VIII

 

 

CONSIDERAZIONI SULLA COSIDDETTA LITIGIOSITÀ

 

 

C'è un momento in cui l'avvocato civilista deve guardare la verità di faccia, con occhio spassionato di giudice: quello in cui, chiamato dal cliente a consigliarlo sulla opportunità di promuovere una lite, ha il dovere di esaminare imparzialmente, tenendo conto delle ragioni dell'eventuale avversario, se possa giovare alla giustizia l' opera di parzialità che gli è richiesta. Così l'avvocato, in materia civile, dev'essere il giudice istruttore dei suoi clienti: la cui utilità sociale è tanto più grande, quanto maggiore è il numero di sentenze di non luogo a procedere, che si pronunziano nel suo studio.

 

 

L'opera più preziosa degli avvocati civilisti è quella che essi svolgono prima del processo, stroncando con saggi consigli di transazione i litigi all'inizio, e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria. Anche per gli avvocati, come per i medici: per i quali, se qualcuno dubita che l'opera loro riesca sul serio a variare il corso della malattia già dichiarata, nessuno osa negare la grande utilità sociale della loro opera profilattica.

L'avvocato probo dev'essere, più che il clinico, l'igienista della vita giudiziaria: e proprio per questa giornaliera opera di disinfezione della litigiosità, che non sale alla pubblicità delle aule, i giudici dovrebbero considerar gli avvocati come i loro collaboratori più fidi.

 

 

Non è vero, come ho sentito dire da qualche causidico senza scrupoli, che la questione giuridica sia di competenza dell'avvocato, e la questione morale sia di competenza del cliente. Credo anzi che sia ufficio nobilissimo dell'avvocato proprio quello di richiamare il cliente prima alla questione di moralità che a quella di diritto: e di fargli intendere che gli articoli dei codici non sono comodi paraventi fabbricati per nasconder brutture.

Considerar la questione di diritto come un teorema da dimostrarsi con formule astratte, in cui gli uomini sono rappresentati da lettere e gli interessi da cifre, può farlo il giurista in un trattato o in una lesione; ma l'avvocato pratico deve vedere, dietro le formule, gli uomini vivi. Lasciamo che i professori insegnino in iscuola che la legge è uguale per tutti: sarà poi ufficio dell'avvocato spiegare ai clienti che la legge civile è fatta sopra tutto per i galantuomini, e che per gli altri c'è quella penale.

 

 

A sentir Racine, i sessant'anni son proprio l'età adatta per litigare: le bel âge pour plaider. Ma tutti gli avvocati conoscono clienti per i quali a qualunque età, anche quella in cui altri sogna l'amore o la gloria, scopo essenziale dell'esistenza è il litigio, verso cui li trascina non cattiveria o avidità, ma la morbosa esasperazione di quella assetata curiosità del misterioso domani, che ogni uomo saggio sa ricacciare nel fondo del suo cuore quando la sente ridestarsi con sé ogni mattina. Il litigioso ama i processi perché gli rinnuovano di grado in grado l'ansietà dell'attesa; la sconfitta non lo scoraggia, perché raddoppia in lui gli enigmi della, rivincita; e se egli moltiplica i reclami e gli incidenti, lo fa non perché speri net loro accoglimento, ma perché gli danno modo di continuare a creare dinanzi a sé una serie di mète, che prolungano il suo desiderio di vivere fino a poterle raggiungere. Il suo terrore è la fine del processo, anche se vittorioso per lui: perché vuol dire rivelazione del mistero, scomparsa del rischio, chiusura dell'avvenire. Che giova vivere, quando l'ultima sentenza è stata pronunciata? Mais vivre sans plaider, est-ce contentement?

