II
Teorie della crescita: da Solow a Solow
In principio era il modello di Harrod e Domar.1 Concepito in modo indipendente dai due economisti intorno agli anni della seconda guerra mondiale, il modello si proponeva di spiegare le fluttuazioni del tasso di crescita all'interno del medesimo paese, ma sarà poi usato ampiamente anche per spiegare le differenze di sviluppo fra paesi. L'idea base è che il motore della crescita siano gli investimenti, i quali a loro volta dipendono dal risparmio. Per far crescere un paese, dunque, si deve stimolare il risparmio privato (per esempio abbassando le tasse), oppure agire direttamente sul tasso di investimento, mediante gli investimenti pubblici. La prima strada piace alla destra, nutrita di idee liberiste, la seconda alla sinistra, nutrita di idee keynesiane.
Una decina di anni dopo Harrod e Domar è il turno di un'altra coppia, Solow e Swan, che nel 1956, uno indipendentemente dall'altro, formulano un nuovo modello.2 Anche qui lo scopo originario è di analizzare come cresce un singolo paese, ma l'uso che del modello verrà fatto da altri andrà ben oltre. Per quanto ultrasemplificato, irrealistico, secondo alcuni persino tautologico,3 il modello di Solow è diventato una sorta di pietra miliare: chiunque si occupi di crescita da lì comincia, o da lì deve passare. Nella sua versione più semplice, quella senza progresso tecnico, il modello di Solow dice sostanzialmente tre cose.
1) Nel breve periodo la velocità di crescita di un paese dipende dal suo tasso di risparmio, più è alto il risparmio e più velocemente cresce il reddito per occupato.4
2) A un certo punto la crescita si stabilizza, e il sistema economico entra in uno "stato stazionario", in cui tutte le grandezze si muovono in modo bilanciato.5
3) Nello stato stazionario il reddito totale cresce senza limiti ma il reddito per occupato non cresce più.
Questa versione del modello di Solow era indubbiamente un po' cupa, e certamente poco realistica. Cupa perché metteva un tetto alla crescita del benessere (qui inteso come PIL per addetto), irrealistica perché assumeva una crescita illimitata della popolazione e quindi del PIL, trascinato dall'aumento della popolazione. Un vago alone malthusiano6 circondava il modello di Solow, anch'egli attirato dall'idea di una crescita "geometrica" della popolazione, a fronte di meccanismi frenanti. Per Malthus il meccanismo frenante fondamentale era la crescita solo lineare dei mezzi di sussistenza, destinata a generare povertà se non si fosse trovato il modo di limitare le nascite. Per Solow era l'ipotesi di una produttività marginale del capitale decrescente (un'idea forse reminiscente della marxiana "caduta tendenziale del saggio di profitto"), da cui discendevano un progressivo rallentamento degli investimenti e una crescita sempre più lenta del prodotto per occupato, fino al suo completo arresto. Dove arresto significa, in buona sostanza, che l'aumento del benessere, ovvero del reddito per abitante,7 incontra un tetto oltre il quale non può andare.
L'irrealismo del modello di Solow, in realtà, era bifronte, un po' troppo pessimista per certi versi, un po' troppo ottimista per altri. Troppo ottimista perché, pur prevedendo un tetto al reddito pro capite, non prevedeva alcun limite all'aumento del reddito totale, la "torta" complessiva del reddito nazionale. Nello stato stazionario la popolazione continua a crescere senza limiti, la produttività di ogni occupato non cresce più, e quindi - trascinato dall'aumento della popolazione - il reddito nazionale cresce a sua volta senza limiti, esattamente allo stesso tasso cui cresce la popolazione. Questo tipo di irrealismo sarà notato soprattutto dai demografi, i cui modelli prevedono invece che la popolazione - qualsiasi popolazione - incontri un limite nel suo processo di crescita, dovuto alla scarsità delle risorse o alla competizione fra specie.8 Di qui una serie di proposte per introdurre nel modello di Solow ipotesi più realistiche sulla legge di crescita della popolazione, proposte che tuttavia non ne avrebbero modificato la conclusione fondamentale: alla fine, quando il sistema ha raggiunto lo stato stazionario, il benessere smette di crescere.9 In queste versioni "modificate" del modello la popolazione non cresce esponenzialmente, ma secondo la curva prediletta dei demografi, la cosiddetta curva a S o sigmoide.10
Figura 4 - Crescita secondo una curva a S
In queste varianti del modello di Solow sia la popolazione sia il reddito all'inizio crescono velocemente, poi sempre più lentamente, fino a raggiungere un tetto oltre il quale non è possibile andare. Però la conseguenza fondamentale del modello originario resta in piedi: nello stato stazionario il reddito per occupato, e quindi il benessere, non cresce più.
