli, che vogliano parlare tra loro per mettersi d'accordo su qualche questione tecnica, o per persuadere un terzo che li ascolti: uomini d'affari che negoziano un contratto, clinici chiamati a consulto, generali che combinano un piano d'attacco. Il loro modo di ragionare sarà, nella forma, lo stesso: un dialogo serrato fatto di frasi brevi, in cui ciascuno si industrierà di esprimer l'essenziale con parole semplici, le obiezioni saranno presentate e confutate una alla volta per arrivare al punto centrale del dissenso, i periodi resteranno a mezzo quando chi li pronuncia si accorgerà che l'interlocutore ha capito il resto da sé, e il gesto lo sguardo il tono basteranno, meglio delle frasi tornite, a stabilire il contatto e l'intesa.

Così parlano gli uomini che vogliono farsi intendere e persuadere. Invece gli avvocati, questi professionisti della persuasione, usano spesso un modo di esprimersi che è tutto il contrario. Il dialogo vivo e spezzato è sostituito dal monologo chiuso: lo stimolo vivificante delle obiezioni è abolito o differito: è bravo colui che riesce a portare in fondo senza ripigliar fiato lunghi periodi filati, anche se fin dalla prima parola tutti hanno capito dove vuole andare a finire. Si insiste lungamente su quello su cui tutti sono d'accordo: si riempiono i vuoti del pensiero con ornamenti retorici inutili o fallaci. La interruzione è un'offesa: ciascuno parla per sé, fissando il suo schèma mentale, come un equilibrista che non leva lo sguardo dalla seggiola che gli oscilla sulla punta del naso.

Questo modo di ragionare, che è la negazione di quello che adoprano per parlar tra di loro le persone ragionevoli, è chiamato da qualcuno « oratoria forense ».

 

 

Per estirpare dal costume forense quella tendenza al « bel canto » che ha screditato presso i giudici l'oralità, bisognerebbe che le aule giudiziarie non fossero troppo vaste, e che il banco degli avvocati fosse assai vicino a quello dei magistrati, in modo che il difensore potesse, mentre parla, legger negli occhi dei suoi togati ascoltatori l'ilarità, o il disgusto, che vi suscitano certi suoi artificî retorici.

Le grandi aule, in cui manca ogni sentimento di raccolta intimità, portano naturalmente l'oratore a forzare i toni, come la solitudine invita a cantare. Come non sentirsi portati ad alzar la voce e ad ampliare i gesti nella grande aula delle Sezioni Unite della Corte Suprema, in cui l'avvocato si sente minuscolo e sperduto nella vastità dei colonnati, e scorge i giudici lontanissimi, lassù dietro l'allo banco, come idoli immobili in fondo a un tempio, guardati attraverso un cannocchiale capovolto? Quell'aula, colla sua ornata solennità, è una istigazione alla grande oratoria. Vero è che, come correttivo, l'architetto ha fatto correre sull'alto delle pareti, scritta d'oro tra cartigli e festoni, una massima di quattro parole, una per parte: Veritas nimium altercando amittitur. Sulla parete in faccia all'oratore spicca in alto, al disopra delle teste del lontano collegio giudicante, quel NIMIUM, aureo come il silenzio; e l'oratore che, a mezzo un volo di eloquenza, ci posa l'occhio, subito capisce il latino: e rapidamente conclude.

 

 

O avvocato novellino, che sogni di poter un giorno, quando sarai diventato un avvocato principe, spandere liberamente i fiumi della tua eloquenza dinanzi alla Corte Suprema, ti consiglio di prender subito il treno per Roma e di recarti ad assistere, in mezzo allo scarso pubblico, all'udienza di una sezione civile della Corte di Cassazione: ti accorgerai di quanto la realtà differisce dal sogno (e ancor più te ne accorgeresti, se invece che nell'aula di una sezione civile, tu entrassi, lì accanto, in quella di una sezione penale).

Se avrai la pazienza di assistere a tutta la udienza, che può durar tre o quattr'ore, vedrai discutere, poniamo, otto ricorsi: meno di mezz'ora per ricorso. Per ogni ricorso, dopo una breve lettura del consigliere relatore, udrai parlare l'avvocato del ricorrente, poi quello del resistente, poi il pubblico ministero. Otto o dieci minuti per ogni arringa, appena quanti bastavano, secondo le regole della eloquenza classica, per attaccare l'esordio: e se un avvocato varcherà i dieci minuti, udrai il presidente rimproverarlo per la sua prolissità.