Conosco un venerando litigante, oggi più che novantenne, che dopo i sessant'anni iniziò una lite per entrare al possesso di una contesa eredità. I suoi avversarî, che allora erano giovani, credettero che la miglior tattica contro di lui fosse quella di stancarlo con espedienti dilatorî in attesa della sua morte, che calcolavano non lontana: e si iniziò da allora l'epico duello tra la procedura e la longevità. Ma mentre, col passar degli anni, alle difese si avvicendavano generazioni di avvocati, e ad uno ad uno andavano a riposo i magistrati che avevano pronunciato le prime sentenze, egli solo, il vegliardo, invece di declinare acquistava nuovo vigore ad ogni interlocutoria che allontanasse ancor più nell'incerto avvenire la soluzione del processo. Anche oggi egli persevera impavido, colla sua lunga barba di patriarca sventolante da una trincea di carte bollate: e guarda in atto di sfida gli avversarî, che, illudendosi di aver alleata la morte a contrastargli la vittoria, non si sono accorti che solo la vittoria potrebbe farlo morire.

 

 

Bisogna guardarsi dal bollare a casaccio colla qualifica di litigioso qualsiasi galantuomo che batta alla porta del tribunale per chiedere aiuto contro la altrui prepotenza o malafede; e dal rallegrarsi alla cieca quando le statistiche giudiziarie ci dicono che la litigiosità è in diminuzione. Se certe volte la tendenza al litigio è rivelatrice di morbosi istinti antisociali, altre volte il ricorrere ai tribunali è prova di ferma risolutezza nel difendere l'ordine sociale contro i sopraffattori, e di sana fiducia nella amministrazione della giustizia.

Litigare può voler dire (come per il famoso mugnaio di Sans-Souci) aver fede nella serietà dello Stato; può voler dire anche rendere un servigio allo Stato, perché questo trova nella difesa del diritto la sua più alta espressione, e deve ringraziare il cittadino che, col chiedergli giustizia, gli dà così occasione di riconfermare, difendendo il diritto, la sua ragion d'essere più essenziale. Non dimentichiamo che Solone, al dir di Aristotele, aveva redatto le sue leggi in forma a bella posta oscura, affinché dessero luogo a molte controversie e offrissero così allo Stato il mezzo di accrescere, col giudicarle, la propria autorità tra i cittadini.

Il giorno in cui vedessi chiudere i tribunali per mancanza di liti, non saprei se rallegrarmi o rattristarmi: rallegrarmi, se, in un mondo in cui più non si trovasse alcuno disposto a far torto al suo simile, questo significasse l'avvento dell'amore universale; o rattristarmi, se, in un mondo in cui più non si trovasse alcuno disposto a ribellarsi contro la prepotenza altrui, questo volesse dire il trionfo della universale viltà.

 

 

Dove finisce la santa fierezza che comanda di non piegar la schiena di fronte alla soperchieria, e dove comincia la bassa e petulante litigiosità, che rifugge da ogni senso di sociale tolleranza e di comprensione umana? È questo uno dei più difficili problemi che ogni giorno tormentano la coscienza dell'avvocato: il quale sa che tradirebbe il suo ufficio se incoraggiasse il rissoso a litigare a vuoto, ma sa che la tradirebbe anche più gravemente se deprimesse nel cuore del giusto l'eroica intenzione di battersi a proprio rischio per la giustizia.

 

 

La fede che certi clienti, specialmente gente umile ed incolta, hanno nelle virtù degli avvocati e nella infallibilità dei giudici, è talvolta così cieca ed assoluta, che fa insieme spavento e tenerezza.

Quando, di fronte agli onesti dubbi ch'esprimo sull'esito di una causa, mi sento dire dal cliente: « Avvocato, se Lei vuole, è certo che il tribunale mi darà ragione », mi verrebbe voglia di aprir gli occhi a quell'illuso che non sa di quante alee è disseminata la via degli avvocati. Ma poi penso che questo sentir la giustizia come un nume onnipotente che non si nomina invano, è forse la conquista più alta della civiltà, e certo il cemento che meglio tiene unita la società umana.

E non mi sento il coraggio di disingannare quel galantuomo.

 

 

Un'espressione tipica, non di degenerazione ma di sublimazione professionale, è quella per la quale certi avvocati, che stimerebbero indecorosa e incivile gretteria mettersi a litigare in causa propria per poche centinaia di lire, sentono che patrocinare il cliente è un ufficio degno e nobile sempre allo stesso modo, qualunque sia, anche tenuissima, la somma del litigio.