È innanzitutto questo lato pessimistico del modello di Solow che, nei decenni successivi, verrà messo in discussione da una lunga serie di nuove teorie e nuovi modelli, che cercheranno di dimostrare che la crescita può non fermarsi mai. L'idea di una traiettoria che avrebbe portato inesorabilmente all'arresto della crescita non solo non poteva piacere, ma appariva contraddetta dai fatti. Nella sua versione originaria, senza progresso tecnico, il modello di Solow prevedeva che, per ottenere un certo aumento del reddito prodotto, si dovessero aumentare in misura corrispondente11 i due fattori produttivi fondamentali, lavoro e capitale. L'osservazione delle statistiche prodotte dalla contabilità nazionale dei vari paesi, e segnatamente di quelle degli Stati Uniti, mostrava invece che gli aumenti di reddito andavano molto al di là di ciò che ci si poteva attendere dati gli incrementi osservati della forza lavoro (occupati in più) e dello stock di capitale (investimenti). Questo scarto fra crescita osservata e crescita prevista dal modello venne battezzato "residuo di Solow". Ma che cosa era questo residuo?
Fu lo stesso Solow, in un articolo fondamentale del 1957, a suggerire la risposta: se il prodotto cresceva troppo rapidamente, era perché le tecnologie produttive non erano costanti, ma miglioravano continuamente. Il residuo poteva e doveva essere interpretato come "progresso tecnico". È così che prende piede una seconda versione del modello, per la verità già considerata nell'articolo del 1956: il modello di Solow "con progresso tecnico". Con questa variante il pessimismo iniziale si capovolge nel suo contrario: se c'è progresso tecnico, e la tecnologia migliora a un tasso costante, il destino finale delle economie è di assestarsi su un sentiero di crescita perpetua, in cui il reddito per addetto aumenta esattamente nella stessa misura in cui procede il progresso tecnico. Ora non è solo la torta del reddito a crescere, trascinata dall'aumento della popolazione occupata, ma è il benessere che può aumentare senza limiti.
Si può dire che Solow avesse rimesso a posto le cose?
Assolutamente no. Anche in questa nuova versione il modello di Solow lasciava aperti non pochi problemi. Il primo è che le variabili fondamentali del modello, quelle che avrebbero dovuto spiegare la crescita, erano a loro volta lasciate inspiegate. È vero che gli economisti hanno un modo elegante per tirarsi fuori da simili problemi, e cioè di affibbiare l'aggettivo "esogeno" a tutto ciò che non riescono a spiegare, con ciò sottintendendo che sono altri scienziati sociali che devono occuparsene. Nel modello di Solow sono esogeni il tasso di crescita della popolazione, la velocità del progresso tecnico, la propensione al risparmio (la quota di reddito nazionale destinata agli investimenti). Ma l'espediente funziona bene quando è plausibile pensare che qualcosa sia davvero esogeno, ossia esterno all'economia. Se la crescita dipende anche dalle precipitazioni atmosferiche, può aver senso dire che sono i meteorologi a doversene occupare. Se la crescita dipende dalla popolazione, si può sperare che i demografi costruiscano un buon modello (cosa che in effetti è avvenuta, come abbiamo visto). Ma se, come accade con il modello di Solow, si dice che la crescita dipende dal tasso di risparmio, è arduo lasciare ad altri il compito di spiegare perché un paese in una certa epoca ha un determinato tasso di risparmio e non un altro. Chi mai dovrebbe occuparsene, se non gli economisti?