Uscirai dall'udienza pieno di malinconia, ma anche pieno di ammirazione per due sorta di eroismi: quello dei difensori che riescono a dire in otto minuti, chiaramente e correttamente, senza balbettar per la fretta e senza lasciarsi intimorire dall'ansietà del tempo che vola, tutto quello che hanno da dire: quello dei giudici che per un intero pomeriggio sostengono impassibili (e così per anni) il tremendo destino di ascoltar ventiquattro arringhe in tre ore.

 

 

Alla classica definizione del patrocinatore, vir bonus dicendi peritus, il giudice e l'avvocato pensano d'accordo che si debba apportare un ritocco.

Dice l'avvocato: — La probità è certamente la prima virtù del difensore, nel senso che egli non debba mai affermare al giudice cosa consapevolmente contraria alla verità. Ma, poiché il patrocinatore ha l'obbligo del segreto, e non può, per non tradire la verità, tradir la difesa, egli deve saper tacere a tempo, e trovar nel silenzio la conciliazione del dovere di lealtà verso il giudice col dovere di patrocinio verso il cliente.

Dice il giudice: — Il difensore probo è certamente un prezioso collaboratore della giustizia; ma poiché, quando un avvocato parla, io ho il dovere di diffidar di lui e di pensare che voglia trarmi in inganno a vantaggio del suo cliente, la sua probità nei miei confronti si dimostra sopra tutto col tacere. La prova più gradita di lealtà che un avvocato possa dare al giudice, per risparmiargli sospetti, inquietudini e perditempi, è il silenzio. Nel saper tacere si palesa la sua sapienza e la sua discrezione. — Così giudice e avvocato arrivano insieme, ma per diverse vie, a dare del perfetto patrocinatore questa definizione riveduta e corretta: vir bonus, tacendi peritus.

 

 

Non credo che nelle nostre facoltà di giurisprudenza ci sia bisogno di addestrare i giovani alla eloquenza forense, come nelle antiche scuole di rettorica. Gli studî giuridici devon servire a sciogliere il pensiero: quando questo sia agile e pronto, l'eloquio si scioglie da sé.

Ma, se una scuola di oratoria forense si dovesse istituire, la farei funzionare così: darei all'allievo da studiare, in una mattinata, il fascicolo di una complicata e difficile controversia civile, sulla quale egli dovrebbe poi riferire oralmente, in modo chiaro e compiuto, nell'inesorabile giro di un'ora. Il giorno seguente, sullo stesso argomento, dovrebbe riferire in mezz'ora; e infine, il terzo giorno, il tempo concessogli per ripetere la relazione dovrebb'essere ancora ridotto a un quarto d'ora.

A questa terza prova, che sarebbe quella decisiva, dovrebb'esser presente un uditorio di studenti, assolutamente ignari del caso. Se il relatore riuscisse a saper toccare in questa arringa concentrata tutti i punti essenziali della causa, in modo così chiaro e ordinato da farsi seguire ed intendere a colpo da quell' uditorio, egli mostrerebbe di aver imparato il genere di eloquenza che occorre per diventare un buon avvocato di cassazione.

 

 

L'arringa defensionale, per esser veramente utile, dovrebb'essere non un monologo filato, ma un vivace dialogo col giudice, che è il vero interlocutore: e che dovrebbe rispondere, cogli occhi, coi gesti, colle interruzioni.

L'avvocato deve amare le interruzioni del giudice, perché gli attestano che questi non rimane inerte ed estraneo alla sua arringa. Interrompere vuol dire reagire: e la reazione è il miglior riconoscimento della azione stimolatrice.

Il processo si avvicinerà alla perfezione quando renderà possibile tra giudici e avvocati quello scambio di domande e di risposte che si svolge normalmente tra persone che si rispettano, quando, sedute intorno a un tavolino, cercano nel comune interesse di chiarirsi reciprocamente le idee.

Spezzettando l'arringa in un dialogo, l'arte oratoria ci perderà: ma ci guadagnerà la giustizia.

 

 

L'arringa degli avvocati è considerata da molti giudici come un periodo di vacanza mentale: il giudice torna ad essere spiritualmente presente nell'aula, quando l'avvocato si siede.

 

 

Chi senza sapere che cosa sia un processo, entrasse in un'aula giudiziaria mentre gli avvocati parlano, sarebbe tratto naturalmente, dopo pochi istanti, a domandarsi chi siano gli ascoltatori ai quali si indirizza quella eloquenza: né mai gli verrebbe in mente che gli ascoltatori siano proprio quei signori annoiati e distratti che siedono lassù in alto, colla testa fra le mani, al banco dei giudici. Il profano, che osservi per la prima volta quella scena, ha l'impressione che quell'oratore scalmanato, che gesticola ammantato nella sua toga, parli soltanto per proprio spasso e sfogo, come si canta o si fa la ginnastica da camera; e tutte le persone che prendono parte all'udienza siano lì non per ascoltarlo, ma per lasciar che si sfoghi, aspettando pazientemente che sia terminato questo suo esercizio, dopo il quale ciascuno potrà cominciare a fare il proprio lavoro sul serio.

