XIV

 

Dopo il 2007: fra crisi e stagnazione

 

Fin qui abbiamo sempre ignorato, volutamente, gli anni della grande recessione, ovvero il periodo che va dal 2007 al 2013. Quel che ci interessava, infatti, non era costruire una spiegazione della crisi, un compito che inevitabilmente divide gli studiosi.1 Più semplicemente volevamo capire se, almeno per le società avanzate e almeno per l'ultimo periodo di aumento sostenuto del reddito pro capite (1995-2007), era possibile individuare le forze fondamentali che governano la crescita. E il risultato della nostra analisi non è stato dei più incoraggianti: per crescere occorrono buoni fondamentali economici, ma la crescita, nella misura in cui genera benessere, ha in sé stessa la forza che tende a spegnerla.

Dunque la crisi del 2007-2013 non ha invertito una tendenza ascendente, ma ha accelerato un declino. All'inizio del terzo millennio, mentre il resto del mondo cresceva a ritmi sempre più sostenuti, le economie dei paesi più ricchi stavano già rallentando il passo. La crisi ha solo fatto precipitare le cose.

E ora?

Ora gli osservatori sono divisi. I politici, comprensibilmente, promettono il ritorno della crescita. Si dividono sulle ricette per uscire dalla recessione, le cosiddette "exit strategy", ma sono concordi nel prospettare un ritorno più o meno rapido alla crescita. La credenza in un ritorno della crescita è una necessità politica, specie per i governanti, perché gli elettori non gradiscono un futuro di stagnazione, ma è anche una necessità economica, perché molti paesi sono pesantemente indebitati con l'estero, e solo un ritorno alla crescita consentirà loro di pagare i debiti accumulati negli anni, evitando il fallimento.

Le menti degli economisti sono un po' più libere. La maggior parte di essi pensa che per tornare a crescere basti mettere in atto le politiche economiche appropriate, anche se non sono affatto d'accordo fra loro su quali esse siano. Alcuni vogliono più spesa e più deficit, altri più austerità per rimettere in ordine i bilanci, altri meno tasse sui produttori, altri più regole (specie sulla finanza), altri soprattutto liberalizzazioni e riforme strutturali.

Un piccolo drappello di economisti, invece, si va convincendo che l'era della crescita sia definitivamente tramontata, e che i paesi più ricchi, in particolare gli Stati Uniti, stiano entrando in un'era di stagnazione.

È questa l'idea esposta, per esempio, da Tyler Cowen nel suo fortunato pamphlet The Great Stagnation (pubblicato come e-book all'inizio del 2011), o da Niall Ferguson nel suo libro The Great Degeneration, una spietata ricostruzione storica della decadenza delle istituzioni economiche dell'Occidente. Ma è anche la tesi di un accurato lavoro accademico di Robert Gordon, uscito come working paper nel 2012 con il titolo Is US Growth Over? Faltering Innovation Confronts the Six Headwinds.

L'idea base di Gordon è che la crescita, intesa come aumento costante del reddito pro capite, sia un fenomeno storico circoscritto, durato circa 250 anni, fra il 1750 e i primi anni Duemila. Prima, nei secoli - se non nei millenni - anteriori al 1750, la crescita era lentissima o inesistente. E così sarà in futuro, quando saremo usciti dalla grande recessione. L'era della crescita è una parentesi, una piccola parentesi nella storia dell'umanità.

Anche Gordon, come noi in questo lavoro, giunge alle sue conclusioni prescindendo dalla crisi del 2007-2013. La sua analisi, tuttavia, è limitata agli Stati Uniti, ossia al paese situato sulla frontiera dell'innovazione tecnologica, e si focalizza su un'unica variabile fondamentale: il ritmo del progresso tecnico. Secondo Gordon la crescita sostenuta degli ultimi 250 anni, un processo che ha coinvolto non solo gli Stati Uniti ma buona parte delle economie occidentali, è il risultato di tre grandi impulsi, ricevuti da altrettante "rivoluzioni industriali": la rivoluzione dell'acciaio e delle ferrovie (1750-1830), la rivoluzione delle grandi innovazioni come elettricità, motore a scoppio, acqua corrente nelle case (1870-1900), la rivoluzione dei computer e delle telecomunicazioni (1960-2000).

