XIII

 

 

DEL SENSO DI RESPONSABILITÀ

E DELL'AMOR DEL QUIETO VIVERE

OVVERO

DELL'ORDINE GIUDIZIARIO

CHE NON È UN RAMO DELLA BUROCRAZIA

MA UN ORDINE RELIGIOSO

 

 

*Mi convinco sempre più che tra il rito giudiziario e il rito religioso esistono parentele storiche molto più strette di quanto non indichi la uguaglianza della parola. Chi conducesse uno studio comparativo del cerimoniale liturgico e delle forme processuali rileverebbe nella storia un certo parallelismo di evoluzione: quasi si direbbe che con ugual curva, nelle aule giudiziarie e nelle chiese, la religione sia degenerata in conformismo.

La sentenza in origine era un atto sovrumano, il giudizio di Dio; le difese erano preghiere. Ma col passar dei secoli lo spirito è tornato in cielo, e sulla terra son rimaste soltanto le forme esteriori di un culto a cui nessuno più crede. Ad assistere alla stanchezza distratta di certe udienze vien fatto di pensare all'indifferenza con cui tanta brava gente, nelle feste comandate, continua ad andare alla messa per forza di abitudine e per ostentare in pubblico una fede che in cuore non ha più.

Forse le profonde differenze che si notano tra la semplicità e la lealtà dei giudizi nei paesi anglosassoni e il complicato e dispendioso formalismo della nostra procedura, hanno il loro fondamento in una diversa resistenza dello spirito religioso. Nel procedimento giudiziario inglese, così sbrigativo e leale, è passata la Riforma: il nostro è ancora un procedimento cattolico romano.

Anche nelle cerimonie del processo, si nota una certa differenza tra credenti e bigotti, tra religiosi e conformisti; tra l'umile fede nella giustizia e la fastosa bacchettoneria giudiziaria.

 

 

*Non è onesto, quando si parla dei problemi della giustizia, rifugiarsi dietro la comoda frase fatta di chi dice che la magistratura è superiore ad ogni critica e ad ogni sospetto: come se i magistrati fossero creature sovrumane, non toccate dalle miserie di questa terra, e per questo intangibili.

Chi si appaga di queste sciocche adulazione, offende la serietà della magistratura; la quale si onora non coll'adularla, ma coll'aiutarla sinceramente ad essere all'altezza della sua missione.

In realtà anche i magistrati vengono da questo popolo, che ha le sue virtù e i suoi difetti: ogni popolo, si potrebbe dire, ha la magistratura che si merita.

Se il livello morale e intellettuale della nostra magistratura è stato finora superiore a quello di ogni altra categoria di funzionari, ciò è derivato dal fatto che ha potuto formarsi attraverso una scelta fondata sulla vocazione. Nell'ordine giudiziario affluivano un tempo dalle Università i giudici migliori, richiamati non dalla speranza di lauti guadagni (la magistratura italiana è stata esemplare per la dignità con cui ha sempre affrontato la sua povertà), ma dall'alta considerazione di cui la magistratura godeva nella pubblica opinione e soprattutto dall'attrattiva che su certi spiriti religiosi ha sempre esercitato la austera intimità di questo ufficio, in cui il giudicare gli altri implica in ogni istante il dovere di fare i conti colla propria coscienza.

Ma se la magistratura si riducesse ad essere, invece che un ordine di credenti, una categoria di impiegati senza fede, essa non sarebbe né migliore né peggiore degli altri rami della burocrazia. Ma allora non potrebbe considerarsi come vilipendio della giustizia dir la verità su questi burocrati che non credono più alla loro missione, come non vilipende la religione chi denuncia le cattive imprese dei sacerdoti che hanno preso l'abito senza vocazione.

 

 

*Quanti espedienti nell'ordinamento giudiziario e nella procedura, e forse nello stesso sistema della legalità, per togliere al giudice il senso della sua responsabilità, e per fare apparir la sentenza come un responso anonimo, calato dal cielo e non riferibile alla volontà di un uomo!

La toga non è che il simbolo rituale con cui si vuol fare intendere che, nel giudicare, l'uomo è coperto dalla funzione; ma per liberarsi dall'incubo della sua coscienza il giudice ha a sua disposizione rifugi molto più solidi: può ripararsi dietro lo schermo della inesorabilità delle leggi e ripetere, stringendosi nelle spalle, « dura lex sed lex »; può nascondersi dietro l'aforisma, secondo il quale « l'errore del giudice è errore della parte »; può invocare a sua scusa la segretezza della camera di consiglio, l'anonimo della collegialità.

Per esser tranquillo, il giudice ha bisogno di essere impenetrabile: quasi vien fatto di pensarlo coperto da un cappuccio calato, con due buchi per gli occhi, come i fratelli di certe compagnie di misericordia, che nel compiere i loro riti funebri non vogliono essere riconosciuti dal pubblico.

I responsi della Sibilla pareva che venissero da lontano come un'eco risonante nella caverna: anche oggi nella procedura giudiziaria si possono scoprire tortuosi canali, attraverso i quali la voce del giudice perde l' accento umano e acquista la lontana indifferenza di un oracolo.

 

 

*I giudici non amano (anzi considerano come mancanza di rispetto) che gli avvocati nelle loro difese insistano troppo sulle gravi responsabilità umane del magistrato chiamato a giudicare e sulle dolorose conseguenze che possono derivare dalla sentenza. Quasi si direbbe che certi giudici si coprono gli occhi colla toga per non vedere la scia di dolore che il giudicato può lasciare dietro di sé: quello che avverrà dopo che la decisione sarà stata pronunciata, non è affar loro.

Non dico che questo sia sempre segno di insensibilità: può darsi anzi che in qualcuno di essi la coscienza di questa responsabilità sia così tormentosa, da non tollerare che gli avvocati colle loro sollecitazioni vadano a esasperare quel punto dolente.

Di questa suscettibilità dei giudici ebbi una volta una riprova per tabulas. Difendevo innanzi a un tribunale venti impiegati che una grande società siderurgica aveva licenziati, perché, in una vertenza sindacale, erano stati solidali cogli operai che avevano occupato la fabbrica. La società che li aveva licenziati, negava ad essi anche l'indennità di licenziamento: questo voleva dire, in tempo di disoccupazione, venti famiglie messe alla fame. Nella discussione orale mi venne detto che, se il tribunale avesse negato ai venti licenziati anche l'indennità di licenziamento, questa sentenza avrebbe avuto, per quelle venti famiglie, lo stesso effetto di una condanna a morte.

Il tribunale riconobbe ai venti impiegati licenziati il diritto all'indennità; ma, nella motivazione della sentenza, redarguì aspramente me difensore per quella frase « volta a turbare la serenità del giudice, che è chiamato ad applicare la legge senza lasciarsi commuovere dalle conseguenze della sua giustizia ».

Accolsi di buon grado il rimprovero, ma non mi pentii di aver pronunciato quella frase: l'asprezza con cui il tribunale aveva sentito il bisogno di dichiarare che non si lasciava commuovere da essa, dimostrava che in realtà ne era stato commosso.

L'avvocato, anche quando non è santo (solo uno ce ne fu, Sant'Ivone), deve ricordarsi di San Filippo Neri, che avendo a lungo insistito presso un nobile avarissimo per chiedergli un po' di carità per gli affamati, si ebbe alla fine, per tutta risposta, uno schiaffo. San Filippo si prese lo schiaffo e poi, forse ricordando le famose parole di un antico filosofo a un tiranno, disse dolcemente: — Questo è per me; ma ora dammi un po' di denaro per i miei poveri.—

L'avvocato dev'esser disposto a prendere dal giudice anche gli schiaffi: purché alla fine riesca ad ottenere per i suoi poveri l'obolo della giustizia.

 

 

*La missione del giudice è così alta nella nostra estimazione, la fiducia in lui ci è così necessaria, che le umane debolezze, che non si notano o si perdonano in ogni altro ordine di pubblici funzionari, sembrano inconcepibili in un magistrato.

Non parliamo della corruzione o del favoritismo, che sono delitti; ma anche le più lievi sfumature di pigrizia, di negligenza, di insensibilità sembrano, quando si trovano in un giudice, gravi colpe. Che un conservatore delle ipoteche o un ricevitore del registro tenga a dormire per un anno sul suo tavolino la « pratica » che mi interessa, questo può indispettirmi, ma non mi meraviglia: questa è, ormai si sa, la burocrazia. Ma un giudice che alla vigilia di andare in ferie, rimandasse al suo ritorno l'esame di un incartamento cui è sospesa la libertà di un incarcerato innocente, questo mi sembrerebbe uno scandalo al quale l'ossequio che ho per la magistratura si ribella.