L'arringa defensionale, anzichè parte integrante del processo, è scaduta così fino ad essere una specie di parentesi di divagazione inserita a mezzo del processo: come in certi antichi spettacoli teatrali in cui, per far riposare gli attori, si inseriva tra un atto e l'altro un intermezzo di danza, durante il quale gli spettatori potevano tranquillamente dormire senza temere di perdere il filo della commedia.

 

 

Opinione di un giudice sulla eloquenza forense: — La forma di eloquenza in cui meglio si fondono le due qualità più pregevoli dell'oratore, la brevità e la chiarezza, è il silenzio.

 

 

L'avvocato che parla ha la sensazione quasi acustica dei momenti in cui la sua parola arriva a convincere il giudice e di quelli in cui essa lo lascia dubbioso o addirittura lo fa indispettire. È come un fenomeno di risonanza: talora si sente che gli argomenti che escono dalla bocca dell'avvocato si trovano all'unisono colla disposizione del giudice e lo fanno vibrare: tal'altra la sua voce risuona falsa e senza eco, come isolata nel vuoto. E quanto più l'avvocato forza i toni per cercar di superare il disagio di questo isolamento, tanto più gli riesce impossibile intonarsi con chi lo ascolta.

 

 

Ricòrdati che la brevità e la chiarezza sono le due doti che il giudice più ama nel discorso dell'avvocato.

— Ed ove non mi riesca essere insieme breve e chiaro, quale delle due doti, per meno scontentare il giudice, sacrificherò?

— Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione.

 

 

Non posso intenerirmi sulle lacrime di chi rimpiange che, colle norme oggi poste per limitar nel processo penale la durata delle arringhe defensionali, sia stata condannata a morte la « bella » oratoria.

Già, prima di tutto, mi ribello a considerare il valore delle arringhe degli avvocati sotto l'aspetto puramente estetico; quando sento parlare di una difesa « bella » o « brillante », ho l'impressione che questo attributo, che sarebbe un complimento gradito a un conferenziere da salotto, sia irriverente e frivolo quando si crede di poterlo applicare al duro ed austero ufficio dell'avvocato.

Ma poi, anche per chi volesse considerare l'oratoria forense soltanto sotto l'aspetto artistico, tutti sanno che non si è mai visto uno spettacolo esteticamente più sconcio ed umiliante di quello che offriva, nei dibattimenti penali di qualche decennio fa, il difensore troppo facondo: il quale, dopo aver parlalo per tre o quattro udienze di fila, non riusciva più a trovar il modo di farla finita, e in ultimo dava la penosa impressione di esser rimasto appiccato, senza più potersene staccare, al mulino a vento della propria eloquenza. L'arte è misura e disciplina: e se c'è ancora qualcuno che nelle arringhe degli avvocati ricerca il diletto artistico, sia grato al legislatore che, col limitare la durata del discorso, ha voluto consigliare, anche nel campo dell'oratoria, un salutare ritorno dalle parole in libertà al « fren dell'arte ».

 

 

Quel giorno, all'udienza, fui eloquentissimo: me ne accorsi dal compiacimento affettuoso che si dipinse sul volto dei giudici quando, alla fine della mia arringa, mi misi a sedere. Quasi mi parve, tanta fu la simpatia con cui mi salutavano, che per miracolo di amore le loro braccia rivestite dalle maniche della toga si allungassero di qualche metro, per giungere dall'alto banco fino a me, a carezzarmi.

Ciò accadde, se ben ricordo, quel giorno che mi alzai per dire: — Rinuncio alla parola.

 

 

Anche l'oratoria forense tende, come l'architettura, a diventar « razionale »: linee diritte, pareti spoglie, abolizione di inutili ornamenti, franca ostentazione, anzichè accorta dissimulazione, degli elementi architettonici rispondenti a necessità statiche. Anche l'oratore, insomma, come l'architetto, deve pensare prima di tutto alla solidità della costruzione: tanto meglio poi se da quella solidità balzerà fuori, senza cercarla, la bellezza monumentale.

Ma questa di fare a meno degli ornamenti posticci e di lasciare allo scoperto gli elementi maestri della costruzione, non mi sembra impresa senza rischi: ho una gran paura che a toglier via gli abbellimenti da certi discorsi, come da certe facciate, ci si accorga che sotto, invece di robuste travi, non c'è che fragile stucco.

