XVIII
DI CERTE TRISTEZZE ED EROISMI
DELLA VITA DEGLI AVVOCATI
Se l'imputato povero ed oscuro trova accanto a sé, anche nei processi più combattuti e pericolosi, il difensore che fraternamente lo assiste,vuol dire che nel cuore degli avvocati non alberga soltanto cupidigia di denaro e sete di gloria, ma anche spesso la cristiana carità che impone di non lasciar l'innocente solo col suo dolore o il colpevole solo colla sua vergogna. Ma poi c'è qualcosa di più: quando alcuno passa accanto alla violenza che minaccia il diritto, e invece di proseguir lesto per la sua strada figurando di non vedere, si ferma sdegnato per apostrofare il prepotente e, noncurante del suo proprio pericolo, si getta generosamente nella zuffa per prender le parti del debole che ha ragione, questo si chiama coraggio civile, che è virtù ancor più rara della carità.
Ciò sia ricordato a coloro che volentieri continuano a scherzare con motti antiquati sulla proverbiale rapacità degli avvocati.
Ho veduto at Palazzo di Giustizia, sulla porta di un'aula, un vecchio avvocato che attendeva, già vestito della toga, il suo turno di discussione. Appoggiato stancamente alla soglia, pareva che stesse in contemplazione estatica delle sue mani, che teneva congiunte sul petto, in atto di preghiera, estraneo e come ravvolto di solitudine in mezzo alla folla rumorosa dei suoi colleghi. Ma, guardandolo più da vicino, mi sono accorto che non a pregare era intento, ma a contarsi sul polso, cogli occhi fissi all'orologio, i battiti del cuore.
Un collega indiscreto l'ha riscosso da quell'isolamento, domandandogli con scherzosa fatuità se avesse la febbre; ed egli, come svegliato da un sogno, ha risposto con voce sorda: — A detta dei medici, i malati di cuore non dovrebbero discuter cause…. — Soltanto allora ho notato il pallore violaceo di quella fronte: e sulle tempie, sotto la pelle cerea, il visibile corso serpeggiante di quelle piccole arterie, nelle quali il volgo crede che stia scritto il fato della morte improvvisa.
Ma l'usciere ha chiamato la sua causa, ed egli è sparito nell'aula: e quando, di lì a poco, vi sono entrato anch'io, ho visto con stupore che dal vecchio avvocato curvo e sofferente era venuto fuori, dinanzi al banco della difesa, un robusto oratore prodigo di vita, che s'accalorava nella discussione, agitando nel gestire quel polso sul quale un istante prima aveva spiato il passo della morte in cammino.
Ora che stava in giuoco la vittoria del suo cliente, non gli veniva neanche in mente di poter risparmiare quel gesto più rapido o moderare quella apostrofe più concitata, che poteva bastare essa sola, nella fragile incrinatura di quelle piccole arterie serpeggianti, ad aprire l'ultimo varco.
La forma più umana di carità, quella che meno tradisce la fretta colla quale il benefattore cerca di tornare a sentirsi estraneo alle pene del beneficato, consiste non nell'elargire con precipitazione qualche aiuto materiale per subito allontanarsi dal dolore senza più guardare indietro, ma nel prestare orecchio paziente alla narrazione delle miserie altrui, in modo da dare al sofferente che le racconta il conforto di non sentirsi solo nell'assaporarle. Lasciar credere a chi soffre che il racconto dei suoi mali può essere per altri oggetto non solo di pietà, ma di premurosa considerazione, vuol dire aiutarlo a vincere quel senso struggente di solitudine dinanzi al dolore, che gli ammalati cercano di scongiurare quando per la decima volta ricominciano a narrare al medico tutti i risaputi particolari, anche i più crudi ed incresciosi, delle loro infermità.
