IX

 

Ottimisti e pessimisti: la matematica della crescita

 

Prima di affrontare la nostra domanda - cresceremo ancora? - dobbiamo volgere brevemente lo sguardo alla storia dell'economia. Anche se sotto nomi diversi, il problema della crescita è sempre stato al centro della riflessione economica. E fin dall'inizio gli economisti sono sempre stati divisi in due fazioni: da una parte gli ottimisti, che vedono la crescita come un processo capace di autoalimentarsi senza fine; dall'altra i pessimisti, che la vedono invece come un processo che incontra ostacoli sempre più grandi, e dovrà quindi prima o poi interrompersi.

Certo, ci sono state epoche in cui prevalevano nettamente i pessimisti: era così nel cuore dell'Ottocento, a dispetto della rivoluzione industriale e dell'impetuoso sviluppo del capitalismo. E ci sono state altre epoche, per esempio la seconda metà del Novecento, in cui a prevalere erano gli ottimisti, affascinati dall'idea di una crescita costante delle economie, e preoccupati semmai degli squilibri che la crescita talora portava con sé. Ma non credo sia mai esistita un'epoca in cui gli uni o gli altri fossero completamente assenti dalla scena. E anche se non sono mancate figure di tipo scettico o agnostico - né ottimisti né pessimisti - ogni epoca ha avuto i suoi drappelli, più o meno nutriti, di ottimisti e di pessimisti.

È stato così fin dai tempi dei classici, agli albori della scienza economica. Era ottimista Adam Smith, il fondatore dell'economia politica, che vedeva nella crescente specializzazione e divisione del lavoro un fondamentale fattore di accrescimento della "ricchezza delle nazioni". E, a suo modo, era ottimista anche Marx, forse l'autore che più di qualsiasi altro è stato capace di descrivere lo slancio del capitalismo, la sua forza dirompente, la sua tendenza a superare ogni ostacolo. È vero, Marx prevedeva anche la fine del capitalismo e il suo superamento da parte del comunismo, ma concepiva questo evento essenzialmente come un brusco trauma politico-sociale - la rivoluzione proletaria - non certo come un lento spegnersi della crescita.

Erano invece pessimisti Thomas Malthus, David Ricardo e tutto sommato anche John Stuart Mill. Per loro, non meno che per i loro successori marginalisti o "neoclassici", l'economia era la scienza delle risorse scarse, e nulla faceva presagire che la rivoluzione industriale potesse durare all'infinito: prima o poi la terra, le miniere, le risorse naturali si sarebbero esaurite. Come ci ricorda David Warsh nella sua brillante ricostruzione della storia delle idee sulla crescita, a metà Ottocento gli economisti classici erano già arrivati al concetto di "stato stazionario", a immaginare, come ebbe a scrivere John Stuart Mill, "un paese che abbia alla fine raggiunto pienamente il livello di ricchezza compatibile con il sistema delle sue leggi e delle sue istituzioni". Racconta David Warsh:

L'Olanda veniva spesso citata come esempio di nazione che aveva raggiunto questo limite naturale della sua ricchezza. Si aveva cioè l'impressione che, alternando brevi periodi di crescita con altrettanto limitati periodi di recessione, l'Olanda rimanesse di anno in anno praticamente nella stessa posizione, cioè senza diventare né più ricca né più povera. ... I teorici della metà del diciannovesimo secolo avevano familiarità con la prospettiva dell'esistenza di uno stato "maturo" della società.1

Ma gli economisti sono economisti. Quindi non si accontentano di esprimere i loro stati d'animo e le loro visioni del futuro dell'umanità, ma cercano di argomentare i rispettivi pessimismi e ottimismi. Lo facevano già ai tempi di Malthus, e lo faranno sempre di più nei due secoli che ci separano dal suo celebre Saggio sul principio di popolazione, uscito nel 1798. In esso Malthus argomentò il suo pessimismo sul futuro dell'economia con un preciso ragionamento matematico, uno dei primi esercizi di questo tipo in campo economico. Secondo Malthus, le risorse tendono a crescere secondo una progressione aritmetica: 1, 2, 3, 4, 5...; mentre la popolazione tende a crescere secondo una progressione geometrica: 1, 2, 4, 8, 16... Di qui una diminuzione costante della quantità di risorse per abitante, e un futuro di impauperimento crescente.