 

 

Nei processi civili di qualche parte d'Italia la pratica ha creato (forse contro la legge) un modo di discussione orale delle cause, che mi sembra aver tutti i vantaggi dell'oralità senza avere gli inconvenienti dell'oratoria. Invece della solenne discussione in udienza, dinanzi al collegio disattento e non informato, la discussione ha luogo in camera di consiglio, qualche settimana dopo l'udienza, quando già il relatore ha studiato i fascicoli del processo e ne ha riferito al collegio. Questo sistema ha due vantaggi: primo, quello di dare all'avvocato ascoltatori che conoscano la materia di cui egli parla, e che quindi siano in grado di valutare ciò che dice; secondo, di imporre una forma di discussione familiare, dialogata, quale possono fare interlocutori seduti intorno a un tavolino, senza toga e senza solennità.

Affinché l'oralità, che vuol dire espressione schietta e semplice del proprio pensiero, riprenda quel posto che le compete, bisogna cacciar via dal processo l'oratoria, intesa come arte retorica di ricoprire il proprio pensiero sotto le parole. Bisogna nel processo abolire i gesti, gli atteggiamenti statuarî, le distanze. L'oratoria è in gran parte questione di mimica: mettete a sedere un oratore, e subito cambierà il registro della sua musica. Non so immaginarmi Cicerone che declami le sue catilinarie, compostamente seduto dinanzi a un tavolino.

 

 

Perché, se un giudice trova un avvocato in tram o al caffè, e attacca discorso con lui magari anche su questioni attinenti a un processo in corso, è disposto a credergli assai di più che se lo udisse dire le stesse cose in udienza, in veste di difensore? Perché nel discorso da uomo a uomo vi è più confidenza e più vicinanza spirituale che in quello da avvocato a giudice?

Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice la impressione che può fidarsene come se fosse fuori di udienza.

 

 

Di un'arringa tutta colorita di artificî retorici, disse il giudice, dopo averla ascoltata con diletto ma con sospetto:

— Dirò come di quella rosa: è tanto bella, che sembra finta.

 

 

Il tiro più maligno che un giudice possa fare a un avvocato, è quello di lasciarlo parlare senza interromperlo quando si accorge che dice cose inutili o dannose alla difesa ch'egli sostiene.

 

 

All'orecchio esercitato del giudice appar sintomatico, più di quello che l'avvocato dice, il tono con cui lo dice: certe frasi di un'arringa, in cui si sente che la voce dell'avvocato si sforza per non suonare falsa, sono come il tono sordo che nell'auscultazione rivela al medico il punto esatto in cui si localizza la malattia.

 

 

Il cliente che assiste alla discussione orale della sua causa non rimane contento se il suo avvocato non parla per ultimo: perché è opinione comune che nei dibattiti chi parla per ultimo abbia sempre ragione.

Ma il cliente non sa che anche tra i giudici si incontrano nature diffidenti e irritabili, nelle quali l'ascoltare gli argomenti altrui provoca l'irreprimibile bisogno di confutarli. Quando ci si imbatte in cosiffatte nature difficili, è meglio che l'ultimo a provocare la reazione del giudice sia l'avvocato avversario: in modo che il giudice entri in camera di consiglio, riscaldato contro di lui da ira polemica più recente.

In tali casi il proverbio è vero, ma capovolto: chi parla per ultimo ha sempre torto.

 

 

Confidenza di un giudice alla fine dell'udienza: — Chi ha detto che nelle cause civili la discussione orale non serve a nulla? Prima delle arringhe degli avvocati, ero in dubbio. Ha parlato il difensore dell'attore, e ho capito che fattore aveva torto; ma poi, per fortuna dell'attore, ha parlato il difensore del convenuto: e allora ho dovuto convincermi che l'attore aveva veramente ragione. — Il cliente non sa che molte volte, dopo una vittoria, dovrebbe andare ad abbracciare commosso non il suo avvocato, ma l'avvocato avversario.

 

 

Mi domando talvolta, da come parlano o scrivono certi avvocati, se la funzione del difensore non sia, anziché quella di mettere in evidenza le ragioni del suo cliente, quella di metterne in evidenza i torti: sicchè il giudice accorto può sempre, a colpo sicuro, andare a cercar la ragione di una parte nell'arringa dell'avvocato avversario.

 

 

*La brevità delle difese scritte ed orali (noi avvocati non riusciamo mai ad impararlo!) è forse il mezzo più sicuro per vincer le cause: perché il giudice, non costretto a stancarsi nella lettura di grossi memoriali o nell'assistere sbadigliando a interminabili arringhe, presta attenzione a mente fresca a quel poco che legge od ascolta, non ha bisogno di fare complicati riepiloghi per comprenderlo, e la gratitudine verso il difensore, che ha ridotto al minimo la sua fatica, lo induce a dargli ragione anche se ha torto. La brevità e la chiarezza, quando riescono a stare insieme, sono i mezzi sicuri per corrompere onestamente il giudice.