E infatti non passerà molto tempo senza che altri economisti raccolgano la sfida. Nel 1965, meno di dieci anni dopo il primo articolo di Solow, due economisti, Cass e Koopmans, propongono un nuovo modello di crescita. Nel modello di Cass-Koopmans, che si ispira a un precedente contributo dell'economista e matematico Frank Ramsey, il tasso di risparmio non è lasciato inspiegato (esogeno) ma diventa endogeno,12 colmando così una lacuna del modello di Solow.
Ma la rinuncia a spiegare il tasso di risparmio non era il principale limite del modello di Solow. Il tasso di risparmio, infatti, nel modello di Solow conta solo prima che l'economia abbia raggiunto il suo stato finale, quello in cui tutte le grandezze - reddito, consumi, investimenti - evolvono in modo bilanciato. Nello stato finale, che gli economisti chiamano "stato stazionario" (termine fuorviante, perché nello stato stazionario può anche esserci crescita illimitata del reddito pro capite), il modello di Solow prevede crescita zero se non c'è progresso tecnico, mentre prevede crescita permanente se - come spesso si assume - il progresso tecnico procede a un ritmo costante. Dunque, nello stato finale l'unica fonte di crescita del benessere è il progresso tecnico, ma il modello non se ne occupa, lasciando ad altri il compito di spiegarlo.
È chiaro che una simile lacuna non poteva lasciare indifferente la comunità degli economisti. Tanto più che l'interpretazione di Solow, ossia che dietro il "residuo" ci fosse il progresso tecnico, non era l'unica possibile. Saranno Frank Hahn e Robert Matthews a notare, fin dal 1964, che il residuo è un concetto "pigliatutto" (catch all), e che il problema è di capire che cosa si nasconde dentro il black box.13 E infatti la storia della teoria economica dopo il 1957 è anche la storia dei tentativi di aprire il black box, una sorta di grande "caccia al residuo" che vede impegnate le menti migliori degli economisti.
Riassumere una storia così, che ha coinvolto migliaia di studiosi, è ovviamente impossibile. Però, nonostante tutto, le sue svolte e le sue linee fondamentali sono relativamente chiare e riconoscibili. Per aprire il black box gli economisti hanno usato migliaia di munizioni, sotto forma di modelli e apparati tecnici, ma poche armi fondamentali, riconducibili ad alcune idee semplici e potenti.
La prima idea è che il problema stia nella funzione di produzione, ossia nel modo in cui Solow ha espresso la relazione fra l'output e i fattori produttivi fondamentali, capitale e lavoro. Nel modello di Solow la crescita si ferma perché il capitale per addetto smette di crescere, e questo accade perché la funzione di produzione è fatta in un certo modo.14 Più precisamente: perché la forma della funzione implica che la produttività marginale del capitale sia decrescente. Cambiando la forma della funzione di produzione si può evitare questa implicazione indesiderata e forse anche irrealistica, visto che nel mezzo secolo successivo all'articolo del 1956 il reddito per abitante è aumentato quasi sempre e quasi ovunque. Qui l'idea base è che il problema non sia l'esistenza del progresso tecnico (trascurata dal modello di Solow) ma il pessimismo vagamente malthusiano degli assunti sulla funzione di produzione. Nel modello di Solow l'aumento del capitale mediante gli investimenti è sempre meno redditizio, ossia sempre meno capace di aumentare il prodotto per occupato, ed è questo che a un certo punto induce a non investire più. Basta allora rimuovere questo assunto, e sostituirlo con l'assunto che l'output sia proporzionale allo stock di capitale, per rendere permanentemente redditizio l'investimento. È questa la mossa dei modelli AK, così detti perché assumono la proporzionalità fra output e capitale (Y = A · K): grazie a questa mossa il reddito per occupato può crescere senza limiti, e la crescita diventa perpetua.15
Il limite di questa mossa è che essa rinuncia a guardare dentro il black box. Si può discutere molto sul significato del residuo di Solow, e soprattutto sul modo di misurarlo, ma è difficile negarne l'esistenza. Se, come è quasi sempre accaduto, l'aumento percentuale del reddito è maggiore di quanto ci si potrebbe aspettare guardando all'andamento delle ore lavorate e degli investimenti, una spiegazione bisogna trovarla.