Se fosse vero che certi errori giudiziari hanno la loro causa nella fretta del giudice, il quale non avrebbe condannato a trent'anni di reclusione quell'innocente se non avesse rinunciato, per non far tardi a cena, a sentire quell'ultimo testimone che avrebbe detto la verità, tutta la cattedrale della giustizia, che mi son costruita nel cuore, crollerebbe d'un tratto.

I giudici son come gli appartenenti a un ordine religioso: bisogna che ognuno di esso sia un esemplare di virtù, se non vuole che i credenti perdano la fede.

 

 

*I giudici, come tutti gli uomini, amano il quieto vivere: conoscono i loro doveri, ma cercano di diminuirne il tormento sotto l'assuefazione. Se per ogni decisione il giudice dovesse ricominciar da capo a vincer l'assillo della sua tremenda responsabilità, non vivrebbe più: l'abitudine, per i giudici, è condizione di lavoro tranquillo.

Per questo se qualcuno s'arrischia a ricordare ad essi che dalla loro sentenza dipende la vita degli uomini in pena, se ne offendono come di un'indiscrezione; sono come il chirurgo che per operare in pace deve addormentare il malato e dimenticarsi delle sue sofferenze: anche i giudici, per operar colla lama delle leggi, hanno bisogno di dimenticare il dolore che il taglio infligge ai pazienti.

 

 

*Il giudice scrupoloso, che prima di decidere ci ripensa tre volte e magari non dorme la notte per i dubbi che lo assalgono, è certo preferibile al giudice sempre sicuro di sé, che si crede infallibile e per questo decide alla bersagliera. Ma anche negli scrupoli è bene non passare il segno: ogni scelta è un atto di coraggio; se, dopo aver lungamente meditato, il giudice non sa scegliere, diventa un timido che ha paura della propria responsabilità.

Un avvocato che aveva lo studio in una piccola città di provincia, sede dì pretura, mi fece molti anni fa un ritratto assai singolare di un pretore affetto da una forma morbosa di abulia: una specie di Amleto dello scrupolo giudiziario. Andava all'udienza, anche nelle cause penali, preparatissimo sugli atti scritti che aveva imparato a memoria; ma se al dibattimento il difensore sollevava qualche incidente su questioni di diritto non trattate prima, s'indispettiva, sospendeva l'udienza, e si chiudeva per qualche ora nel suo ufficio a scartabellare codici e manuali: e quasi sempre, diffidando di queste sorprese, respingeva l'incidente. Spesso, alzatosi alla fine del dibattimento, tornava indietro a domandare a bassa voce schiarimenti al pubblico ministero o al difensore o perfino al cancelliere, rimasti in attesa nell'aula: o addirittura mandava a chiamare segretamente il difensore nella sua stanza per farsi ripetere a quattr'occhi, per filo e per segno, tutte le argomentazioni dell'arringa che aveva udito poco prima in udienza.

Quell'avvocato, che era un dialettico sottile ed astuto, si era avvisto di questa debolezza del pretore: e si divertiva in ogni udienza a metterlo in imbarazzo col proporgli questioni di diritto complicate e nuove.

Alla fine il pretore, che diffidava di lui, aveva adottato il sistema di dargli sempre torto; e poiché l'avvocato andò a lamentarsene, il pretore umilmente gli dichiarò: — Lei è troppo bravo: mi fa paura. Non so mai se dice sul serio o se vuol prendersi giuoco di me. — Un giorno, dopo un breve dibattimento su una semplicissima contravvenzione di caccia, il pretore si era ritirato per deliberare nel suo ufficio; e vi stava rinchiuso da due ore. Durante quelle due ore (si era ai tempi della guerra civile di Spagna) era arrivata in paese la notizia della caduta di Barcellona. I caporioni fascisti avevano inscenato una dimostrazione di giubilo: le campane avevano cominciato a suonare a festa, la popolazione era scesa nelle vie, si erano imbandierate le finestre, si era formato un corteo: e in piazza, proprio sotto le finestre della pretura, un gerarca locale su una tribuna improvvisata si era messo ad arringare la folla. Gli « eia, eia, alalà » arrivavano al cielo.

Ma non li udiva il pretore, chiuso in camera di consiglio: e invano nella sala d'udienza, rimasta deserta, l'avvocato difensore stava ad aspettar la sentenza. Accadde allora che certi muratori, che lavoravano sul tetto di uno stabile in riparazione proprio di fronte alle finestre della pretura, pensarono bene, attirati da quel chiasso, di scender giù anche loro: e nel calarsi dalle impalcature, poteron vedere, attraverso le finestre aperte, il pretore seduto dinanzi al suo banco, colla testa fra le mani e un libro aperto dinanzi a sé: ogni tanto si alzava, faceva qualche passo per la stanza e si faceva il segno della croce, giungendo le mani in atto di preghiera: e rimaneva assorto così….

E quelli, giù in piazza, a cantar « Giovinezza ». Il giudice scrupoloso, va bene: ma quello, evidentemente, esagerava.

 

 

*Un amico americano, parlandomi dei magistrati della suprema corte federale, che sono nominati senza limiti di età, voleva dimostrarmi che la più sicura garanzia di indipendenza per i giudici è la vecchiaia: perché il vecchio (diceva lui) non ha più. ambizioni.

Ammettiamo che questo sia vero (ma ne dubito); ma se è vero, allora c'è da temere che i giudici troppo vecchi non abbiano più neanche l'ambizione di esser giusti. La giustizia è un fluido vivo, che circola nelle formule vuote delle leggi come il sangue nelle vene; ho paura che le sentenze dei giudici troppo vecchi siano, anch'esse, malate di arteriosclerosi: le formule paion di fuori intatte, ma la giustizia non vi circola più.

 

 

*Un vocabolo di stile burocratico, rivelatore di tutto un mondo psicologico, è l'aggettivo « scaricato »: è una parola scritta in quel dizionario del perfetto burocrate in cui è registrato anche il verbo « mettersi a posto ».

Una pratica, cioè un affare di ufficio, distinto da una copertina contenente una raccolta di carte, è « presa in carico », cioè « protocollata in arrivo », dal funzionario che ha il dovere di occuparsene. Ma per arrivare al compimento, deve passare attraverso diversi uffici: ogni tappa di quell'itinerario vuol dire una sosta di quel fascicolo sul tavolino di un diverso funzionario. Ogni sosta può durare mesi o anni: un bel giorno l'impiegato che siede a quel tavolino si ricorda di quel fascicolo polveroso sommerso da altri incartamenti, lo riporta a galla e si decide a dedicarvi quella mezz'ora di lavoro che esso attendeva da lui: dopodiché la pratica « protocollata in partenza » è trasferita a un altro funzionario, magari nella stessa stanza, ma sempre su un diverso tavolino. Da quel momento per lui la pratica è « scaricata », e lui, in questo modo, si è « messo a posto »; quello che ne succede poi non lo riguarda: che alla fine l'interessato ottenga o non ottenga giustizia, questo non è affar suo. Anche il somaro, quando si è scaricato di dosso la soma, non si cura di sapere che cosa succederà della stessa, caricata su altra groppa.

Anche un processo si traduce, sul tavolino della giustizia, in un fascicolo; che prima di arrivare alla sentenza deve percorrere un suo itinerario: dalla questura al procuratore della repubblica, da questo al giudice istruttore, e poi di nuovo al procuratore della repubblica e poi ancora al giudice istruttore, e alla fine al collegio.... Guai se anche in questo itinerario entrasse la psicologia burocratica della « pratica scaricata »!

Che di questa psicologia si trovino tracce in questura, si può capire. Per la polizia l'essenziale è di poter trasmettere un verbale che contenga una confessione: quando l'arrestato ha confessato, la pratica per essa è « scaricata »: quali siano stati i mezzi, questo non conta. L'arrestato ha confessato, e così la polizia si è « messa al posto ».

Ma quando il processo passa ai magistrati, è un'altra cosa: i giudici son fatti non per scaricare le pratiche, ma per scaricare la propria coscienza dal terribile peso del giudicare: non per « mettere a posto » sé stessi di fronte ai superiori, ma per trovare secondo giustizia qual è il posto che la società assegna a quel giudicabile: che può essere anche la cella di un ergastolo, funebre come la tomba di un cimitero.

Il linguaggio della burocrazia è un gergo di pigri e sfiduciati automi: quello della giustizia è l'umana parlata della gente semplice.

 

 

*Accade spesso al bibliofilo, che si diverte a sfogliare religiosamente le pagine ingiallite di qualche prezioso incunabulo, di trovarvi tra pagina e pagina, appiccicata e quasi assorbita dalla carta, la spoglia diventata trasparente di una farfallina incauta, che qualche secolo fa, in cerca di sole, si posò viva su quel libro aperto, e quando il lettore all'improvviso lo richiuse, vi restò schiacciata e disseccata per sempre.