Sulla stessa lunghezza d'onda, vent'anni dopo, si muove David Ricardo, cui si deve il cosiddetto "modello del grano", una delle prime rappresentazioni formali del processo economico dopo il celebre Tableau di Quesnay, nonché la prima formulazione della "legge dei rendimenti decrescenti": a ogni apporto di un'ulteriore unità di un fattore produttivo - terra, lavoro o capitale - corrisponde un aumento via via minore del prodotto. Secondo Ricardo, la messa a coltura di terreni sempre più poveri, di giacimenti e miniere sempre meno ricche, non potrà che condurre l'economia verso la stagnazione.

Al pessimismo dei modelli di Malthus e di Ricardo si contrappongono le celebri equazioni con cui Marx, nel secondo libro del Capitale, descrive i meccanismi della "riproduzione" (semplice e allargata) dei due settori fondamentali dell'economia, quello che produce beni di consumo e quello che produce beni capitali. Pur consapevole della ricorrente possibilità di crisi, Marx vede nell'accumulazione di capitale e nel progresso tecnico le forze fondamentali2 in grado di allargare la scala della produzione, almeno finché il proletariato non provvederà a fermare il gioco.

Dunque gli economisti, già nella prima metà del XIX secolo, portano argomentazioni analitiche a sostegno delle loro visioni del futuro. E da allora continueranno a farlo senza sosta, sorretti dallo spettacolare affinamento degli strumenti matematici dell'economia e dell'econometria. La discussione fra ottimisti e pessimisti uscirà sempre più dai registri della letteratura, della filosofia della storia, o della semplice osservazione della realtà, per assumere un contenuto tecnico-matematico via via più marcato. Ma il fatto notevole è che, fondamentalmente, il nucleo di tutta la discussione ruoterà intorno a un unico nodo, a un unico grande interrogativo, da cui in ultima analisi tutto dipende: i rendimenti dei fattori del processo produttivo3 sono crescenti o decrescenti?

Per rendimenti decrescenti si intende una situazione simile a quella di un campo di grano, di una miniera, o di un pozzo di petrolio: applicando input crescenti (per esempio lavoro) al processo di estrazione, il prodotto - ossia il materiale estratto - aumenta, ma lo fa in misura sempre minore. Per rendimenti crescenti si intende una situazione simile a quella di una fabbrica moderna, in cui il lavoro è scientificamente organizzato e rigorosamente diviso: aumentando la scala della produzione, migliorano l'organizzazione e la tecnologia, e il numero di "pezzi" per lavoratore aumenta. È chiaro che in un mondo in cui prevalgono i rendimenti decrescenti il prodotto per occupato tende a crescere a un ritmo sempre più lento, fino al completo arresto. In un mondo in cui prevalgono i rendimenti crescenti, invece, il prodotto per occupato aumenta illimitatamente, e la crescita può continuare indisturbata. Ecco perché la discussione fra pessimisti e ottimisti ha finito, fin dai tempi di John Stuart Mill, per assumere le vesti di una discussione sulla funzione di produzione, ossia sull'equazione che collega gli input agli output del processo produttivo.

Se la funzione è a rendimenti decrescenti, com'era in Ricardo e come sarà in Solow, il futuro della crescita è a tinte fosche, e la traiettoria del reddito pro capite che possiamo aspettarci è simile4 a quella della figura seguente, che rappresenta un processo di crescita che incontra un tetto.

Figura 15 - Crescita del reddito pro capite con il modello neoclassico (curva di Solow)

 

 

 

La chiamerò "curva di Solow" (figura 15).