Secondo Gordon, non solo l'ultima rivoluzione è molto meno incisiva delle altre due, ma anche il progresso tecnico futuro sarà di entità limitata, per almeno due ragioni di fondo. Primo: in molti ambiti, per esempio la velocità dei trasporti, è difficile concepire miglioramenti sostanziali. Secondo: la maggior parte delle innovazioni degli ultimi anni, per esempio i gadget elettronici, hanno un impatto assai modesto sulla qualità della vita. Una tesi, quest'ultima, che Gordon illustra con un esempio molto efficace: fra le cose inventate dopo il 1970 non ve n'è neppure una per la quale si sarebbe disposti a rinunciare all'acqua corrente nelle case, una delle grandi innovazioni della seconda rivoluzione industriale (1870-1900).

C'è poi un terzo modo di vedere le cose, dopo quello dei politici e quello degli economisti, che si deve soprattutto a sociologi, letterati, filosofi, o economisti attratti dalla filosofia. Per alcuni la grande recessione del 2007-2013, più che un dramma da superare, è un'occasione da cogliere, una sorta di opportunità unica di riflessione collettiva. Forse, anziché chiederci come tornare a crescere, dovremmo cominciare a pensare che siamo cresciuti troppo (così Serge Latouche, il guru della "decrescita felice"), o semplicemente che siamo cresciuti "abbastanza", come sostengono in uno splendido libro - How Much is Enough? - Robert e Edward Skidelsky.2 Qui la domanda fondamentale è: come mai, nonostante lo spettacolare aumento del prodotto per occupato, continuiamo a lavorare tanto? Perché non si è realizzata la profezia di Keynes,3 che immaginava una diminuzione continua del tempo di lavoro, e un corrispondente aumento del tempo libero?

Su questa lunghezza d'onda si muovono in molti. È una linea di pensiero che riprende idee della filosofia morale, come il concetto di "vita buona" di Aristotele, racchiuso soprattutto nell'Etica nicomachea. Questa visione del mondo, che contrappone la vita contemplativa a quella attiva, la ricerca disinteressata della verità al perseguimento dell'utile, si ritrova energicamente difesa nel libro di Robert e Edward Skidelsky, ma riappare anche in altre forme, per esempio nella critica romantica e comunitaria alla logica del mercato, un fiume carsico sempre esistito e sempre riemergente, ma che ha tratto speciale vigore dalla globalizzazione prima (dalla fine degli anni Ottanta), e dal suo presunto fallimento poi, ovvero a partire dal 2007. Ne sono testimoni, in Europa, autori come il filosofo-sociologo polacco Zygmunt Bauman, instancabile censore della modernità e della mercificazione; e in America i pensatori del filone comunitario, come il filosofo morale Michael Sandel, autore di una importante opera antiliberale e neoaristotelica sulla teoria della Giustizia (Justice: What's the Right Thing to Do?), nonché di un libro contro il mercato, significativamente intitolato: What Money Can't Buy: The Moral Limits of Markets.

Vista da questa angolatura, la crisi del 2007-2013 si presenta soprattutto come un'occasione mancata. In una recente intervista rilasciata al quotidiano "la Repubblica",4 per esempio, Sandel si dichiara deluso che lo shock della crisi non abbia insegnato niente:

Anch'io ho creduto che [la crisi] poteva segnare la fine della fiducia acritica nei mercati. Invece c'è stata solo una discussione molto angusta sulle regole della finanza. Non abbiamo avuto un dibattito pubblico su un tema fondamentale: in che misura i mercati servono l'interesse generale. Il potere del pensiero mercatista, la sua forza anche nell'immaginazione popolare, non si limita alla convinzione che il mercato crea benessere. C'è di più: lo associa a un'idea di libertà. È un inganno. ... Abbiamo bisogno di un vigoroso dibattito pubblico che affronti il significato di una vita buona, ne abbiamo bisogno eticamente.