Questa immagine mi viene in mente quando sfoglio gli incartamenti di qualche vecchio processo, civile o penale, che dura da diecine d'anni. I giudici, che tengono con indifferenza quegli incartamenti in attesa sul loro tavolino, sembra che non si ricordino che tra quelle pagine si trovano, schiacciati e inariditi, i resti di tanti poveri insettucci umani, rimasti presi dentro il pesante libro della giustizia.

 

 

*Chi pensa al peso di dolori umani che è affidato alla coscienza dei giudici, si domanda com'essi, con sì terribile compito, riescano la notte a dormire sonni tranquilli. Eppure il sistema della legalità, a intenderlo troppo scolasticamente, colla ingegnosa meccanica del sillogismo giudiziale, sembra fatto apposta per togliere al giudice il senso della sua terribile responsabilità, e per aiutarlo a dormire senza incubi.

C'è sulla piazza un impiccato, condannato a morte dal giudice. La sentenza è stata eseguita; ma la sentenza era ingiusta; l'impiccato era innocente.

Chi è responsabile di aver assassinato quell'innocente? il legislatore che nella sua legge ha stabilito in astratto la pena di morte, o il giudice che l'ha applicata in concreto?

Ma il legislatore e il giudice, l'uno e l'altro, trovano il mezzo per salvarsi l'anima col pretesto del sillogismo.

Il legislatore dice: — Io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, del quale io ho costruito soltanto la premessa maggiore, una innocua formula ipotetica, generale ed astratta, che minacciava tutti, ma non colpiva nessuno. Chi l'ha assassinato è stato il giudice, perché è lui che dalle premesse innocue ha tratto la conclusione micidiale, la lex specialis che ha ordinato l'uccisione di quell'innocente. — Ma il giudice dice a sua volta: — Io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, del quale io non ho fatto altro che estrarre la conclusione dalla premessa imposta dal legislatore. Chi l'ha assassinato è stato il legislatore colla sua legge, la quale era già una sententia generalis, in cui anche la condanna di quell'innocente era racchiusa. — Lex specialis, sententia generalis: così legislatore e giudice si rimandano la responsabilità; e posson dormire, l'uno e l'altro, sonni tranquilli, mentre l'innocente dondola dalla forca.

 

 

XIV.

 

 

DELLA INDIPENDENZA

OVVERO DEL CONFORMISMO

E IN GENERE

DEL CARATTERE DEI GIUDICI

 

 

*Da un vecchio magistrato a riposo, che in cinquanta anni ha percorso con onore tutti i gradi della magistratura dai più umili fino a quello supremo, ho ascoltato queste parole di saggezza:

— Ciò che può costituire un pericolo per i magistrati non è la corruzione: di casi di corruzione per denaro, in cinquant'anni di esperienza, ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano; e sempre li ho visti scoperti e colpiti con esemplari punizioni. E neanche son da considerarsi minacce molto gravi per la indipendenza dei magistrati le inframmettenze politiche: sono frequenti, ma non irresistibili. Il magistrato di schiena dritta non le prende sul serio, ed è rarissimo che gli venga qualche danno da questa sua inflessibilità.

Il vero pericolo non viene dal difuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché la intransigenza costa troppa fatica.

Nella mia lunga carriera non mi sono mai incontrato a faccia a faccia con giudici corruttibili, ma ho conosciuto non di rado giudici indolenti, disattenti, svogliati: pronti a fermarsi alla superficie, pur di sfuggire al duro lavoro di scavo, che deve affrontare chi vuole scoprire la verità. Spesso questa superficialità mi è sembrata un portato inevitabile, e scusabile, dell'eccessiva mole di lavoro che gravava su certi magistrati; ma ne ho conosciuti alcuni (i migliori) che, anche sovraccarichi così, riuscivano, rubando le ore al sonno, a studiare con scrupolosa diligenza tutte le cause ad essi affidate e a riferirne in camera di consiglio senza dimenticare la virgola di un documento.

La pigrizia porta a adagiarsi nell'abitudine, che vuol dire intorpidimento della curiosità critica e sclerosi della umana sensibilità: al posto della pungente pietà che obbliga lo spirito a vegliare in permanenza, subentra cogli anni la comoda indifferenza del burocrate, che gli consente di vivere dolcemente in dormiveglia. Anche le raccomandazioni, che non hanno presa sui magistrati desti, possono apparire a questi burocrati sonnacchiosi come una forma non sgradevole di collaborazione, che permette ad essi di adottare bell'e fatta una opinione altrui (quella dell'amico che raccomanda) senza dover faticare a fare una scelta propria: ascoltare le voci che corrono, raccogliere la frase di un amico al caffè, costa meno sforzo che leggere con attenzione cinquanta fascicoli di un'istruttoria. — Il vecchio magistrato stette qualche istante in silenzio e poi concluse così:

— Creda a me: la peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo. È una malattia mentale, simile all'agorafobia: il terrore della propria indipendenza; una specie di ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; che non si piega alle pressioni dei superiori, ma se le immagina e le sodisfa in anticipo.

 

 

*La vita di certi magistrati, per il limitato stipendio ed anche per la necessaria discrezione del loro ufficio, tende a chiudersi entro un piccolo orizzonte, che può dare, a chi lo guarda di fuori, una impressione di gretteria. Lo stipendio, specialmente quando ci sono molti figli, non lascia margini per i viaggi, per i teatri, per le letture: e poi il magistrato deve andar guardingo nella scelta delle sue relazioni sociali, per evitare contatti disdicevoli e amicizie compromettenti. Accade così che le famiglie dei magistrati si riducono a costituire tra loro una specie di appartata tebaide, in cui vivono in ascetismo, parlando di stipendi e di promozioni.

E invece si vorrebbe nel magistrato soprattutto larghezza delle idee: la spregiudicata esperienza del mondo, la cultura che permette di intendere i lieviti sociali che bollono sotto le leggi, la letteratura e le arti, che aiutano a discendere nei misteri più profondi dello spirito umano.

Sotto il ponte della giustizia passano tutti i dolori, tutte le miserie, tutte le aberrazioni, tutte le opinioni politiche, tutti gli interessi sociali. E si vorrebbe che il giudice fosse in grado di rivivere in sé, per comprenderli, ciascuno di questi sentimenti: aver provato lo sfinimento di chi ruba per sfamarsi, o il tormento di chi uccide per gelosia; essere a volta a volta (e talvolta nello stesso tempo), inquilino e locatore, mezzadro e proprietario di terre, operaio scioperante e padrone d'industria.

Giustizia è comprensione: cioè prendere insieme, e contemperarli, gli opposti interessi: la società di oggi e le speranze del domani; le ragioni di chi la difende, e quelle di chi la accusa.

Ma se il giudice comprendesse tutto, forse non potrebbe più giudicare: tout comprendre, c'est tout pardonner. Forse, affinché la giustizia possa raggiungere i limitati scopi che la nostra società le assegna, essa ha bisogno, per funzionare, di orizzonti non troppo vasti e di un certo spirito conservatore che può parer gretteria. Gli orizzonti del giudice son segnati dalle leggi: se il giudice comprendesse quel che c'è al di là, forse non potrebbe più applicarle con tranquillità di coscienza. È bene che non si accorga che la funzione che la nostra società assegna alla giustizia è spesso quella di conservare le ingiustizie consacrate nei codici.

 

 

*In altri paesi la sentenza si vede nascere sotto gli occhi del pubblico: chiuso il dibattimento, i giudici non si ritirano in camera di consiglio, ma rimangono a discutere in pubblica udienza, liberamente manifestando ciascuno, prima di venire al voto, la propria opinione e le ragioni che la sostengono; e alla fine, se vale come sentenza l'opinione della maggioranza, i giudici rimasti in minoranza hanno ugualmente diritto di render pubblici i motivi del loro dissenso. In certe corti supreme dell'America latina la deliberazione collegiale della sentenza si svolge in pubblico colla solennità e le forme di una discussione parlamentare.

Nel nostro sistema giudiziario, invece, la sentenza figura sempre deliberata all'unanimità. Susurrano i bene informati che in camera di consiglio vi siano stati contrasti, e magari diverbi; ma di fuori nessuno deve saperlo, perché la camera di consiglio è segreta. I giudici son veramente, come voleva Montesquieu, « des êtres inanimés », che perdono i loro connotati individuali nella collettività anonima del collegio.

La segretezza della camera di consiglio è la consacrazione istituzionale del conformismo: il giudice può pensare colla propria testa in segreto, purché di fuori non lo sappia nessuno. La sentenza somiglia così alla formula con cui si chiudono le conferenze segrete dei diplomatici: anche se siamo alla vigilia della guerra, gli interlocutori si sono lasciati « riscontrando con sodisfazione il loro perfetto accordo ».