Se invece i rendimenti sono crescenti, come sosterranno soprattutto i teorici della "crescita endogena", il processo di aumento del reddito pro capite non incontra alcun limite particolare, perché il progresso tecnico e la diffusione della conoscenza sono sempre in grado di rendere più efficienti i processi produttivi, migliorare i prodotti, immettere sul mercato nuovi beni e servizi. Il futuro della crescita è roseo, e la traiettoria del reddito pro capite è quella di una curva che va all'infinito.

La chiamerò "curva di Romer" (figura 16), dal nome dello studioso che, negli ultimi trent'anni, più di ogni altro ha contribuito a diffondere l'idea che la conoscenza sia un bene speciale,5 capace di apportare vantaggi a tutta l'umanità e di rendere permanente la crescita.

Arrivati a questo punto, la domanda è la seguente: che cosa è ragionevole aspettarsi per il futuro delle economie avanzate? Un futuro alla Solow o un futuro alla Romer?

Figura 16 - Crescita del reddito pro capite con il modello AK (curva di Romer)

 

 

 

Per capire il meccanismo che governa le due curve faremo riferimento ai due più semplici modelli in grado di generarle: il modello di Solow senza progresso tecnico e il modello AK nella sua versione più elementare. I due modelli hanno in comune sette assunti molto semplici e intuitivi (vedi box), ma differiscono fra loro su un punto cruciale, ossia sulla forma esatta della funzione di produzione.

Che cos'è la funzione di produzione? La funzione di produzione è un'equazione6 che descrive in modo sintetico e compatto come varia il prodotto aumentando o diminuendo i fattori produttivi, tipicamente capitale e lavoro.

Ora il punto interessante è che, combinando tra loro gli assunti, e specificando la forma esatta della funzione di produzione, è possibile ricavare le equazioni che descrivono come il sistema economico evolverà nel tempo. Questo tipo di equazioni si chiamano "equazioni di moto", e permettono di studiare la traiettoria futura di tutte le variabili del modello, nel nostro caso capitale, lavoro e reddito.7 Conoscendo i valori iniziali di tali variabili, nonché i valori dei parametri che caratterizzano il sistema, è possibile simularne il futuro e quindi rispondere alla domanda: la crescita si fermerà oppure no?

Modello di Solow e modello AK

 

 

ASSUNTI COMUNI

Assunto 1. Il prodotto Y, ossia il reddito nazionale o output dell'economia, si divide in consumo e investimento: Y = C + I.

Assunto 2. Le dimensioni del prodotto Y (quanto reddito si produce) dipendono dalle quantità di lavoro (L) e di capitale (K) immesse nel processo produttivo: Y = f(K, L).

Assunto 3. La funzione di produzione f(K, L), ossia la tecnologia con cui si produce, è "omogenea di grado 1".Si tratta di un assunto un po' tecnico, che in sostanza significa questo: se si raddoppiano, triplicano, quadruplicano, entrambi i fattori produttivi (ossia il capitale K e il lavoro L) l'output a sua volta raddoppia, triplica, quadruplica. Si può anche dire che i rendimenti di scala (da non confondersi con la produttività marginale dei singoli fattori) sono costanti.8

Assunto 4. Ogni anno lo stock di capitale preesistente diminuisce di una frazione costante (d), per esempio del 5%, ossia si logora e si deprezza.

Assunto 5. Ogni anno una frazione costante (s) del prodotto Y viene risparmiata e investita, e va quindi ad aumentare lo stock di capitale.

Assunto 6. La forza lavoro cresce a un tasso costante (n) e viene completamente utilizzata nel processo produttivo.

Assunto 7. La funzione di produzione è una Cobb-Douglas:

Y = A Ka L(1 - a)

 

dove A è un fattore di scala che dipende dalle unità di misura di Y, K e L, mentre a è un parametro che esprime l'importanza relativa del capitale nel processo produttivo ovvero la sua produttività marginale.