Di questa verità è dimostrazione un fatterello realmente accaduto, che potrebbe parere un apologo. A un'udienza penale di pretura, tenuta da un avvocato in funzione di vicepretore onorario e già durata parecchie ore, rimaneva da trattare una sola causa, per una contravvenzione di polizia. Era passato da un pezzo il mezzogiorno: il vicepretore aveva fretta di andare a pranzo. La sala d'udienza era vuota: c'era rimasto soltanto l'imputato col suo difensore, e un altro avvocato che faceva da pubblico ministero: tutt'e due amici del vicepretore.

Allora questi, dal suo banco, avvertì:

— Darò ragione a chi parlerà meno. La parola alla pubblica accusa! —

L'avvocato che faceva da pubblico ministero si alzò per la sua requisitoria: quella contravvenzione comportava una pena massima di tre mesi di arresto. Tese la destra con tre dita alzaie, e disse:

— Tre! —

E si sedè.

Allora si alzò il difensore. Non disse nulla: fece di no colla testa, si strinse nelle spalle, strizzò un occhio: e si rimise a sedere.

L'imputato fu assolto.

 

 

*Il giorno che arriverà su questa Terra il marziano, mandato in fulminea esplorazione di un'ora a vedere come vanno le cose quaggiù, che cosa gli mostrerò per fargli comprendere il grado di civiltà raggiunto dal nostro pianeta?

Non certamente un apparecchio di televisione, né una lambretta, né un aeroporto, né una bomba atomica; ma piuttosto lo inviterò ad assistere con me, in quell'ora, a un'udienza giudiziaria.

Non c'è da sorridere. Su tante udienze alle quali ho partecipato, qualche volta (una su cento) ho avuto la fortuna di poter assistere a una scena che ritengo atta a commuovere anche un abitante di Marte.

Un'aula moderatamente illuminata, lontana dai frastuoni, appartata in un antico palazzo gentilizio, con mobili e quadri antichi: un'aria di raccoglimento e di rispettosa familiarità; il presidente autorevole ma cortese, i magistrati attenti alle arringhe dei difensori, anzi desiderosi di ascoltarle fino in fondo; gli avvocati, ben composti nella toga, pacati e discreti nel discutere, aderenti ai temi essenziali, senza inutili divagazioni e senza modulazioni oratorie: convinti, l'uno e l'altro, della bontà delle proprie ragioni, ma rispettosi l'uno dell'altro, senza mai darsi l'aria di voler sopraffare l'avversario colla propria autorità o colla propria destrezza. Alla fine, si salutano tranquilli e sereni, amici come prima, tra loro e coi giudici. La sentenza sarà quel che sarà: i giudici mediteranno, ci ripenseranno, sceglieranno; ma ciascun difensore sa di aver fatto quel che ha potuto: senza mancar di rispetto né ai giudici, né all'avversario, né a sé stesso; fidando solo nella forza della ragione, in questa virtù di persuasione che, tra uomini civili, si dice abbiano le buone ragioni onestamente esposte da chi ci crede.

Quanti millenni ci sono voluti per arrivare a questo miracolo? Credo che anche l'abitante di Marte ne rimarrebbe ammirato (ma bisogna che egli capiti qui sulla Terra proprio quella volta: una su cento, come ho già detto).

 

 

*Terribile per l'avvocato, che cento volte nelle perorazioni delle sue arringhe ha finto la commozione con quegli accenti tremuli nei quali l'esperto orecchio del giudice scopre subito l'artificio, accorgersi, quel giorno in cui nel difendere un innocente si commuove sul serio fino alle lacrime, che i giudici diffidenti non gli credono più.

 

 

*Èrisaputo che la presenza del pubblico che ascolta (e più specialmente la presenza del cliente) è per certi oratori una specie di droga stupefacente, che causa un immediato sdoppiamento di personalità.

Chi conosce l'oratore fuori d'udienza, e sa quanto è affettuoso ed affabile, non lo riconosce più: in presenza del pubblico, par che dalla sua bocca, come avviene nei fenomeni medianici, si metta a parlare un'altra persona.

Cambia tono e perfino la pronuncia di certe consonanti: ma soprattutto cambia contegno e galateo. Colleghi con cui nel corridoio parlavi in confidenza con dimostrazioni di reciproca stima, improvvisamente in udienza ti appaiono ostili e screanzati: pur di far bella figura di fronte a chi li ascolta, pur di lanciare contro di te un motto che susciti l'ilarità del pubblico, sono disposti a trattarti come un nemico personale, passando sopra non solo all'amicizia ma anche alla buona creanza.