Questa segretezza può essere gradita al giudice cha ama il quieto vivere, e che preferisce alleggerire la sua responsabilità personale dietro lo schermo della collegialità; ma a lungo opera sul suo carattere come una droga stupefacente. È un esempio tipico di unanimità di Stato, che salva le apparenze a spese delle coscienze.

 

 

*Una volta, senza volere, son riuscito ad affacciarmi sia pur soltanto coll'udito ai riti misteriosi che si celebrano nelle camere di consiglio: non l'ho mai raccontato finora per non esser dilaniato dai sacerdoti infuriati, come accadeva al profano sorpreso a violare il segreto dei misteri orfici.

Dopo una discussione, ero andato a spogliarmi della toga nella stanzetta degli uscieri, contigua all'aula dove in quel momento la corte era rimasta chiusa in camera di consiglio; a un tratto attraverso la parete si udirono alte grida, così squillanti da superare il muro. Rimanemmo tutti in ascolto, e udimmo distintamente una voce sdegnata che ammoniva così:

— ?? l'ho detto cento volte che le cause le devi studiare! — Domandai all'usciere chi era che strepitava in quel modo; mi rispose:

— È il presidente che in camera di consiglio dirige la discussione. —

 

 

*A proposito dei misteri delle camere di consiglio, un presidente di corte mi raccontò che una volta, mentre era chiuso coi suoi consiglieri per deliberare una sentenza, udì enunciare da uno di essi una tesi talmente sballata che non poté trattanersi dal gridargli:

— Ma questa è una corbelleria! —

(Veramente, per l'esattezza, adoprò una parola ancor più disdicevole allo stile presidenziale: quella stessa che Ludovico Ariosto si sentì dire dal cardinale Ippolito, quando gli presentò l'Orlando Furioso).

Ma il consigliere, senza scomporsi, rispose dignitosamente:

— Eccellenza, in camera di consiglio le corbellerie si chiamano « opiniones doctorum ». —

 

 

*Un vecchio magistrato che durante la sua lunga carriera ha imparato a perfezione il galateo delle camere di consiglio, mi confida di aver incontrato qualche volta giudici così gelosi della propria relazione da offendersi se qualche collega osava interloquire per esprimere su di essa una opinione diversa o anche semplicemente un rispettoso dubbio.

Di solito in camera di consiglio sono non solo ammesse ma desiderate, dopo che il giudice relatore ha introdotto la discussione, le obiezioni di tutti i partecipanti, chiamati a portare tutti insieme il peso della sentenza collegiale; ma, quando si incontrano relatori di carattere ombroso, la camera di consiglio rischia di somigliare alle periodiche sedute di certe accademie, dove ciascun socio a turno ha il diritto di leggere una sua dissertazione agli altri che silenziosi sonnecchiano, purché si impegni in cambio, quando viene il turno degli altri, a sonnecchiare nello stesso modo.

 

 

*Può darsi che in certi casi la collegialità sia un farmaco deprimente che attutisce il senso della responsabilità individuale; ma in certi casi può essere anche un corroborante. Per avere il coraggio di andare contro corrente, la collegialità può servire da sostegno; quando tira vento è meglio non essere soli; in più, ci si prende a braccetto e ci si regge l'uno coll'altro.

 

 

*Delicata situazione è, in camera di consiglio, quella di certi magistrati prossimi alla promozione: i quali sanno che nell'esito di questa avrà gran peso il giudizio che di loro darà il presidente del collegio di cui fanno parte; e non s'arrischiano, in camera di consiglio, a contraddirlo, anche se sono convinti che la opinione di lui è sbagliata e che, decidendo come vuol lui, si commette una grossa ingiustizia.

Il giudice vicino alla promozione sa che mentre egli giudica i litiganti, il presidente giudica lui: egli si trova, dinanzi al presidente, come l'esaminando in faccia all'esaminatore; che pur di esser promosso all'esame, è pronto a giurare in verba magistri.

Quante volte un giudice relatore, che era convinto in una causa civile delle buone ragioni di uno dei litiganti (o, quel che è peggio, di quelle dell'imputato in una causa penale), ha dovuto in camera di consiglio rimangiarsi la sua opinione e far buon viso alla opinione contraria del presidente, solo per non mettersi in contrasto con lui! Ho letto una volta, in una proposta di legge sull'ammissione delle donne agli uffici giudiziari, una disposizione che le esonerava dall'ufficio nei periodi della gravidanza: non solo (spiegava il proponente) in vista del loro stato fisico, ma anche in vista dell'indebolimento psichico che quello stato porta con sé.

Credo che ugual cautela si dovrebbe adottare anche per i giudici maschi, nei nove mesi di gestazione che precedono la loro promozione.

 

 

*Un costruttore di stabili aveva venduto a una signora maritata un quartiere in costruzione, impegnandosi di consegnarglielo finito entro un certo termine, previo pagamento del prezzo. Il quartiere fu consegnato nel termine, ma il prezzo non fu pagato: alla fine il costruttore fu costretto a chiamare la signora in giudizio per farla condannare al pagamento.

Alla prima udienza dinanzi al giudice istruttore, questi si dimostrò apertamente convinto delle buone ragioni del costruttore: ed ebbe per la signora inadempiente parole di severo biasimo. Ma all'le prove proposte udienza successiva, quella in cui si trattava di ammettere le prove proposte dall'attore, il contegno del giudice era cambiato dal giorno alla notte: apertamente fece intendere che il costruttore era dalla parte del torto, e dichiarò inammissibili le prove da lui proposte.

L'avvocato dell'attore, amico personale di quel magistrato, rimase talmente disorientato da questo inesplicabile cambiamento di scena, che non poté fare a meno di andargliene a chiedere spiegazioni a quattr'occhi. E quello, con aria sinceramente afflitta, gli disse:

— Ti parlo col cuore in mano. Alla prima udienza non conoscevo ancora una circostanza decisiva che ho scoperto in seguito: quella signora è moglie di un alto magistrato che fa parte della commissione giudicatrice della mia promozione, lo sono sinceramente costernato per questa coincidenza: ma tu devi capire che cosa rappresenti per la mia vita una promozione che aspetto da dieci anni. Renditi conto che in questo processo il vero oggetto della controversia non è il quartiere del tuo cliente, ma è la mia promozione. —

E siccome l'avvocato non pareva persuaso di questo ragionamento, il giudice aggiunse:

— So anch'io che dargli torto è un'ingiustizia; ma mi consolo pensando che, quando io avrò salvato la mia promozione col dargli torto, gli daranno certamente ragione i giudici d'appello. —

 

 

*Sommamente pericolosa per il giudicabile può riuscire, senza che egli neppure lo sospetti, la antipatia personale o la rivalità di carriera tra i magistrati (son uomini anch'essi) che devono giudicarlo: può accadere che in camera di consiglio un giudice cerchi di screditare la tesi del relatore, solo perché sono tutt'e due concorrenti alla stessa promozione; o che una sentenza sia riformata in appello o annullata in cassazione non perché sia in sé ingiusta, ma perché nel subcosciente del magistrato che la riesamina in sede superiore riaffiora una antica ruggine personale coll'estensore di essa.

In questi casi il processo diventa un litigio tra giudici, di cui le parti ignare pagano le spese.

 

 

*Difficile è per il giudice trovare il giusto punto di equilibrio tra lo spirito di indipendenza verso gli altri e lo spirito di umiltà verso sé stesso: essere fiero senza arrivare ad essere orgoglioso, e insieme umile senza esser servile: aver tanta stima di sé da saper difendere la propria opinione contro l'autorità dei potenti o contro le insidie dialettiche dei causidici, e insieme aver tanta consapevolezza della fallibilità umana, da esser sempre disposto a valutare attentamente le opinioni altrui fino al punto di riconoscere apertamente il proprio errore, senza domandarsi se il riconoscerlo possa apparire una menomazione del suo prestigio. Per il giudice la verità deve contare più dell'altrui prepotenza, ma anche più del suo amor proprio.

 

 

*Gli errori giudiziari, quando si riesce a scoprirli, dimostrano che il giudice non è infallibile: per questo il giudice che si crede infallibile è naturalmente portato a considerare come un calunniatore chi osa ricordare che in qualche caso è avvenuto che un collegio giudicante abbia condannato a morte un innocente.

L'errore giudiziario qualche volta è l'effetto inconsapevole di un peccato d'orgoglio: il magistrato che ha infilato una strada, si rifiuta di ascoltare le ragioni di chi vuol dimostrargli che è sbagliata, perché è convinto che, se l'abbandonasse dopo averla presa, ne soffrirebbe la dignità della giustizia.

Egli crede che sia in giuoco la giustizia, mentre è in giuoco soltanto il suo amor proprio: senza accorgersene, coll'ostinarsi nella sua tesi, da giudice si è trasformato in parte.