Personalmente, trovo che vi sia molto di ragionevole nella critica romantica alla logica del mercato, e che il revival aristotelico in filosofia morale non sia né casuale né ingiustificato. Che il nostro modo di vita abbia da tempo, e ben prima della crisi, imboccato una strada pericolosa è abbastanza evidente, e diventa del tutto chiaro appena alziamo la testa sopra l'orizzonte delle nostre società opulente (Galbraith), omologate (Marcuse), consumiste (Baudrillard), e in definitiva "arrivate".5 Lo ha fatto di recente il grande geografo e antropologo Jared Diamond in uno straordinario libro intitolato Il mondo fino a ieri, che mostra in modo plastico, attraverso un confronto fra i modi di vita di decine di comunità, grandi e piccole, moderne e tradizionali, quante cose le società avanzate abbiano da imparare (oltre che da insegnare) rispetto a quelle arretrate, e quanto le prime risultino eccentriche, specialissime, per non dire strane, o WEIRD, una parola inglese che è anche l'acronimo di Western, Educated, Industrialized, Rich, Democracies. E anche nella letteratura non mancano i ritratti critici del nostro modo di vivere, di studiare, di lavorare, di consumare, di competere.6

C'è un punto, tuttavia, in cui la critica romantica del mercato non mi convince, ed è la sua generalità, o forse sarebbe meglio dire il suo carattere generico e sommario. Dire che la crescita è finita, il mercato ha fallito, e che dobbiamo fare tesoro di questo fallimento per ripensare i nostri modi di vita, è un modo semplicistico di vedere le cose.

Intanto non è vero che il mercato abbia fallito, o meglio non è vero per tutti. Negli ultimi 25 anni, dalla caduta del Muro di Berlino a oggi, la globalizzazione dei mercati ha permesso ad alcuni miliardi di persone di uscire dalla miseria. E anche negli anni della crisi, il resto del mondo (tutte le economie eccetto quelle "avanzate" dei 34 paesi OCSE) ha continuato a crescere a un ritmo sostenuto, superiore al 3% annuo. La crisi e la sua durata, in altre parole, non sono un problema del mercato in generale, bensì delle società avanzate. Sono i paesi OCSE che sono rimasti intrappolati nella crisi e stentano a uscirne.

Ma neppure questo è del tutto esatto. Dopo la prima recessione, quella del 2008-2009, e nonostante la ricaduta del 2011 (il temuto double dip, o "doppio tuffo"), la maggior parte dei paesi OCSE ha ripreso a crescere, sia pure a un ritmo minore che in passato. Nel quadriennio 2010-2013 il PIL pro capite di Turchia, Estonia e Cile è cresciuto a un ritmo prossimo al 4.5%, quello di Corea, Slovacchia, Polonia intorno al 3%, quello di Germania, Giappone, Israele, Svezia, Messico intorno al 2%, quello di Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Austria, Svizzera sopra l'1%. Si tratta di 17 paesi in tutto, la metà esatta dei paesi OCSE, che non sono in stagnazione.

Il problema, dunque, riguarda i restanti paesi OCSE, i quali si dividono nitidamente in due gruppi: 11 paesi in stagnazione, che crescono ma a un ritmo inferiore all'1%, e 6 paesi in recessione permanente, che negli ultimi quattro anni hanno avuto un tasso di crescita negativo (minore di -0,5%). Questo significa che il problema vero, l'incapacità di uscire dalla trappola della crisi, riguarda essenzialmente una piccola frazione delle economie avanzate, che a loro volta rappresentano una piccola frazione delle economie coinvolte nei processi di globalizzazione. I paesi "intrappolati", in definitiva, sono solo i 4 PIGS "mediterranei" (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) più 2 piccoli paesi europei, la Slovenia e il Lussemburgo.

Che cosa hanno in comune i 6 paesi intrappolati?

Non certo il livello del reddito, nel gruppo ci sono infatti paesi ricchi (Lussemburgo e Italia) e paesi poveri (Portogallo e Slovenia). E neppure la qualità dei fondamentali economici (quelli della Slovenia sono buoni, quelli dell'Italia sono cattivi). L'unico elemento comune ai 6 paesi è il fatto che all'inizio della crisi (2008) facevano già tutti parte dell'eurozona, una caratteristica condivisa con i tre più lenti fra gli 11 paesi in stagnazione, ossia Olanda, Belgio e Irlanda. In breve: i 9 paesi OCSE a crescita più lenta (negativa o vicinissima a zero) sono tutti nell'eurozona, mentre nessuno dei 9 paesi a più alta crescita ne fa parte.