L'ideale dell'oratoria giudiziaria, almeno nei giudizi civili, è a parer mio tutto il contrario: quella di chi riesce a parlare in pubblico colla naturalezza e la pacatezza con cui le persone educate si esprimono in conversazione.

Anche nell'oratoria (almeno in quella forense) dovrebbe esser vietato l'uso degli stupefacenti.

 

 

*Accade spesso, in cassazione, che l'ora dell'apertura dell'udienza sia passata da un pezzo, e tuttavia il portone dell'aula rimanga a lungo sbarrato. Allora gli avvocati in toga, in attesa di discutere i loro ricorsi, si raggruppano intorno all'usciere immantellato di rosso che custodisce l'entrata, e gli domandano il perché di quel ritardo: e l'usciere risponde (non si sa se scherzi o dica sul serio):— Fanno la camera di consiglio per decidere i ricorsi che lor signori tra poco dovranno discutere. — E strizza l'occhio coll'aria di chi la sa lunga.

La camera di consiglio prima della discussione? Speriamo che non sia vero: sarebbe una beffa per gli avvocati. Ma è certo che qualche volta la discussione in cassazione ha quell'aria un po' impacciata di certi matrimoni che si celebrano col consueto cerimoniale, quantunque si sappia che l'irreparabile è già avvenuto in anticipo. Magari, a guardar bene sotto i candidi veli della sposa, si intravede dal suo portamento che quel suo abito virginale è un anacronismo; ma insomma, per rispetto delle buone usanze, i fiori di arancio li porta lo stesso.

 

 

*Parlavo da cinque minuti in udienza, sforzandomi di riassumere con chiarezza una tesi giuridica molto complicata e difficile. Mentre stavo per venire al nodo dell'argomentazione, vedo che il presidente (che evidentemente non voleva darsi la pena di seguire il mio discorso) mi faceva colla destra, riunendo insieme le punte delle cinque dita come le foglie di un carciofo, raccomandazioni mimiche di brevità.

In certi momenti più impegnativi del discorso, basta un gesto come questo a far perdere il filo. Mi fermai, e dissi:

— Veda, signor presidente, se io stessi leggendo una pagina scritta, potrei accontentarla, mettendomi a leggere un rigo sì e uno no. Ma, dovendo improvvisare, è inevitabile che nel mio discorso un minimo di filo logico ci sia. Mi voglia perdonare. —

 

 

*In attesa che cominci l'udienza, un usciere, appoggiato al portone ancora serrato di un'aula, disserta da intenditore, in mezzo a un circolo d'ascoltatori messi in soggezione dal suo mantelletto rosso, sull'oratoria degli avvocati príncipi, di cui ogni giorno, da vent'anni, egli è costretto per ragione del suo ufficio ad ascoltare le arringhe. Di ciascuno di essi egli conosce e descrive i gesti, i modi di dire, le inflessioni della voce: — Volete sapere qual è la più bella voce del palazzo di giustizia? — Anch'io lo so. Una volta, in un pomeriggio d'estate, quando il palazzo di giustizia è spopolato e le aule chiuse, ebbi occasione, per ricercare un fascicolo che avevo dimenticato, di salir quelle scale e di percorrere quei lunghissimi corridoi, a quell'ora silenziosi e deserti. A un tratto laggiù in fondo, nel silenzio di quei monumentali ambulacri, zampillò, cantato da una voce limpidissima, uno stornello romanesco.

Mi fermai attonito, come se avessi sorpreso un mistero orfico; sarebbe mai vero che finita l'udienza, i magistrati, per dimenticare tutte le parole inutili che hanno dovuto ascoltare, si rinchiudano in camera di consiglio per dedicarsi tra loro a gare di stornelli?

Mi avvicinai verso quel canto inconsueto: usciva da una delle cento porle di quel corridoio, sulla quale a lettere d'oro stava scritto: « Procuratore Generale ». Possibile? Eppure il canto, ardito e squillante come una risata, usciva proprio di lì.

Mi affacciai in punta di piedi: vidi, ginocchioni sul pavimento (non il procuratore generale) una donna vestita di una tuta azzurra, che con un cencio lucidava quel marmo: e intanto, per consolarsi dalla fatica, stornellava così, a piena voce: « Fiorin de rosa » Mi ritirai in punta di piedi senza che ella si accorgesse di me. Questa è la più bella voce che io abbia mai sentito al palazzo di giustizia.