 

 

*Anche le sentenze sono come le stagioni. Tutti gli avvocati sanno che certe cause, discusse alla vigilia delle ferie, rischiano di esser decise da magistrati che hanno già fatto le valigie per andare in vacanza.

Saranno sentenze leggiere, come i vestiti da estate.

 

 

*Un giovine magistrato, addetto all'ufficio del pubblico ministero, mi confidava con un sospiro:

— Il mio superiore non mi loda mai per un'istruttoria diligentemente compiuta, per una requisitoria ben motivata. Quello che per lui conta è la quantità di incartamenti che riesco ogni giorno a mandar via dal mio tavolino. Alla fine del mese mi domanda soltanto quanti processi ho sbrigato: e quanti più sono, più mi loda. È la quantità che lo interessa, non la qualità: il problema che lo ossessiona è quello del lavoro arretrato, non quello di far giustizia: per risolvere il suo problema, dieci requisitorie frettolose, in cui si chiede la condanna di dieci innocenti, valgono dieci volte più che una sola requisitoria lungamente meditata per riuscire ad essere giusta. — Gli raccontai allora, per consolarlo, la frase che si riferisce di Vittorio Scialoja, quando andò a illustrare al capo del governo di quel tempo il programma di una collezione di classici latini che doveva esser curata dall'Accademia dei Lincei:

— Eccellenza — gli disse — questa è un'impresa di lungo respiro, che richiede una paziente preparazione: non si può compiere « fascisticamente »….

— Cioè, cioè?! — domandò quello, sgranando gli occhi.

— Cioè: presto e male, eccellenza. — Anche la giustizia è come quella collezione di classici: dev'esser pronta, ma non frettolosa.

 

 

*Si fa un gran parlare di certi clamorosi casi di errori giudiziari, scoperti dopo venti o treni'anni, quando il vero colpevole ha confessato in punto di morte il suo delitto. L'opinione pubblica se ne commuove: come fanno i magistrati a non sentirsi turbati dall'idea che casi simili siano possibili e che per colpa loro creature innocenti languiscano in prigione per tutta la vita? Risponde un alto magistrato, vicino ai limiti di età (non racconto una facezia: è un discorso che è stato fatto sul serio):

— Può darsi, se si fa un calcolo di probabilità, che una metà delle sentenze siano ingiuste, e che di conseguenza una metà di condannati che sono in prigione siano innocenti; ma per la stessa ragione una metà degli assolti che sono in libertà erano in realtà colpevoli e dovrebbero essere in prigione. Non bisogna commuoversi sul caso singolo: bisogna guardare il fenomeno dell'errore giudiziario nei grandi numeri, e allora si vede che, secondo la statistica, c'è compensazione fra gli errori in senso opposto. Così la bilancia della giustizia è in equilibrio, e noi giudici possiamo dormire tranquilli. —

 

 

*Guai ad imbattersi in un giudice permaloso, come qualcuno ogni tanto se ne trova: col giudice che considera come un'offesa personale anche la espressione, da parte dell'avvocato, di un rispettoso rammarico o di un dissenso.

Questo guaio, purtroppo, è capitato una volta proprio a me, in una controversia del lavoro originata dal licenziamento di due impiegati, ai quali la ditta, che li aveva licenziati per riduzione di personale, negava con pretesti la dovuta indennità. Avevano tutt'e due lo stesso grado e la stessa anzianità: l'indennità di licenziamento avrebbe dovuto essere per tutt'e due assolutamente uguale, fino al centesimo. Uno dei licenziati fu difeso da me, l'altro da un suo legale di fiducia. Due cause assolutamente identiche, ma due diversi processi: iniziati lo stesso giorno, dinanzi la stessa sezione del tribunale: ambedue assegnati allo stesso giudice istruttore.

I due licenziati, naturalmente, avevano fretta di riscuotere; ma non aveva fretta il giudice istruttore, che ripetutamente rinviò d'ufficio le udienze appaiate dei due processi. Alla fine, dopo quasi un anno d'attesa, le due cause furono portate insieme all'udienza collegiale, e trattate lo stesso giorno.

Tutt'e due i difensori, il mio collega ed io, avevamo sostenuto la stessa tesi, fondata su un certo articolo del codice civile; ma io avevo avuto l'imprudenza di rilevare, nella mia difesa scritta, la inopportunità di quei rinvii. Si sa (dicevo) che la indennità di licenziamento deve servire ad alimentare il lavoratore disoccupato mentre è in cerca di una nuova occupazione: a fargliela sospirare per un anno, si rischia di dargliela quando è già morto di fame.

Questa frase irritò il tribunale; il quale nello stesso giorno pronunciò per i due casi identici due sentenze diverse: nella causa difesa dal mio collega, uomo pacifico e paziente, riconobbe al licenziato il diritto all'intera indennità; in quella difesa da me, si diffuse in polemica contro la intemperanza del patrocinatore e per punizione interpretò lo stesso articolo di legge in modo diverso, sì da ridurre l'indennità del mio patrocinato alla metà di quella che gli sarebbe spettata secondo la giusta motivazione dell'altra sentenza.

Un giudice impermalito può esser portato senza accorgersene a far ricadere sulla parte innocente le colpe del difensore troppo focoso. I giudici sono nati per giudicare, non per essere giudicati: l'avvocato troppo libero di scilinguagnolo, che pretendesse di giudicarli, potrebbe diventare, senza volerlo, la rovina del suo cliente.

 

 

*L'idea che la sentenza di primo grado possa essere messa nel nulla dalla corte d'appello può esercitare sul giudice che l'ha redatta, secondo la sua natura, influssi benefici o maligni.

Per alcuni giudici, quelli che hanno più chiara la coscienza della facilità con cui gli uomini cadono in errore, è un'idea tranquillante, che serve a sopportar meglio il tormento della loro responsabilità (« se avrò sbagliato io, per fortuna ci sono i giudici d'appello che potranno rimediare »).

Ma ci sono altri giudici per i quali questa idea diventa una specie di incubo, fino al punto di indurli a escogitare ingegnosi giri di motivazione destinati a chiudere al soccombente le vie offerte dalla legge per ricorrere ai giudici superiori.

Preferisco la serenità dei giudici della prima specie; ma comprendo anche la gelosia degli altri, che in fondo non è che l'esagerazione di un sentimento umano: molti genitori, all'idea che qualcuno possa non trovar belle le loro creature, perdono l'uso della ragione.

 

 

*Uno dei ricordi più mortificanti della mia esperienza professionale è quello di un colloquio che ebbi molti anni fa, e che lasciai a mezzo, col presidente di un piccolo tribunale di provincia: un vecchio vicino ai limiti d'età, scontento di sé (come poi mi accorsi) e inacidito in quella grettezza provinciale in cui terminava senza gloria la sua carriera.

Ero andato a spiegargli le ragioni per le quali, in un procedimento di separazione personale che si svolgeva dinanzi a lui, la mia cliente non era favorevole ad accettare una conciliazione che avrebbe lasciato l'amministrazione della cospicua dote in mano al marito scapestrato e scialacquatore. Il presidente mi stette a sentire per un po', con aria diffidente e sgarbata (avevo fatto un lungo viaggio apposta per aver con lui questo colloquio, ed era la prima volta che mi conosceva), e poi bruscamente mi interruppe:

— Ho capito, ho capito: a lei la conciliazione non conviene. La sua cliente ha un bel patrimonio: sarebbe un peccato troncare così una bella causa, che promette tanto ai signori avvocati…. —

E strizzava l'occhio, come se mi avesse fatto un complimento.

Lasciai in asso quello screanzato per non rispondergli con male parole. Ma dopo qualche tempo, parlando a mente fredda di quell'episodio con un magistrato di altra città, mio amico, persona sensibile ed umanissima, gli esprimevo la mia meraviglia per la rozzezza di questo presidente, che non s' era reso conto dell'offesa che mi aveva fatto: — Se io dicessi a un giudice che la magistratura è un mestiere come tutti gli altri, e che quel che anima i magistrati non è l'amor della giustizia, ma solo l'attesa dello stipendio alla fine del mese, egli avrebbe ragione di offendersi: e perché non dovrebbe offendersi un avvocato a sentirsi fare da un giudice lo stesso discorso? — Il mio interlocutore cercava di giustificare il vecchio presidente: — Certi magistrati soffrono di una specie di albagia professionale, la quale si rifiuta di credere che possano esservi avvocati pronti a servir la giustizia per solo amore di essa e non per cupidigia di guadagno. Di questa religiosa dedizione al proprio ufficio solo i giudici credono di avere il monopolio: solo la magistratura sarebbe degna di esser considerata come un apostolato, mentre l'avvocatura, quella sì, sarebbe soltanto un mestiere….— Io gli risposi che il giudice, il quale non intende che anche per gli avvocati (per i migliori di essi) il più grande conforto può essere la coscienza, o l'illusione, di servir la giustizia, vuol dire che questo conforto non lo conosce neanche per sé. Ognuno misura gli altri, anche senza accorgersene, sul propria metro. Se ci sono giudici i quali credono che per gli avvocati la sola luce della vita sia il miraggio dei grandi guadagni, vuol dire che essi stessi non trovano compenso apprezzabile nell'amor disinteressato della giustizia, e che ogni giorno si rimproverano di non aver scelto un mestiere più lucroso. Ma questa non è superiorità morale: è bassa invidia.