Sembrerebbe, dunque, che dopo il 2007 nell'equazione della crescita di un paese abbia fatto irruzione una nuova variabile, che prima non contava affatto: avere o non avere una Banca centrale nazionale o, il che è lo stesso, stare fuori o dentro l'eurozona. E in effetti le cose stanno proprio così. Negli ultimi 4 anni di crescita pre-crisi (2004-2007) i paesi con l'euro e quelli senza erano divisi da un gap di crescita di circa 0,4 punti (a favore dei paesi non euro), nel quadriennio 2010-2013 il gap si è allargato enormemente, portandosi a oltre 2 punti.

Si potrebbe supporre che questo risultato dipenda da un unico paese dell'euro, la Grecia, il cui tasso di crescita ha avuto un vero e proprio tracollo (-5,6% all'anno negli ultimi 4 anni), o che le differenze di crescita fra paesi euro e non-euro siano in realtà dovute ad altre variabili che influenzano la crescita, come il livello di benessere e la qualità dei fondamentali economici. Ma non è così: ristimando l'equazione della crescita limitatamente al quadriennio 2010-2013, l'effetto euro permane: la crescita dipende positivamente da buoni fondamentali (specialmente la qualità delle istituzioni di mercato), ed è ostacolata sia dal benessere sia dall'appartenenza all'eurozona.7

Quest'ultima variabile, l'appartenenza all'eurozona, verosimilmente altro non è che una rozza misura del rischio di mancata restituzione dei debiti, pubblici e privati. Se un paese appartiene all'eurozona e non ha buoni fondamentali, viene percepito come potenzialmente insolvente, perché dietro di esso non vi è una Banca centrale pronta a fungere da prestatore di ultima istanza. Di qui la pressione congiunta di mercati e istituzioni europee perché il paese stesso riduca deficit e debito, di qui le politiche di austerità, di qui una permanenza più lunga nel limbo dei paesi in decrescita.

Quindi, ricapitolando: il resto del mondo continua a crescere, anche le società avanzate (i paesi OCSE) hanno ripreso più o meno faticosamente a farlo, restano indietro solo un piccolo numero di paesi europei, affetti da mali di diversa natura ma tutti accomunati dalla loro appartenenza all'eurozona.

Dobbiamo concludere che l'era della crescita non è affatto finita?

Non esattamente. Il fatto che la maggior parte dei paesi del mondo sia sostanzialmente fuori dalla recessione non cancella il fatto che il tasso di crescita delle economie avanzate risulta sempre più lento. Nei primi 3 anni del decennio attuale, dal 2011 al 2013, l'insieme dei 34 paesi OCSE è cresciuto a un tasso medio annuo dello 0,9%, che è già un ritmo di stagnazione. Dieci anni prima, nel triennio 2001-2003, cresceva a un ritmo circa doppio, pari all'1,7%, il che pare confermare l'osservazione con cui abbiamo aperto questo libro: il tasso di crescita delle economie avanzate diminuisce di circa 1 punto ogni decennio.8 Vista in questa prospettiva, la stagnazione attuale non appare il frutto imprevisto di una crisi durata troppo a lungo, ma l'esito finale di un processo iniziato oltre mezzo secolo fa, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta. La vera novità, rispetto agli anni pre-crisi, è che ora le economie avanzate appaiono molto più polarizzate che in passato: la crisi ha lasciato sostanzialmente invariata la tendenza al declino delle economie avanzate considerate nel loro insieme, ma ha aumentato fortemente la divaricazione, al loro interno, fra paesi euro e paesi non-euro.9 Forse, più che chiederci quando usciremo dalla crisi, dovremmo domandarci se non ne siamo già usciti, e se la ragione per cui continuiamo a pensarci dentro di essa è che eravamo abituati a tassi di crescita sensibilmente superiori. Quando il tasso di crescita medio di un gruppo di paesi relativamente eterogeneo scende al di sotto dell'1%, è fisiologico che vi sia sempre qualche paese in recessione, e diventa difficile distinguere fra recessione, crescita zero e stagnazione.

Detto ancora più crudamente. Per paesi come Grecia, Spagna, Italia, Portogallo ha perfettamente senso chiedersi quando usciranno dalla recessione, perché la loro crescita è da anni negativa, ma per la maggior parte dei paesi OCSE la vera domanda è un'altra: torneranno mai ai ritmi di crescita del passato?