Ora gli avvocati praticano giornalmente, al pari dei medici, questa forma di solidarietà umana che consiste nel tener compagnia a chi si trova a tu per tu col dolore: per questo le professioni dell'avvocato e del medico sono state dette, meglio che professioni libere, professioni di carità. Come l'ammalato ama di confidarsi ai medici anche se non ha speranza di guarigione, il cliente, anche se non ha speranza di vittoria, cerca ansiosamente l'avvocato, perché sa che nel mondo non riuscirebbe a trovare altra persona disposta ad ascoltare con altrettanta pazienza la narrazione fatta per filo e per segno degli incresciosi suoi casi personali, i quali per chi li vive sono grandi come il mondo, ma per ogni altro interlocutore che non sia l'avvocato appaiono soltanto come una fastidiosa infilzata di trascurabilissime beghe.
Si crede comunemente che la missione specifica dell'avvocato consista nel farsi ascoltare dai giudici: in realtà l'ufficio più umano degli avvocati è quello di stare ad ascoltare i clienti, ossia di dare agli irrequieti il sollievo di trovar nel mondo un confidente instancabile delle loro inquietudini. Il cliente, nell'uscir dal lungo colloquio con questo confessore laico che per vocazione si affeziona alle secrete ambascie altrui affidategli in custodia, si sente più leggero e come purificato: si accorge che, dopo essersi confidato con lui, la parte più crudele delle sue pene è rimasta magicamente imprigionata e addomesticata in quelle carte sulle quali l'avvocato, mentre il cliente parlava, ha classificato i suoi sospiri sotto appositi articoli di legge. Si è compiuta così una specie di benefica reazione chimica, in virtù della quale il livore, questo tossico sottile che prima circolava disciolto nel sangue, si è trasformato in una sostanza neutra, che non brucia più le labbra e che si può osservare con distaccata serenità, come un precipitato ormai insolubile, ben visibile nella limpida provetta di quel farmacologo delle passioni, che è l'avvocato.
Il cliente, quando mi capita per la prima volta nello studio, è, per definizione, un seccatore: e se, appena mi si presenta, potesse leggermi nel cuore ciò che penso di lui, fuggirebbe via inorridito. Ma poi, represso il primo scatto di ribellione, lo invito, con un mesto sorriso, ad accomodarsi: e intanto sospiro dentro di me sulla sorte dell'avvocato, al quale la società ha affidato questo delicatissimo privilegio di essere il parafulmine degli importuni, incaricato di attirarli nel suo studio e di farli dolcemente scaricare in quella specie di camera isolante corazzata di vecchi fascicoli polverosi, affinché non mettano in pericolo, coll' esplodere in libertà per le vie del mondo, la tranquillità, della gente felice.
Il cliente, dunque, si siede dinanzi a me: ed io, colla rassegnazione della vittima pronta al sacrificio, lo invito a parlare. Ma nei primi minuti non riesco a stare attento a quello che il mio interlocutore racconta: proprio allora, stimolato dalla voce estranea di quell'intruso che parla di cambiali scadute e di forniture non rispondenti al campione, il mio pensiero sogna di evadere verso immaginarie plaghe marine, nelle quali non esistano né cambiali né forniture; e quel seccatore che mi viene a raccontare i suoi fastidî personali (ma che c'entro io, che nemmeno lo conosco, coi suoi interessi privati?) mi fa l'effetto di uno che, mentre mi slancio per salir la scaletta del battello che leva l'ancora, mi s'attacchi alla giacca per farmi mancare l'imbarco.
Ma, via via che il discorso si inoltra, comincio, quasi senza avvedermene, a dargli retta. Mi incuriosiscono da principio, più che altro, gli aspetti esteriori dell'interlocutore: la fisionomia, il modo di vestire, i gesti. Prima che il senso delle parole, comincio a notare l'accento, le pause e giri delle frasi, che forse rivelano esitazioni o tortuosità di pensiero; mi sorprendo a far mentalmente, in ogni periodo che ascolto, la statistica dei « dunque » o il censimento dei « siccome ». Così, a poco a poco, la mia professione mi riprende; basta il senso di qualche frase a darmi lo spunto per una prima diagnosi: sono così pochi gli schemi astratti sotto i quali possono ridursi, da che mondo è mondo, le disavventure umane, che per una prima classificazione non occorre molta fatica. Ma poi, sotto i caratteri generici, il caso prende, nel discorso del cliente, una sua propria fisionomia sempre più segnata: mi accorgo che c'è un punto della vicenda, quello taciuto o sfiorato appena, intorno al quale il narratore si aggira con trepidazione: scopro, sotto quelle frasi esitanti, una vergogna che non osa affiorare, un rammarico che non vuol confessarsi, quasi il timore, si direbbe, di toccare una cicatrice che duole ancora. E allora sento che gli schemi astratti non servono più: bisogna uscir dalla generica indifferenza professionale che vorrebbe appagarsi delle approssimazioni, e avvicinarsi con rispettoso desiderio di comprensione al caso individuale, che non è comparabile con alcun altro, perché ogni creatura umana è unica, ed ogni dolore è nuovo.