Questo accade perché per l'avvocato che difende la causa altrui è in giuoco non l'ammontare economico della contesa (che è cosa del cliente), ma l'impegno di onore da cui egli si sente personalmente vincolato verso chi ha avuto fiducia in lui fino al punto di commettergli la tutela del suo diritto: anzi, quanto più il valore pecuniario della causa è meschino, tanto più, s'accresce nella coscienza del patrono il valore umano di quella fiduciosa dedizione del povero, che trova nell'avvocato il confidente della sua miseria.

 

 

*Quanto poco sia onorata in Italia la giustizia è dimostrato dai vessatorî sbarramenti fiscali che ad ogni passo tagliano la via che porta ad essa. Il giudice non può guardare in faccia la verità, se prima non è bollata; la sentenza non si può eseguire, se prima non è registrata. La verità e la giustizia non entrano nel territorio della Repubblica se non hanno i prescritti visti della dogana: sono come quelle merci di lusso di cui, con altissimi dazi, si cerca di impedire l'ingresso nello Stato. L'importazione della giustizia è vigilata più severamente di quella delle droghe stupefacenti.

Le tasse giudiziarie costituiscono così un vero e proprio regime di protezionismo, per non danneggiare la produzione nazionale, fiorentissima, della ingiustizia.

Ma il fenomeno più singolare è quello della carta bollata. Nel processo civile, nel quale le difese si fanno in prevalenza per iscritto, gli avvocati devono scriverle su preziosi fogli filogranati, ognuno dei quali può arrivare a costare quasi cinquecento lire: contando i righi, si può calcolare che per ogni rigo di scrittura si debba pagare al fisco un pedaggio di cinque lire. Si può dire che in Italia sia obbligatorio scrivere le memorie defensionali su biglietti dì banca: sarebbe più economico (e più piacevole per i giudici) scriverle su pergamene miniate.

Tuttavia ho sentito qualche giudice approvare questo fiscalismo processuale: — Più le liti costano, e meno ne fanno! — Soprattutto essi approvano l'aumento del prezzo della carta bollata: — Così gli avvocati scriveranno meno! — Errore, errore: in realtà, poiché le spese sono uno degli indici della importanza di una causa, quanto più aumenta il costo della carta bollata, tanto più s'accrescono le spese di causa, e quindi la importanza di essa. — E allora (dice l'avvocato) siccome questa è una causa molto importante, ho il dovere di difenderla meglio, e quindi di scriver di più! —

 

 

*Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti far domani. Tutti i difetti, e forse tutte le virtù, del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campà.

L'esperienza della vita parlamentare m'ha dimostrato che quasi sempre, specialmente in fine di seduta, l'unica via per metter d'accordo maggioranza e opposizione è quella di proporre la « sospensiva ». Quando qualcuno propone di rimandar la discussione a un'altra volta (e per oggi, intanto, andare a pranzo), non si guarda al partito del proponente: e tutti si trovano d'accordo nell'alzar la mano.

Lo stesso nei processi. Prima che cominci l'udienza (specialmente quando si prevede che la discussione sarà lunga e faticosa), avvocati e giudici si trovano nello stesso stato d'animo di chi s'affaccia nella sala d'aspetto del dentista: e spera che la infermiera gli dica che quel giorno il dottore non riceve.

Fare un'arringa o ascoltarla è sempre una molesta prospettiva: se si può rimandare il trapano a un'altra volta, si tira un sospiro di sollievo; e per oggi si scende in strada coll'illusione che il dente non dolga più.

 

 

*La corte di cassazione è istituita per mantenere, come si suol dire, la « uniformità della giurisprudenza »: cioè per garantire che le leggi, quando si applicano ai casi controversi, siano interpretate dai giudici sempre nello stesso modo. Ma questa esigenza della interpretazione uniforme e costante è più facile ad enunciarla in teoria che a rispettarla in pratica: perché tra i casi che cadono sotto gli occhi del giudice non ce n'è uno che non presenti qualche tratto singolare, tale da farlo distinguere da tutti gli altri: e basta questa diversa sfumatura del fatto (per non parlare del variabile umore dei giudici) a far sì che, messa di fronte ad esso, anche la legge si presenti sotto una fisionomia nuova ed imprevista.