 

 

*Alla vigilia di una grave causa penale in cassazione, il cui esito pareva sicuramente prevedibile secondo la giurisprudenza da tempo consolidata, il presidente tutto arzillo annuncia a uno dei difensori che incontra nel corridoio:

— Avvocato, vedrà domani! Sarà un vero cataclisma della giurisprudenza. Faremo una sentenza che uscirà dall'ordinario: una sentenza che « farà epoca ». —

Erostrato per diventar celebre incendiò il tempio di Diana Efesia e così riuscì a passare alla storia. Si possono dunque trovare magistrati così assetati di fama che siano disposti a far crollare la giurisprudenza sulla testa dei giudicabili, per avere il gusto di vedere pubblicata sulle riviste col loro nome la sentenza sovvertitrice?

 

 

*Vent'anni fa, nell'anticamera del primo presidente della cassazione, ho assistito a una curiosa scena. Per esser ricevuti dal presidente bisognava darsi in nota all'usciere, che rigorosamente faceva entrare secondo l'ordine di iscrizione. Sulle poltrone erano pazientemente sedute, in attesa del loro turno, diverse persone, già iscritte sulla nota, tra le quali io stesso.

Sopraggiunge un Tizio, con aria molto autorevole, il quale con voce perentoria dice all'usciere (era il tempo del « voi »):

— Annunciatemi a sua eccellenza: ditegli che c'è il commendatore ?….., consigliere d'appello

— Vi scrivo subito in nota, — dice l'usciere.

— Ma intanto annunciatemi!

— Non posso, questi son gli ordini: lo farò quando verrà il vostro turno. — Arrabbiatissimo quello sbuffa ed esce: torna poco dopo con un cancelliere, che forse è il superiore diretto dall'usciere: questi con aria insinuante dice all'usciere: — Questo è il commendatore ?…., consigliere d'appello. Annunciatelo a sua eccellenza.

Ma l'usciere si è incaponito:

— Lo annuncerò a suo turno. —

E per una mezz'ora questo commendatore, che è un magistrato servitore della giustizia, sbraita e protesta e s'impazienta, in presenza di noi che abbiamo diritto di essere introdotti prima di lui, perché non intende rassegnarsi a rispettare l'ordine di precedenza.

Se quest'uomo non ha quel po' di discrezione che occorre per tenere a freno il proprio egoismo, che cosa si può sperare da lui come magistrato? Come può dettare giustizia agli altri, costui che non è neanche capace di insegnare a sé stesso come si fa a rispettare il suo turno?

(Un magistrato mio amico al quale raccontai questo episodio, mi spiegò:

— So chi è. Compatiscilo. Era sotto scrutinio: i magistrati sotto scrutinio diventano agitati irresponsabili. Quando sarà stato promosso, riacquisterà la sua tranquillità; e ricomincerà a sapere da sé come ci si comporta tra persone civili che aspettano in coda). —

 

 

*Le manovre di corridoio, le inframmettenze, le raccomandazioni producono su certi giudici un effetto diametralmente opposto a quello sperato da chi vi ricorre: il quale così, per essersi fatto incautamente raccomandare, si trova ad esser gabbato dalla sua stessa malizia.

Una volta, in una causa in cui erano in giuoco interessi economici molto rilevanti e c'era motivo di temere inframmettenze politiche a favore di una delle parti, l'avvocato dell'altra parte, prima che fosse nominato il consigliere relatore per quella causa, andò dal presidente della corte a esporgli francamente i suoi timori.

Il presidente non dimostrò di aversi a male di questa sua franchezza: e lo rassicurò, dicendo:

— Stia tranquillo, nominerò come relatore il magistrato più scontroso del collegio, talmente « irraggiungibile » che non solo non dà ascolto alle raccomandazioni, ma, se c'è una parte che si fa raccomandare, le dà torto anche quando sarebbe giusto darle ragione. —

L'avvocato restò pago delle parole del presidente: e infatti la sentenza gli fu pienamente favorevole.

Ma, dopo, era tormentato da un dubbio: — Ho vinto perché il relatore si è convinto delle ragioni del mio cliente, o perché si è offeso delle raccomandazioni del mio avversario? —

(Ho conosciuto un professore malato della stessa fobia: il quale però, per evitare che essa lo inducesse ad ingiusto rigore contro gli esaminandi che si facevano raccomandare, si metteva in tasca senza leggerle tutte le lettere in cui gli pareva di indovinare una raccomandazione: e le leggeva poi, tutte insieme, a esami finiti. Il bello è che quasi sempre da questa lettura retrospettiva s'accorgeva che tutti i raccomandati erano stati regolarmente bocciati: e si rallegrava, come di una riprova matematica di questa coincidenza).

 

 

*Nei giudici anche nella vita privata, si biasimano come disdicevoli alla gravità del loro ufficio certe piccole debolezze o certe innocenti distrazioni che si perdonano o magari si guardano con simpatia in altre persone.

Per esempio: se io fossi (come, con mia vergogna, non sono) un frequentatore di partite di calcio, e tra il pubblico urlante riconoscessi un consigliere d'appello che agita freneticamente le braccia e dà di venduto all'arbitro, come potrei domani, discutendo una causa dinanzi a lui, continuare ad aver fiducia nella sua serenità e nel suo equilibrio?

Lo stesso senso di scoraggiamento mi prese una volta quando, parlando da vicino, prima dell'udienza, col presidente di una corte penale dinanzi alla quale stavo per discutere un ricorso, mi accorsi, dai riflessi iridescenti della sua testa impomatata, che si tingeva i capelli. — Ohimè, ohimè, come può essere scrupoloso ricercatore della verità nelle altrui vicende chi la adultera perfino nel colore dei suoi quattro capelli? —

 

 

*In una commissione di studio per la riforma dell'ordinamento giudiziario ho sentito dire che una volta (e forse due) è accaduto che un magistrato appena promosso, in attesa di essere destinato a una nuova sede, abbia chiesto di passare dagli uffici della magistratura giudicante, ove si era svolta finora tutta la sua carriera, a quelli della magistratura requirente (cioè del pubblico ministero); e questo non perché si sentisse particolarmente adatto alle funzioni della pubblica accusa, che richiede spiccate doti oratorie, ma perché di solito nella magistratura requirente i posti disponibili sono più numerosi che in quella giudicante, ed è più facile, per il magistrato che scelga la prima, trovar libero un posto in una città di suo gradimento. Poi questo magistrato, una volta ottenuta la sede desiderata, ha presentato un certificato medico comprovante che egli è affetto da raucedine cronica, che gli impedisce di parlare in pubblico: e, per questo motivo, è riuscito a farsi ritrasferire in soprannumero nella magistratura giudicante di quella stessa città.

Brillante trucco: ma non vorrei che a un siffatto magistrato toccasse domani di dover decidere una di quelle cause, così frequenti nella pratica, che si riducono a una questione di lealtà e di buona fede.

 

 

*Fece scandalo qualche anno fa sui giornali la crisi di frenesia da cui fu preso quel deputato, che, in un afoso meriggio d'agosto, mentr'era seduto al tavolino di una trattoria di Roma, vide sedersi al tavolino accanto una giovane signora, accompagnata dal marito, la quale, sfilatosi il bolerino, rimase vestita di un di quei succinti abiti estivi che si chiamano « prendisole ».

Al veder quelle spalle nude, il deputato moralista, offeso nel suo pudore, perse il lume dagli occhi e ricoprì di improperî la signora scostumata (degno di ammirazione fu il marito, che seppe astenersi dal ricoprire di pugni quello spiritato).

Come deputato, niente da dire. Ma il male è che costui era un magistrato. Se domani gli elettori non lo rieleggeranno e tornerà a fare il giudice, come potrà un avvocato, che sia chiamato a difendere dinanzi a lui un imputato di oltraggio al pudore, aver fiducia nella sua serena equanimità?

I giudici devono essere (o almeno cercar di apparire) non dico uomini mediocri, ma uomini medî: anche nel pudore, quand'uno è giudice, non bisogna esagerare.