Qui è necessario ch'io interrompa il discorso del cliente: sento ora il bisogno di interrogarlo, di riportarlo al punto di partenza, di chiedergli spiegazioni sui vuoti che il suo discorso ha lasciati nell'ombra. I varî frammenti della sua narrazione tendono a coordinarsi e a saldarsi attraverso questa mia inchiesta; le parti così sono invertite: era lui che mi opprimeva col suo racconto, ora son io che lo incalzo col mio interrogatorio. E quando finalmente consento a lasciarlo tacere, il suo cuore si è vuotato: il suo caso è diventato il mio caso. Ora io ne so più di lui: la sua vicenda, trascritta in bella copia nel mio pensiero, s'è ordinata e chiarita; vi ha assunto una giustificazione logica che prima non sapeva di avere. E se egli vorrà conoscere come essa si è svolta, sarà lui d'ora innanzi che dovrà chiedere spiegazioni a me.
Quando il cliente se ne va, il mondo dell'avvocato è popolato di una nuova esperienza: ossia di una pena di più, ma anche di una ragione di più per sentirsi affezionato alla vita. Era entrato un seccatore, ma sotto ci si è scoperto un debole da consigliare, un innocente da difendere, forse un amico da consolare. Così l'avvocato rimane solo nella sua stanza, carezzando i suoi fidati codici; l'idea di imbarcarsi è svanita: deve rimanere a terra dove c'è tanto da fare.
Per continuare scioccamente a descrivere gli avvocati come i vampiri dei loro clienti, bisogna non aver assistito alle ultime ore di un avvocato fiorentino, la cui fine indimenticabile sembrò, ai colleghi che lo videro morire nel pieno vigore dell'età, esemplare e quasi simbolica.
Nei primi giorni della malattia non volle confessare neanche a sé stesso di sentirsi febbricitante: e continuò ostinatamente la sua solita vita di lavoro senza respiro e senza pietà, colle ore diurne tutte prese dal logorio delle udienze e dei clienti, e con quelle della natte dedicate, fin quasi all'alba, a scriver memorie defensionali, pagine su pagine, nel silenzio della sua biblioteca. Ma poi la febbre, che sotto l'apparente robustezza trovava la devastazione compiuta da questo spreco continuato per decennî, lo fiaccò a un tratto: a malincuore e quasi con vergogna egli dovè trascinarsi a letto, pur debolmente protestando che si trattava di un passeggero malessere e che il giorno dopo immancabilmente sarebbe tornato allo studio. Da quel letto non si alzò più: lottò per qualche giorno, ostinandosi a farsi portare dallo studio i fascicoli delle cause più urgenti e illudendosi di poterli studiare, sollevato sui cuscini; ma poi, quando si accorse che gli occhi e la testa non gli reggevano più, cominciò a lamentarsi come un bambino coi suoi familiari per questo prolungarsi della malattia che gli impediva di lavorare, e a tormentare il medico spiegandogli affannosamente che gli avvocati non possono permettersi il lusso di esser malati: — Altro che medicine! Qui ci sono in giuoco gli interessi dei clienti, e i termini che scadono! — Coll'aggravarsi del male, il pensiero dei processi diventò un'ossessione: in certi momenti, preso da una specie di delirio ragionante, dettava brani sconnessi di argomentazioni giuridiche, e si rivolgeva arringando ai giudici, come se li avesse lì, ai piedi del letto, assisi ad ascoltarlo. Ma poi tutta la sua pena si concentrò su una sola idea: sulla discussione di un certo ricorso in cassazione, già fissata per una udienza prossima, della quale gli pareva di non poter chiedere il rinvio, perché, diceva, « il rinvio sarebbe una vergogna »: e lo ripeteva ansimando, con quella invincibile ostinazione dei malati