Arrivati a questo punto della nostra storia dobbiamo però introdurre una distinzione importante. Il residuo di Solow è in realtà un concetto bifronte. Nato in un contesto, quello della traiettoria di crescita di un singolo paese, è poi esondato in un altro, quello delle differenze di benessere e di crescita fra paesi differenti. Quando si dice che c'è un residuo da spiegare, si possono intendere due cose distinte anche se intimamente connesse:
a) il reddito pro capite di un paese cresce più (o meno) del previsto;
b) il reddito pro capite di un paese è maggiore (o minore) del previsto.
Di qui una biforcazione della letteratura che, soprattutto a partire dagli anni Novanta, si occupa sempre meno della crescita nel tempo di un singolo paese, e sempre più delle differenze di crescita e di benessere fra paesi diversi, dai più avanzati ai più poveri.16
Ma che cosa significa, esattamente, che il reddito pro capite non è quello previsto?
"Previsto" significa prevedibile in base allo stock di capitale e di forza lavoro impiegati nel processo produttivo. Perché è proprio questo il nucleo logico irriducibile del modello di Solow, l'idea che vi sia un'unica tecnologia per produrre, una sorta di tecnologia eterna e universale: costante nel tempo e simile in tutti i paesi. Siamo arrivati così allo snodo fondamentale. Una volta constatato che i conti non tornano, perché il reddito pro capite osservato è diverso da quello previsto dalla teoria, si aprono due strade.
La prima è di respingere l'ipotesi di una funzione di produzione unica, e ammettere che la tecnologia è una variabile di cui occorre rendere conto. Si tratterà allora di spiegare come cambia la tecnologia (il progresso tecnico), o perché le tecnologie di un paese differiscono da quelle di un altro. Un programma di ricerca al cui centro si trova la misurazione, l'analisi e la spiegazione della "produttività totale dei fattori" (o TFP, Total Factor Productivity): che cosa la fa crescere e come mai, con gli stessi input, in un paese si produca più output che in un altro. E poiché nel modello di Solow il progresso tecnico o non esiste, o è esogeno (non spiegato), questa strada equivale ad allontanarsi radicalmente dal modello di Solow. Con qualche imprecisione, possiamo definire "neoschumpeteriana" questa via, per la centralità che in essa - come nella classica visione di Schumpeter17 - assumono le problematiche dell'innovazione e del progresso tecnico.
La seconda strada è di stare dentro il modello di Solow, mantenendo l'ipotesi di una funzione di produzione unica, ma di trarne le dovute conseguenze. Se la tecnologia è fissa, e si produce di più di quel che essa sembra autorizzare, vuol dire che nel processo produttivo, oltre al capitale e al lavoro, quasi di nascosto, entrano altri input. Si tratta di scoprire di quali input si tratta, e di inserirli esplicitamente nella funzione di produzione, "aumentando" il modello di Solow anziché abbandonarlo. Possiamo definire "neosoloviana" questa linea di pensiero.
Quel che queste due strade hanno in comune, e che allontana entrambe (non solo la prima) dal modello di Solow, è che esse aspirano a spiegare la crescita "dal di dentro", come un processo interno all'economia e quindi potenzialmente pilotabile dalla politica economica. In questo senso entrambe le idee che abbiamo esposto - spiegare il progresso tecnico e aggiungere input - rientrano nell'immensa tradizione delle teorie di "crescita endogena" (endogenous growth), che hanno monopolizzato il dibattito degli ultimi 30 anni. Crescita endogena ha significato, di volta in volta, introdurre nei modelli ogni sorta di nuove variabili, nuovi meccanismi di trasmissione della conoscenza, del progresso tecnico e dell'innovazione: investimenti in capitale umano e "apprendimento dall'esperienza" (learning by doing), infrastrutture materiali e istituzioni, politiche redistributive e spesa sociale.18
Una tradizione indubbiamente ricca di risultati, ma anche - inevitabilmente - molto politicizzata. Il fatto di concentrarsi sulle determinanti della crescita interne all'economia fa sì che ogni risultato sia politicamente spendibile per il solo fatto che si può immaginare una politica economica che ne faccia uso.