ASSUNTI DISTINTI

- modello di Solow: 0 < a < 1

- modello AK: a = 1

Per a = 1 la funzione Cobb-Douglas coincide con il modello AK. Infatti:

Y = A Ka L(1 - a) = A K1 L(1 - 1) = A K1 · L0 = A K

 

I primi a condurre questo genere di esercizio furono, come abbiamo già ricordato, Robert Solow e Trevor Swan, che nel medesimo anno e indipendentemente l'uno dall'altro formularono sostanzialmente il medesimo schema di analisi, in due articoli usciti entrambi nel 1956. Di tutta questa elaborazione, tuttavia, nelle discussioni dei decenni successivi è sopravvissuto soprattutto un pezzo particolare, ossia quella parte del saggio di Solow in cui:

a) non si introduce ancora il progresso tecnico;

b) si adotta una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas (vedi box).

Torneremo fra poco su questa scelta della funzione di produzione. Per ora basterà dire che, nella funzione Cobb-Douglas, esiste un parametro cruciale (lo chiameremo a) che determina l'importanza relativa del capitale e del lavoro nel generare l'output: se a si avvicina a 1 il capitale è molto più importante del lavoro, se a si avvicina a 0 è il lavoro a essere importante. Nel suo modello, Solow si limita ad assumere che a sia compreso fra 0 e 1, una scelta apparentemente innocente ma che in realtà ha un'implicazione cruciale: con a compreso fra 0 e 1 la produttività marginale di entrambi i fattori - capitale e lavoro - risulta decrescente, il che significa che incrementi unitari di un singolo input si traducono in incrementi sempre minori dell'output. Insomma, è sempre più difficile "spremere" le macchine e gli uomini per estrarne un prodotto.

Sotto queste ipotesi, Solow è in grado di individuare le "equazioni di moto" del sistema economico,9 fra cui quella che governa la crescita del reddito per addetto (y), una misura concettualmente molto simile al nostro reddito per abitante, o benessere.10

Da questa equazione è possibile, con alcuni passaggi matematici,11 ricavarne un'altra, che interessa più direttamente il nostro discorso:

 

 

L'equazione collega due grandezze fondamentali, evidenziate in grassetto: il livello del reddito per abitante al tempo t (yt) e il suo tasso di crescita fra il tempo t e il tempo t + 1(gt). Come si vede, l'equazione implicita nel modello di Solow non è altro che una forma possibile dell'equazione della crescita, non molto diversa da quella con cui abbiamo lavorato nella prima parte di questo lavoro12 (vedi capitoli IV e V). Più esattamente, l'equazione di Solow ci restituisce il nucleo dell'equazione della crescita, ovvero ci dice che cosa succede in un singolo paese se fra le determinanti della crescita consideriamo solo il reddito per abitante.

Poiché a destra del segno di uguale compaiono solo yt e i tre parametri13 B, D e a, che si suppongono noti, l'equazione afferma che, conoscendo il valore assunto dal reddito per abitante in un dato anno (yt), è possibile ricavare il suo tasso di crescita fra l'anno corrente e l'anno successivo (gt). E ovviamente - combinando le due informazioni - diventa possibile calcolare anche il reddito che verrà prodotto nel nuovo anno: se so che il reddito oggi è 20.000 dollari, e crescerà del 5% in un anno, è immediato calcolare che il reddito dell'anno prossimo sarà di 21.000 dollari, ossia 20.000 più il 5% di 20.000. Da qui posso ripartire per calcolare il nuovo tasso di crescita e il reddito che ne deriverà l'anno successivo ancora. E così via indefinitamente, fino a tracciare l'intera storia futura del reddito.

È importante notare una cosa, però. I valori dei tre parametri a, B, D non sono completamente liberi, perché essi hanno una precisa interpretazione economica, che ne limita il campo di variazione. Il parametro a rappresenta la produttività marginale del capitale (la sua importanza relativa rispetto al lavoro), che, come abbiamo visto, deve essere compresa fra 0 e 1. I due parametri B e D, a loro volta, dipendono da altre costanti del modello (tasso di crescita della popolazione, tasso di risparmio, deprezzamento del capitale, unità di misura del reddito e dei fattori produttivi) che impongono a B di essere positivo e a D di essere negativo.14 Detto altrimenti, se si accettano gli assunti economici del modello di Solow, a deve giacere fra 0 e 1, B deve essere maggiore di zero, D deve essere minore di zero.