fissati in un'idea: « …. una vergogna ». Così, in quegli ultimi giorni, egli non ebbe altro desiderio che quello di ottenere dal medico, come se dipendesse da lui, di guarire prima di quella discussione: bisognava in tutti i modi che per quel giorno egli fosse in condizione di partire per Roma, per prender parte a quella udienza. Nella sua mente sconvolta, quella udienza assumeva una importanza decisiva e quasi fatale, non solo per la sorte di quel ricorso, ma anche per il destino della sua vita: — Se non posso andare a discutere questo ricorso, sono un uomo finito: se non riesco a far accogliere questo ricorso, vuol dire che non potrò più guarire….—
E allora, poiché ogni speranza di guarigione svaniva, gli amici per tenerlo tranquillo combinarono un pietoso inganno. Ottennero a sua insaputa che la discussione fosse rinviata a lungo termine; ma il giorno in cui la discussione avrebbe dovuto aver luogo, per evitargli la notizia del rinvio che avrebbe potuto sembrargli di cattivo augurio, gli fecero arrivare da Roma un telegramma annunciante che il ricorso, senza bisogno di discussione, era stato accolto in pieno.
Il telegramma gli arrivò quando egli era già sulla soglia dell'agonia; ma quando glielo lessero, aprì gli occhi un istante e sorrise, mormorando: « ….dunque devo guarire ». Queste furono le ultime sue parole e forse l'ultimo suo pensiero. Intorno al letto c'erano la moglie e i figli e qualche collega di studio; ma l'ultimo sorriso fu per quella notizia, per questo annuncio di giustizia che nel suo pensiero di morente si confondeva coll'annuncio della guarigione.
Forse morì senza avvedersene, sereno per non aver mancato al suo dovere e per non aver compromesso, con questo importuno e trascurabile contrattempo della malattia, quello che nella sua coscienza unicamente contava: la vittoria del cliente, che, per la difesa del suo diritto, si era affidato a lui.
Non era né un eroe né un santo: era semplicemente un avvocato.
*Un avvocato penalista molto modesto, che non aveva da difendere grandi criminali in Assise, ma viveva alla meglio patrocinando piccole cause di contravvenzioni in pretura, si trovò all'improvviso senza lavoro il giorno in cui fu pubblicato un provvedimento di larga amnistia, di cui beneficiarono tutti i suoi clienti.
Poiché un articolo del codice penale dice che l'amnistia « estingue » il reato, egli mandò in giro un suo biglietto da visita, listato di nero come un annuncio funebre: avv. N….. N…..
estinto per amnistia.
*Di solito gli avvocati lavorano senza risparmiarsi fino all'ultimo respiro: « per arrivare alla morte senza pensarci », mi confessò un vecchio avvocato, al quale ingenuamente avevo domandato perché, dopo tanto lavoro, non si prendesse un po' di riposo.
Ma può anche avvenire qualche volta che un avvocato sia così longevo da sopravvivere alla sua professione. Questa è forse la più spietata tra tutte le sorti che possano toccargli: quello studio rimasto deserto, quei libri che nessuno più sfoglia, e lui seduto immobile dietro quel banco, in attesa dei clienti che non lo cercano più.
A Siena, nei primi anni del mio insegnamento universitario, incontravo spesso un vecchio diritto e dignitoso, sempre vestito di nero, che passeggiava lentamente sempre per le stesse vie, in su e in giù, come se attendesse qualcuno che non arrivava. Un giorno un professore mio collega, che già era sulla sessantina, me lo additò: — Quello è il mio babbo: ha quasi novant'anni. Era avvocato, e assai reputato: aveva tanti clienti. Ma ora gli è toccato chiudere, perché gli son tutti morti. —