 

 

*Un magistrato mio amico, che durante le ferie ha fatto per la prima volta un viaggio aereo, mi raccontava le sue impressioni di volo:

— Un incanto, un sogno, quello scivolare sulla luce immacolata, come su una pista di diamante, lasciando sotto di sé gli uragani. Pareva di essere in un altro mondo. Soltanto ho ritrovato una impressione sgradevole, altre volte provata su questa terra: quando si comincia a discendere e ci si accorge che il campo d'atterraggio è coperto dalle nubi. Allora l'aeroplano si mette a roteare penosamente al disopra di quel campo di nuvolaglia in cerca di uno strappo per infilarcisi: e non gli riesce di trovarlo, e continua a girare; e a un tratto par che l'abbia trovato e s'abbassa, ma poi subito si rialza incerto, e ricomincia a vagare tra le nuvole. Allora ti prende un'angoscia: e quasi ti vien voglia di rivolgerti al pilota per domandargli se lo puoi aiutare in qualche modo anche tu a trovare la strada per tornare in terra.

Ma questa sensazione non m'era nuova: l'ho provata tante volte in udienza, quando certi oratori, dopo aver detto tutto quello che avevano da dire, non riescono più a trovare il verso di finire: e girano e rigirano ronzando sempre sugli stessi argomenti, in cerca di una bella perorazione; ma quando par che finalmente l'abbiano infilata, ecco che si rialzano impennandosi nel vuoto delle frasi, perché non avevano calcolato bene la misura dell'ultimo periodo.

Allora il povero giudice prova la voglia di interloquire: — Avvocato, se non le riesce di atterrare, le do io una mano: ecco, dica così…. —

 

 

*Un profano, che non aveva mai assistito alla discussione di una causa civile, entrò un giorno, accompagnato da un magistrato suo amico che gli faceva da guida, in un'aula della cassazione: e vide che ai due banchi della difesa, separati da un breve intervallo centrale, erano seduti, pigiandosi gomito a gomito, ben dieci avvocati in toga, cinque di qua e cinque di là. Credeva che tutt'e dieci dovessero prender parte alla discussione; e invece parlarono in due, uno per parte: e alla fine si alzò, per la sua requisitoria, il procuratore generale.

Uscendo, domandò al suo accompagnatore che cosa ci stessero a fare, accanto ai due avvocati parlanti, gli altri otto muti. Rispose il magistrato:

— Nelle cause più importanti, la difesa è orchestrale: ogni parte ha scritturato una propria orchestrina, cioè un collegio di difensori, ognuno dei quali suona il suo strumento, secondo la prestabilita partitura musicale.

— E come può funzionare un'orchestrina, se quattro suonatori su cinque stanno in silenzio?

— Anche il silenzio, in musica, ha il suo valore: e poi non è detto che tutti gli strumenti di cui si compone quell'orchestrina siano fatti per esser suonati in udienza…. —

E poiché quello mostrava di non capire, il cortese accompagnatore gli fece la seguente spiegazione:

— Devi sapere che nella zoologia forense il genere avvocato si divide in varie specie, ciascuna delle quali si suddivide poi in sottospecie e varietà.

C'è il semplice avvocato (advocatus merus di Linneo), di solito molto giovane, che è quello che sgobba in biblioteca a far le ricerche di dottrina e giurisprudenza, a scriver le comparse e a preparare lo schema della difesa orale; c'è l'avvocato « di corridoio » (advocatus explorator seu commendato) che, quando le aule son chiuse, si aggira come un'ombra per gli ambulacri e le anticamere, in cerca di utili contatti; e c'è l'avvocato « di cerimonia » (advocatus ad pompam, seu luminar fori) al quale è riservata la funzione, finale e meramente decorativa, di ripetere oralmente in udienza gli argomenti scritti nelle comparse dal semplice avvocato, suo collega di difesa.

Si può aggiungere che ciascuna di queste specie si suddistingue in diverse varietà. Per esempio: gli avvocati di cerimonia possono appartenere a tre diversi sottotipi: « insigni giuristi », « grandi oratori », « autorevoli parlamentari »; ma alcuni zoologi preferiscono classificare questi ultimi, gli autorevoli parlamentari, tra gli avvocati di corridoio, insieme cogli amici di famiglia (dei magistrati) e cogli ex magistrati in pensione, iscritti di diritto nell'albo degli avvocati.

— Ma perché — domanda l'ingenuo — alla fine tutti questi avvocati perdono tempo ad andare in udienza, anche se uno solo di essi deve parlare?

— Perché ognuno di essi, colla sua presenza in udienza, vuol ricordare al suo cliente e ai giudici l'importanza del contributo da lui dato alla vittoria comune: e forse anche perché essi hanno l'idea che i magistrati giudicanti, a vederli schierati tutti insieme in udienza, restino impressionati e non s'attentino a non dare ascolto a un collegio defensionale così bene orchestrato.

— Ma i giudici di tutto questo che cosa ne pensano?