 

 

*Dopo aver pronunciato la sentenza iniqua, uno dei giudici che avevano preso parte alla deliberazione mi confessò:

— Quando siamo usciti dalla camera di consiglio dopo aver preso quella decisione, tutti ci sentivamo turbati e scontenti: ma purtroppo non si poteva fare altrimenti: la legge è legge. — Ben detto. Ma i giudici dovrebbero dare più retta a questo senso di scontentezza che talvolta li piglia al momento di uscir dalla camera di consiglio; quando esso li avverte, dovrebbero tornare indietro e domandarsi se questa scusa dell'ossequio alla legge non sia molte volte una ipocrisia per far passare l'ingiustizia sotto il mantello della legalità.

 

 

*Questionario per un esame di coscienza di un magistrato alla fine della sua carriera:

— Mi è mai accaduto, mentre mi pareva di esser convinto della colpevolezza dell'imputato, di accorgermi a un tratto che cominciavo a ritenerlo innocente dopo aver saputo di chi era figlio?

— Mi è mai accaduto, nel decidere una lite, di non potermi levar di mente le opinioni politiche o la fede religiosa o le parentele o le amicizie della parte che poi ha avuto ragione?

— Mi è mai accaduto nella stessa udienza, per invitare due testimoni a sedersi dinanzi a me, di adoprare per ciascuno di essi una formula diversa: per uno « si accomodi » e per l'altro « sedetevi » ?

— Mi è mai accaduto, nel fare una sentenza, di pensare senza volere alle conseguenze che dal farla in un modo o in un altro potevano derivare alla mia promozione o al mio trasferimento? — Dolce e tranquilla è la vecchiaia del magistrato a riposo che a tutte queste domande può rispondere: — Mai —

 

 

XV.

 

 

DI CERTE SERVITÙ FISICHE,

COMUNI A TUTTI I MORTALI,

ALLE QUALI NEANCHE I MAGISTRATI

POSSONO SOTTRARSI

 

 

*Anche i giudici sono povere creature soggette alle gastralgie; e sotto l'apparente impassibilità della toga nascondono spesso la angosciosa lotta di chi cerca di soffocare, senza che nulla trapeli all'esterno, i capricci dei propri visceri irrequieti.

Una volta, mentre passeggiavo negli ambulacri della cassazione in attesa del mio turno di discussione, vedo uscir dall'aula e venirmi incontro correndo un collega cogli occhi fuori dell'orbita, come se avesse assistito a qualcosa di straordinario. Mi prende per un braccio, mi trascina con sé:

— Incredibile, incredibile! Bisogna che ti racconti. … —

(Bisogna sapere che nella terminologia processuale il verbo tecnico, che si adopra quando la corte respinge il ricorso, è « rigettare », il contrario di « accogliere ». Il procuratore generale, quando fa la sua requisitoria, conclude con una di queste due formule: « chiede che la corte accolga…. », oppure « chiede che la corte rigetti…. »).

Dunque quel mio collega, ancora turbato per quello che aveva visto, mi raccontò che nella sua causa, dopo le arringhe dei due avvocati (il ricorrente e il resistente), si era alzato a concludere il procuratore generale, che quel giorno era un magistrato valorosissimo, noto per la grande passione che anche nelle cause civili dava alla sua eloquenza un tono patetico e trascinante.

Questa volta egli voleva persuadere la corte ad accogliere il ricorso: e per artificio dialettico faceva l'ipotesi che la corte lo avesse rigettato, e ne immaginava in anticipo le assurde conseguenze: — Pensi bene la corte eccellentissima a quello che accadrebbe se rigettasse. Rigetti, rigetti pure; ma poi… — Non poté finire: uno dei consiglieri componenti il collegio, che colla testa tra le mani pareva attentissimo alla sua requisitoria, sussultò l'improvviso, e lì sul banco lucido, seguì, ma dando al verbo ben altro senso, il consiglio che il procuratore generale aveva con purezza di intenti indirizzato alla corte… Potenza suggestiva dell'oratoria! Quel poveretto, per non interromper l'udienza, da un'ora stava lì rannicchiato, comprimendosi lo stomaco sotto la toga: a denti stretti, colla fronte imperlata di un sudorino ghiaccio, era riuscito fino a quel punto a non dare scandalo….

Bastò quella frase allusiva, quel verbo traditore; fu come un'ondata per chi soffre il mal di mare, come la goccia, proprio si potrebbe dire, che fece traboccare il vaso.

L'udienza, naturalmente, fu tolta.

 

 

*In quella specie di sacra rappresentazione, colla sua liturgia ed i suoi paramenti, che è l'udienza, il travestimento rituale costituito dalla toga e dal tòcco (dalla parrucca, nelle corti inglesi) trasforma i giudici, o si illude di trasformarli, in simboli tutti uguali ed equivalenti della stessa funzione, alleggeriti, sotto l'uniforme d'ufficio, di tutte le pesanti tare individuali.

Tra queste tare, che il travestimento vorrebbe nascondere, son da contare anche quelle servitù fisiche, diverse da persona a persona, che variamente tiranneggiano la fragile e dolente natura umana. Ma la legge processuale non le riconosce: essa non ammette che sotto la stessa toga i magistrati assisi in udienza abbiano diversa età, o diversa salute, o diverso umore; non distingue tra il giovane e il vecchio, tra il valido e l'infermo, tra l'anemico e il pletorico. Non suppone che in quei personaggi immobili e dignitosi, che nelle cerimonie solenni si ammantano di porpora e di ermellino, abbiano presa le inesorabili infermità della vecchiaia, un fegato che si inceppa, un cuore che sobbalza. Secondo i teorici, quello che conta nel processo è la forma, che è uguale per tutti; i giudici sono tutti sani, modelli di integrità morale e fisica, coi sensi desti, coi nervi solidi; il problema della resistenza fisica per essi non si pone, perché non sono uomini soggetti alla servitù del dolore, ma astrazioni simboliche, liberate dalla fame e dalla sete, dalla stanchezza e dall'età.

Ma gli avvocati sanno che in concreto l'esito della causa può dipendere da una colica di fegato o da un esaurimento senile. Anche le sentenze possono ammalarsi di artrite o di itterizia; e ne portano nella motivazione i sintomi rivelatori. Spesso l'appello al giudice superiore somiglia a una cura disintossicante destinata a sciogliere i calcoli biliari: contro la sentenza del giudice malato, si cerca la giustizia del giudice sano (o, per lo meno, di quello che soffre di una malattia diversa).

 

 

*Neri chiamano gli avvocati penalisti nel loro gergo quei giudici che, per principio, sono portati alla severità piuttosto che all'indulgenza: e che considerano l'innocenza come una mancanza di rispetto (quasi si direbbe come un crimen laesae maiestatis) alla dignità della loro funzione.

Perché li chiamano « neri »? Suppongo che nel subcosciente di questo epiteto vi sia un richiamo al colore della bile, che gli antichi chiamavano « nera ». Giudici melanconici, giudici atrabiliari: parole di diverso suono, ma di analogo significato. Quasi sempre l'eccesso di severità dipende da un ingorgo al fegato, che fa veder nera anche la candida innocenza.

 

 

*Non c'è poi da scandalizzarsi tanto se nelle udienze collegiali, destinate alle discussioni orali delle cause, siede nel collegio qualche magistrato di campane grosse.

Questo sarebbe un difetto inconcepibile in una corte inglese, dove tutta l'udienza consiste in un dialogo a voce discreta tra il magistrato che siede sulla cattedra e gli avvocati che stanno alla sbarra dinanzi a lui: sbrigativo ed amichevole dialogo, nel quale il magistrato non si perita di interrompere l'avvocato a metà di un discorso che non lo persuada, e di confutarlo apertamente, portando ragioni alla tesi dell'avversario; e alla fine, quando attraverso questo leale colloquio è arrivato a convincersi della verità, detta immediatamente alla stenografa, senza ritirarsi in camera di consiglio, i motivi e il dispositivo della sua sentenza. Con questo metodo di udienza dialogata, non è ammissibile che il magistrato, che deve dirigere il dibattito, sia duro d'orecchie: non è possibile una conversazione a voce bassa con un sordo.

Ma nello stile italiano, non è indispensabile (specialmente nelle cause civili) che i magistrati ascoltino. L'arringa è come un rito che l'avvocato celebra per conto suo: i magistrati si limitano ad assistervi senza prendervi parte, come a una mimica teatrale, spesso ammirabile, ma sempre inutile.

Questo è vero soprattutto nei processi civili, in cui, fuor che in cassazione, la sentenza è deliberata a distanza di mesi: quando i giudici che hanno assistito all'arringa, anche quelli che hanno l'orecchio buono, non possono più ricordarsi di quello che hanno udito.

A distanza di mesi l'arringa è diventata, nella loro memoria, come un lontano ronzìo senza senso: ogni differenza d'udito tra chi l'ha ascoltata e chi non poteva ascoltarla, è annullata dal tempo.