È accaduto così con le teorie del capitale umano, il primo tipo di input che si è provato ad aggiungere al capitale e al lavoro. Il capitale umano è la quantità di conoscenza-istruzione-abilità incorporata nel lavoro. Scoprire che gli investimenti in capitale umano innalzano il tasso di crescita ha fornito più di un argomento alle politiche egualitarie della sinistra. Così come ne ha forniti ogni scoperta di altre variabili pro crescita in qualche modo connesse all'intervento statale, come la qualità dell'assistenza sanitaria, il grado di eguaglianza, gli investimenti in ricerca e sviluppo.
La stessa cosa è accaduta con i risultati che piacciono alla destra. Per esempio, il fatto che la spesa pubblica e le tasse (in particolare quelle sulle imprese) rallentano la crescita. O il fatto che la crescita è più rapida dove i mercati sono flessibili e i diritti di proprietà sono più tutelati.
A questa babele politico-scientifica ha contributo non poco un filone di ricerca, quello delle regressioni à la Barro, dal nome del pioniere di questo approccio.19 Un programma di ricerca ambizioso e sterminato, basato sull'idea che, considerando tutti i paesi del mondo20 e tutte le variabili concepibili, fosse possibile scoprire le vere determinanti della crescita. Forse è troppo severo il giudizio finale di Tiago Mata e Francisco Louçã, secondo cui questo filone di ricerca è ormai avviato su un "binario morto" (a dead end). E sarebbe fin troppo facile riproporre qui la perfida definizione - "a Kamasutra of variables" - che Christopher Freeman riservò agli innumerevoli tentativi econometrici di scoprire che cosa si celasse dietro il residuo di Solow. E tuttavia anche a me pare che, se proviamo a seguire la storia del modello di Solow fino ai giorni nostri, il contributo che è venuto dalla riflessione economica sia più interessante di quello degli esercizi statistici.
Perché alla fine una battaglia fra economisti c'è stata e non è finita in pareggio. Negli ultimi vent'anni la sfida fondamentale è diventata quella di spiegare gli enormi divari di produttività fra paesi, nonché la ragione per cui alcuni paesi li stanno riducendo a un ritmo vertiginoso mentre altri non ci riescono. Se questo è il puzzle, è difficile non vedere che fra le due idee guida che abbiamo ricordato - "aumentare" il modello di Solow aggiungendo nuovi input, oppure abbandonare l'assunto di tecnologia uniforme e prendere sul serio le differenze di produttività - è quest'ultima che sta vincendo la gara. Fatti e rifatti i calcoli, le differenze di produttività sono troppo grandi per essere spiegate con la differente qualità del capitale umano, o con la diversa dotazione di infrastrutture, o con una qualsiasi altra lista di nuovi input da inserire nella funzione di produzione.21 E soprattutto resta inspiegato il vero enigma della teoria della crescita: perché le grandi nazioni che hanno fatto la storia del capitalismo, come l'Inghilterra o gli Stati Uniti, hanno impiegato due secoli per raggiungere il benessere, mentre ad altri paesi - come il Giappone, o la Corea del Sud - sono bastati pochi decenni?