Di qui una conseguenza molto importante: se il parametro a è compreso fra 0 e 1, l'esponente di y è necessariamente negativo, e poiché B è positivo ciò implica che la relazione fra reddito pro capite e tasso di crescita sia inversa: più alto è il reddito pro capite e più lentamente cresce l'economia. Proprio il risultato che noi abbiamo già trovato nei capitoli precedenti, quando abbiamo cercato di identificare le forze e le controforze che governano la crescita.

Non è tutto. L'equazione di Solow permette anche di stabilire se esiste un punto di arresto, oltre il quale l'economia non cresce più, nonché di tracciare la curva che descrive la traiettoria del sistema nel tempo, in base al suo reddito di partenza e ai suoi parametri caratteristici.

Ebbene, il risultato sconcertante ottenuto da Solow nel 1956 è che, in assenza di progresso tecnico, il sistema è destinato a fermarsi, perché l'accumulazione di capitale ha un tetto oltre il quale non può andare, e quando l'accumulazione si ferma anche il reddito pro capite è destinato a non crescere più. Il processo di crescita, in altre parole, assume necessariamente la classica forma concava,15 con un asintoto superiore o "tetto", che abbiamo denominato curva di Solow e illustrato più sopra (vedi figura 15). Nel caso del reddito pro capite, tale tetto è dato dall'espressione:

y* = (- D / B)a/(a - 1)

 

dove y* è appunto il tetto, o soffitto, o reddito di arresto. Raggiunto y*, la torta del reddito nazionale non aumenta più, e la crescita del benessere si ferma per sempre. Con Solow, o meglio con il suo modello di crescita senza progresso tecnico, i pessimisti hanno trovato un modello che illustra perfettamente la loro visione delle cose.

E gli ottimisti?

Per passare dal pessimismo all'ottimismo, basta cambiare un piccolo dettaglio. Manteniamo tutti e sei i nostri assunti, compreso quello sulla forma generale della funzione di produzione, che anche qui sarà a rendimenti di scala costanti (assunto 3). Ma anziché usare una funzione di produzione in cui la produttività marginale del capitale è decrescente (come la Cobb-Douglas) ne usiamo una in cui non lo è. Più esattamente, usiamo una funzione di produzione in cui il prodotto Y è strettamente proporzionale allo stock di capitale:

Y = AK

 

Siamo entrati, come si vede, nel regno dei "modelli AK", che si chiamano così proprio perché si basano sull'assunto di stretta proporzionalità fra capitale e prodotto, dove Y è il prodotto, K è il capitale, e A è la costante di proporzionalità che li collega, trasformando il capitale in prodotto. Nelle economie moderne l'ordine di grandezza di tale costante, talora denominata "output-capital ratio" (rapporto fra valore dell'output e reddito) è tipicamente compresa fra 1 / 2 e 1 / 3, il che in concreto significa che ci vogliono da 2 a 3 unità di capitale per produrre 1 unità di reddito.16

Una funzione del genere dice che, se aumento lo stock di capitale - poniamo - del 7%, anche l'output prodotto aumenterà del 7%. È come affermare che, ai fini della produzione, conta solo il capitale e non il lavoro. Non importa quanto lavoro entra nel processo produttivo, conta solo quanto capitale viene immesso o, se preferite, con quanto capitale è equipaggiata ogni unità di lavoro. Un modo molto semplice ed elegante di arrivare al modello AK è di partire dalla funzione di produzione Cobb-Douglas (quella del modello di Solow) e attribuire al parametro a, che misura l'importanza relativa del capitale, il valore limite di 1 (vedi box).17

Non resta, a questo punto, che rifare i calcoli e vedere che cosa succede. Si tratta, cioè, di ripetere esattamente il procedimento seguito da Solow nel suo articolo del 1956, usando però la più semplice funzione AK al posto della più complessa funzione Cobb-Douglas.