Il nostro procedimento civile dà così poca importanza alla discussione orale, che par fatto apposta per rendere i magistrati tutti sordi ad un modo: se non sordi di natura, sordi d'ufficio.

 

 

*Non sarebbe male che l'avvocato, quando deve discutere una causa, si fosse prima informato delle abitudini domestiche del giudice: a che ora va a colazione, se la sua signora è puntuale nel mettere in tavola, o se per caso, proprio in quel giorno, non abbia a casa sua qualche invitato.

Se avesse queste notizie, l'avvocato si guarderebbe bene dal continuare a parlare quando sta per scadere quell'ora fatale, oltre la quale la serenità del giudice è fatalmente turbata dal malumore gastronomico. Colla sua brevità gioverebbe alla causa del suo cliente, più che con un'eloquentissima orazione protratta quando la mente del giudice è invasa dalla lugubre ossessione del modesto pranzo che passa di cottura.

 

 

*Feci appositamente un lungo viaggio per andare a discutere una difficile causa civile a una lontana corte d'appello; ma quando fui arrivato, prima che cominciasse l'udienza, il presidente mi mandò a chiamare nel suo gabinetto e mi disse cortesemente:

— Mi dispiace, avvocato, ma la discussione dev'essere rinviata.

— Eccellenza, ho fatto il viaggio apposta….

— Lo capisco, e me ne duole per lei; ma il consigliere relatore, che aveva studiato la causa, si è ammalato proprio ieri, e ho dovuto sostituirlo. E il nuovo relatore non ha avuto ancora tempo di studiarla.

— Non mi pare che questo renda necessario il rinvio: noi avvocati cercheremo di parlare nel modo più semplice e preciso, in modo che il nuovo consigliere relatore, se avrà la bontà di ascoltarci, comincerà così a informarsi delle questioni e troverà poi molto più facile lo studio del fascicolo. — Il presidente si mise a ridere:

— Il nuovo relatore, purtroppo, non è in grado di ascoltare gli avvocati: è completamente sordo. — Rimasi esterrefatto: ed egli sorridendo aggiunse:

— Proprio mi dispiace; ma è necessario lasciare tempo al relatore per leggere i fascicoli: e rinviare la discussione a quindici giorni.

— Sta bene, eccellenza: ma tra quindici giorni non sarà sordo lo stesso?

— Certo. Ma quando tra quindici giorni si sarà informato della causa attraverso la lettura del processo, allora potrà assistere alla discussione con qualche profitto: perché dai gesti che farete e dal movimento delle labbra potrà afferrare con una certa approssimazione, aiutandosi col riferimento alle difese scritte, le vostre argomentazioni orali. E se poi non le afferrerà, noi del collegio, che le avremo udite, gliele racconteremo in camera di consiglio. — Tornai puntuale dopo quindici giorni: e nella discussione orale cercai di far capire coi gesti, al consigliere relatore che mi guardava con occhi sbarrati, la differenza che passa tra prescrizione e decadenza. È un po' difficile riuscire ad esprimere questa differenza coi gesti: e in verità, dal fatto che la sentenza, uscita sei mesi dopo, mi dette torto, debbo ritenere che non ci riuscii.

 

 

*Ogni volta che avevo discusso dinanzi a quella corte, avevo notato la faccia severa di quel magistrato: che mentre parlavo mi guardava continuamente, fisso e impassibile, senza che mai un moto o un'increspatura della faccia lasciasse trasparire le sue impressioni. A me, toscano, avviene talvolta, anche nel trattar gravi questioni di diritto, di lasciarmi sfuggire qualche parola scherzosa: e vedo allora con piacere passar sulle facce dei magistrati che ascoltano, un accenno di sorriso, come un istante di distensione, di cui penso non mi siano ingrati. Ma con lui, non c'era caso: qualsiasi facezia cadeva nel vuoto; mentre gli altri ridevano, egli mi guardava con quella stessa faccia accigliata, che mi ghiacciava. Egli era diventato per me l'immagine vivente della austerità della giustizia, che non ammette scherzi o divagazioni.

Ma dopo qualche anno quel magistrato, raggiunti i limiti di età, si mise a esercitare la professione d'avvocato: e così mi avvenne una volta di ritrovarlo collega di difesa, alla vigilia di una udienza, in cui, dovendosi discutere una causa molto complessa, il compito della discussione doveva necessariamente esser diviso tra i varî difensori.

Eravamo riuniti per fissar questa repartizione di lavoro. Egli stette sempre in disparte: ma quando alla fine ci rivolgemmo a lui, egli, con una franchezza che tutti ammirammo, ci disse:

— Scusatemi: se si trattasse di scrivere, io assumerei volentieri la mia parte; ma in quanto a parlare in udienza, non mi sento adatto, perché per un vecchio difetto d'orecchi, a più di un metro di distanza non riesco ad afferrare la parola dell'interlocutore. — Allora capii perché, da magistrato, non rideva mai; giudici e avvocati in udienza son distanti tra loro una diecina di metri: pareva austero, e invece era sordo.

 

 

*Questa storia richiede una postilla, suggeritami da un collega avvocato, che sui misteri delle udienze la sa lunga perché è figlio di un vecchio magistrato a riposo.

Gli raccontavo del giudice che in udienza non rideva mai perché era sordo. Mi ha interrotto: — Sta' attento, non fidarti di questi sintomi: ci sono anche i sordi che sorridono a tempo, perché spiano colla coda dell'occhio la faccia del presidente e si regolano su quella. Una medicina miracolosa, che rende l'udito ai sordi e la vista ai ciechi: il conformismo.

 

 

*Nel saper ascoltare le buone ragioni altrui è la prima virtù del giudice: l'udito è il senso più prezioso e più necessario (il senso professionale, si potrebbe dire) di chi è destinato dal suo ufficio a star seduto e silenzioso per tutta la vita, ad ascoltare chi parla stando in piedi.

Per questo al centro del processo sta l'udienza. Senza udito non c'è udienza: sarebbe inutile annunciare che l'udienza è aperta, se gli orecchi dei giudici rimanessero chiusi. E invece, purtroppo, succede che i magistrati, quanto più salgono in dignità, tanto più perdono in finezza d'udito. Così mi confessò uno di essi:

— La nostra carriera (e la nostra tragedia) è tutta qui: si comincia uditori, e si finisce sordi. —

 

 

*Per intendere il vero movente di certe impazienze dei giudici in udienza e per giustificare il modo brusco con cui talvolta interrompono il difensore prolisso, bisogna non dimenticare che anch'essi son fatti di carne e d'ossa e che la loro resistenza ha un limite: ma di questo bisogna, ricordarsi anche per non fraintendere certe loro eccessive arrendevolezze e cortesie inusitate.

C'era un vecchio presidente di corte, che tra gli acciacchi dell'età ne aveva uno assai fastidioso, che gli impediva di rimaner seduto più di mezz'ora. (Il caso non è nuovo: quando tra i requisiti formali di validità della sentenza, si esigeva ch'essa fosse pronunciata da un giudice seduto, perché lo star seduto sul trono era il simbolo del comando, sorgeva intorno a questa regola tutta una casistica di ipotesi eccezionali: se fosse valida la sentenza pronunciata da un giudice cavalcante, o da un giudice affacciato al balcone di una torre; od anche da un giudice a cui qualche incomodo impedisse di mettersi a sedere. E svariate erano, su questi ardui problemi, le opiniones doctorum).

Dicevamo dunque che c'era un vecchio presidente di corte, il quale, per questa sua necessità di alzarsi, era costretto ogni mezz'ora a sospendere per qualche istante l'udienza. Quando un avvocato nel parlare aveva superato i venti minuti, il presidente cominciava ad agitarsi nel suo seggiolone, e a dar segni di inquietudine e di angoscia; ma insieme il suo volto, invece di turbarsi, assumeva un'aria di conciliante e insinuante bonarietà…. Guardava in faccia l'avvocato come se gli piacesse molto, si protendeva verso di lui, e cominciava a sorridergli, a accompagnar con gesti benevoli le sue frasi, a fargli di sì colla testa. E alla fine lo interrompeva, ma dolcemente, per dargli ragione:

— Sì, sì, avvocato, ho capito la sua tesi. Dice bene, dice benissimo: ho perfettamente capito. Sì, sì, avvocato: non c'è altro da dire…. —

E poggiava le mani sui braccioli della poltrona, come per alzarsi, per fargli capire che ormai era convinto delle sue ragioni.

Un avvocato novellino, la prima volta che discusse dinanzi a questa corte, ne uscì trionfante. E raccontava agli amici il suo trionfo:

— Mentre parlavo, il presidente non ha fatto altro che sorridermi ed approvare: era estasiato. Alla fine della mia arringa era talmente commosso, che per l'emozione ha sospeso di colpo la seduta ed è scappato via…. Mi sono accorto che ratteneva a stento le lacrime. —