Di fronte a questa domanda le teorie del "revival neoclassico", che si accontentano di aggiungere input alla funzione di produzione, restano sostanzialmente mute.22 Alcuni tentativi di arricchire il modello a due fattori di Solow con nuovi input (l'istruzione, la salute, le esternalità) sono indubbiamente ingegnosi,23 altri sono veri e propri gioielli di eleganza e raffinatezza intellettuale (è il caso del celebre test empirico del modello di Solow proposto da Mankiw-Romer-Weil nel 1992). Ma nessuno basta a fornire una risposta completamente soddisfacente. Una possibile risposta viene invece dalle teorie che prendono sul serio le differenze nella produttività totale dei fattori,24 prima fra tutte quella di due premi Nobel per l'economia, Robert Lucas e Edward Prescott. E la risposta è che, in questo secolo, il patrimonio di conoscenze dell'umanità è enormemente cresciuto e, anche grazie alla globalizzazione, è sostanzialmente "a disposizione" di chi intende servirsene. Detto diversamente: le tecnologie che innalzano drasticamente il livello della produttività possono essere importate, e questo - paradossalmente - è il grande vantaggio dei paesi arretrati, o ultimi arrivati (late comers), rispetto a quelli che hanno raggiunto il benessere per primi (early entrants). Tanto più un paese è lontano dalla "frontiera tecnologica", tanto più ha l'opportunità di accelerare il proprio sviluppo, purché - e qui sta il nodo di politica economica - sia disposto ad abbattere le barriere che proteggono i produttori interni dalla concorrenza e ostacolano il trasferimento tecnologico.25
Che questa visione del processo di crescita abbia ancora a che fare con l'impianto neoclassico e il modello di Solow è una questione in parte nominalistica. A Prescott piace pensare che il suo sia ancora il modello di crescita neoclassico, arricchito "con capitale immateriale e differenze di TFP", ossia il vecchio modello del 1956 trasformato con le due migliori idee maturate dopo Solow e di cui abbiamo parlato poc'anzi. Ad altri la versione di Prescott potrà apparire lontanissima dal modello neoclassico, di cui - in fondo - conserva solo l'ipotesi di una funzione di produzione fatta in un certo modo, ovvero dotata di alcune proprietà formali care ai modelli neoclassici.26 Resta il fatto che, negli ultimi 50 anni, l'intera storia della teoria della crescita ha ruotato intorno al modello di Solow, anche se - forse - più per merito dei suoi limiti che delle sue virtù. Paradossalmente, sono proprio l'irrealismo e il pessimismo del modello di Solow che hanno scatenato la gara per cambiarlo, e per tanti anni hanno alimentato la ricerca sulla crescita.
Oggi quella ricerca è giunta ad alcuni punti fermi, ma nel frattempo il panorama è completamente cambiato. E proprio quando gli economisti sembrano aver trovato il modo di andare oltre il modello di Solow, questo andare oltre appare meno necessario che cinquant'anni fa, perché i "fatti stilizzati" che sembravano mettere in crisi il modello sembrano aver fatto un significativo passo indietro, come un mare che si ritira.27 Allora il modello di Solow non convinceva perché prevedeva che i paesi poveri crescessero più velocemente di quelli avanzati, e per quelli avanzati prevedeva una crescita più lenta di quella che allora si poteva osservare. Oggi il quadro è capovolto: i paesi avanzati ristagnano, come se le loro economie fossero molto prossime ai rispettivi stati stazionari, mentre i paesi un tempo definiti arretrati, poveri o in via di sviluppo mostrano sorprendenti capacità di bruciare le tappe. Questo non significa che Solow avesse ragione, e che i modelli di crescita più recenti non siano stati un progresso. Significa però che se il modello di Solow fosse stato inventato oggi, ben pochi si lamenterebbero del suo scarso realismo, o del suo eccessivo pessimismo, perché i fatti con cui oggi dobbiamo fare i conti appaiono singolarmente in sintonia con alcune predizioni implicite in quel modello. Ed è curioso che, nonostante siano almeno vent'anni che le cose sono cambiate, una parte importante della letteratura sulla crescita si affanni ancora sul vecchio problema di aiutare le economie arretrate a raggiungere quelle avanzate, e non veda il nuovo problema che affligge queste ultime, quello che abbiamo riassunto con lo schema 4-3-2-2-1: l'inesorabile declino del tasso di crescita dei paesi più ricchi del mondo.