— Non ne pensano niente: perché hanno da pensare a far giustizia secondo la loro coscienza, e non a curarsi di queste parate.

 

 

*Alla vigilia della discussione, la mia cliente venne a sapere che la parte avversaria all'ultimi'ora aveva associato alla sua difesa un ex magistrato, andato da poco a riposo, che fino a ieri, prima di iscriversi n?ll'albo degli avvocati, aveva coperto l'ufficio di procuratore generale in quella stessa corte.

La cliente si mette a strepitare: — Tradimento, tradimento! Voglio anch'io un ex magistrato! — Dovemmo con un pretesto far rinviare la discussione di qualche settimana per accontentare la cliente. Trovammo sulla piazza un ex presidente di cassazione, e lo associammo alla nostra difesa. Non ci chiese di leggere le nostre comparse, non aprì bocca in udienza: si limitò durante la discussione a stare solennemente seduto accanto a me che parlavo, e a guardare ogni tanto con aria di sfida il suo ex collega in magistratura che, assiso nel banco della difesa avversaria, anch'egli guardava e taceva: sottile giuoco di contrappesi di piombo sulla bilancia della giustizia.

 

 

*Difendi le cause con zelo; ma non esagerare. La troppa dottrina, l'eccezionale sfoggio di citazioni di autori, il raffinato virtuosismo dialettico stancano il giudice. Se scrivi troppo, non legge; se parli troppo, non ascolta; se sei oscuro, non ha tempo per cercar di capirti. Per vincer le cause, bisogna portare argomenti mediocri e semplici: che offrano al giudice la facile strada della minor resistenza.

Disse, sospirando, quell'avvocato, quando ebbe la notizia di aver perduto una causa alla quale aveva dedicato sei mesi di zelantissime fatiche:

— Non l'ho difesa abbastanza male per meritare di vincerla. —

 

 

*Un'udienza delle sezioni unite della corte di cassazione è durata dalle nove della mattina alle sette del pomeriggio: e, finita l'udienza, i consiglieri si sono trattenuti per oltre due ore a deliberare in camera di consiglio. Sono usciti a notte fonda, disfatti e barcollanti, dopo dodici ore di lavoro: dieci ore ad ascoltare, due ore a trarre le conclusioni da ciò che avevano ascoltato.

Nelle dieci ore di udienza sono stati discussi dieci ricorsi. Ogni discussione si componeva di quattro arringhe: prima il consigliere relatore ha riferito oralmente i precedenti della causa; poi ha parlato l'avvocato del ricorrente; poi quello del resistente; e alla fine il pubblico ministero ha fatto la sua requisitoria. Dieci ricorsi, in tutto quaranta arringhe: dividendo dieci ore per quaranta, si vede che in media ognuna di queste arringhe è durata un quarto d'ora.

Alla fine di queste dieci ore di udienza, due ore di camera di consiglio per decidere sui dieci ricorsi trattati: il che vuol dire che per deliberare su ciascun ricorso la corte ha impiegato in camera di consiglio dodici minuti. I consiglieri che prendevano parte alla deliberazione erano quindici: il che vuol dire che per ogni ricorso ognuno dei deliberanti ha avuto a sua disposizione, per meditare ed esprimere la sua opinione e per confutare le opinioni avversarie, meno di un minuto (per essere esatti, quarantotto minuti secondi).

Il profano che per la prima volta assiste a uno di questi caroselli giudiziarî, si pone una quantità di domande:

— È possibile che persone di normale resistenza (senza contare gli acciacchi dell'età) continuino per dieci ore, o anche per otto o per sei, a prestare attenzione a quaranta oratori che si susseguono ininterrottamente, trattando dieci cause diverse ed esponendo per ogni causa argomenti contrastanti?

— Come fanno, alla fine di queste dieci ore, questi valentuomini a ricordarsi per filo e per segno tutto quello che hanno udito?

— È proprio vero che quando si riuniscono in camera di consiglio per esprimere la propria meditata opinione su ogni ricorso, riescono a ritrovare a colpo nel guazzabuglio di discorsi che ronza ancora nella loro povera testa rintronata, l'argomentazione appropriata con cui il difensore (uno tra i venti difensori che hanno parlato in quella udienza) si era illuso di essere arrivato a dimostrare trionfalmente la sua tesi?

— Si può credere sul serio che per mettersi d'accordo sulla decisione da prendere in cause spesso di estrema gravità, siano sufficienti a ciascuno di essi quarantotto minuti secondi di meditazione? — Sono domande alle quali non è facile dare una risposta tranquillante. Ma forse è bene che i profani non cerchino di penetrare questi misteri: e non sappiano che alla fine di queste udienze può accadere che tutti, avvocati e giudici, vadano a casa stanchi e pieni della stessa malinconia.