Non c'è dunque da menar scandalo se anche in cassazione, tra due sezioni chiamate a decidere in due diverse cause la stessa questione di diritto, si manifestino ogni tanto diversità di opinioni, e quindi clamorose disformità di giurisprudenza. È accaduto una volta, per una curiosa coincidenza che sembrò un maligno scherzo del destino, che nella stessa mattina due sezioni civili, che tenevano udienza contemporaneamente in due aule limitrofe, fossero chiamate a risolvere, in due diversi ricorsi, la stessa difficile questione sul significato di un certo articolo della legge speciale sui fitti: e la risolvessero, nonostante che i due casi fossero in fatto assolutamente simili, in modo diametralmente opposto.

Il ricorrente che in una delle aule si sentì dar torto, avrebbe avuto ragione (cogli stessi argomenti) se fosse stato giudicato nell'aula accanto: quando uscì nel corridoio, dove le porte delle due aule si aprono una accanto all'altra, era imbestialito per questa differenza, inesplicabile per un profano; e, naturalmente, se la pigliava col suo avvocato:

— Evidentemente lei ha sbagliato la difesa….

— No — disse l'avvocato — ho sbagliato la porta.

 

 

*Fino dai tempi di Giustiniano, quando si escogitavano i mezzi processuali per impedire che le liti diventassero paene immortales, il processo era immaginato come un organismo vivente, che nasce, cresce e alla fine si estingue per morte naturale col giudicato, quando non sia intervenuta, a farlo morire prima, quella specie di infanticidio processuale che è la conciliazione, o quell'anemia perniciosa che è la perenzione.

Ma questa personificazione del processo concepito come una creatura viva, non l'avevo mai sentita così naturale ed elegante come nel linguaggio di un vecchio contadino toscano, che una volta si rivolse a me perché lo difendessi in appello in una causa che, nella sola fase di primo grado, era durata già sei anni.

Egli, con un sorriso bonario e rassegnato, mi disse:

— Sor avvocato, a questa causa mi ci sono affezionato. La metto nelle sue mani. Vede, l'ha sei anni: l'è digià grandina. La si può cominciare a mandare a scuola. — Proprio aveva un accento di tenerezza, come se fosse un nonno che presentasse alla maestra la propria nipotina.

 

 

*Non si può muover rimprovero all'avvocato se talvolta sostiene tesi giuridiche in contrasto colla giurisprudenza o perfino col buon senso: spesso questa, che può parere sfrontatezza o ignoranza, è soltanto cautela consigliata da lunga esperienza. Infatti le interpretazioni che si possono dare di una legge sono cento: e non si può mai prevedere con sicurezza quale di esse sceglierà il giudice, e se per avventura non gli paia la più plausibile quella che a noi sembra la più assurda.

Mi accadde una volta (e più d'una) di rifiutare una causa che mi pareva di non poter sostenere senza mancare di rispetto al giudice e a me stesso: e appresi poi dopo un anno che il cliente, rifiutato da me, l'aveva affidata a un altro avvocato che, non avendo i miei scrupoli, l'aveva sostenuta senza esitare e l'aveva vinta: e mi sentii dire dal vincitore, che si era preso il gusto di venirmi ad annunciare la sua vittoria, queste precise parole: — Lei, caro avvocato, è più onesto che coraggioso. —

 

 

*Ricordo sempre con rammarico che una volta, in una causa d'appello, rovinai il mio cliente, perché non mi pareva serio sostenere una tesi in contrasto con quella che era allora l'opinione della corte di cassazione: lo feci per discrezione, per ossequio alla giurisprudenza della corte suprema. Ma dopo un anno la giurisprudenza della corte suprema era cambiata di bianco a nero: se non fossi stato così discreto, avrei perduto la causa in appello, ma l'avrei potuta vincere dopo un anno in cassazione; così invece, per aver preso troppo sul serio il rispetto dovuto alla giurisprudenza, fui artefice involontario della sconfitta del mio cliente.