Ebbene, il risultato è di una sconcertante semplicità. L'equazione che descrive la legge di movimento del reddito pro capite, o benessere, assume una forma semplicissima:18

gt = B + D = costante

 

Il punto da notare è che, in questa equazione, è del tutto sparito il reddito pro capite y. L'equazione, in altre parole, contiene solo i parametri B e D, che sono delle costanti. Questo equivale a dire che il reddito pro capite y cresce a un tasso costante. Se, per esempio, la somma B + D vale 0,03, significa che il reddito pro capite y cresce a un tasso annuo pari a 0,03, ossia al ritmo del 3%. Attenzione, però: un tasso costante, non un tasso dipendente dal livello di benessere già raggiunto, e tantomeno un tasso decrescente al crescere del reddito, com'era nel modello di Solow. Ma crescita a un tasso costante, se il tasso è positivo, significa che non c'è un tetto. Crescita senza limite. Crescita perpetua. Crescita per sempre.

E così, con una piccolissima mossa, quella di assegnare al parametro a il valore 1, anche gli ottimisti hanno ottenuto quello che volevano: ora il sistema evolve secondo la curva di Romer, senza tendere a uno stato stazionario (vedi figura 16).

Il modello AK è solo un esempio, il più elementare, delle strategie con cui gli ottimisti hanno provato a rovesciare le fosche previsioni dei pessimisti.19 Come tale può apparire irrealistico, ma lo è meno di quanto appaia a prima vista. Ci sono vari modi per renderlo plausibile, ma il più semplice è di reinterpretare il termine K come misura non solo del capitale in senso classico (macchinari, attrezzature, stabilimenti...) ma di tutto il capitale, fisico, umano e immateriale, lasciando al termine L solo il significato di forza lavoro per così dire "bruta", al netto della sua qualificazione, interamente incorporata nel capitale K. Se K rappresenta il capitale in senso lato, si può anche immaginare che quel che conta per generare reddito non sia il numero di braccia impiegate, ma il grado di qualificazione dei lavoratori e il livello delle tecnologie adottate nel processo produttivo.20 Questa interpretazione del modello AK è stata autorevolmente proposta dal premio Nobel Robert Lucas nel 1988, in un famoso articolo dal titolo On the Mechanics of Economic Development.

Un'altra giustificazione del modello AK e del suo assunto di proporzionalità fra capitale e prodotto è basata sul concetto di "esternalità positive", un'idea che risale ad Alfred Marshall. Un'esternalità positiva è, in sostanza, un vantaggio che un'impresa riceve senza sostenere direttamente un costo: può essere una nuova infrastruttura che la collega meglio ai mercati di sbocco o di rifornimento, oppure l'acquisizione di un lavoratore i cui costi di formazione sono stati sostenuti da un'altra impresa, o ancora la scoperta più o meno casuale di migliorie nel processo produttivo. Se ci sono esternalità di questo tipo può succedere che la produttività marginale del capitale nella singola impresa continui a seguire la legge dei rendimenti decrescenti, ma che nell'economia considerata nel suo insieme i rendimenti siano costanti, o addirittura crescenti. Questa idea, dopo Marshall, è riemersa più volte come un fiume carsico nella storia del pensiero economico. Negli anni Venti del XX secolo con Allyn Young e il suo famoso saggio Increasing Returns and Economic Progress; negli anni Sessanta con Kenneth Arrow e il suo concetto di learning by doing, ma anche con Marvin Frankel, autore di un modello AK che ambisce a combinare i vantaggi dei modelli di Harrod-Domar e di Solow-Swan. E infine negli anni Ottanta con Paul Romer e i suoi modelli di crescita endogena basata sulla diffusione della conoscenza.

Nei contributi precedenti le esternalità sono perlopiù pensate come effetti involontari o non intesi, come opportunità di miglioramento dell'efficienza del capitale non deliberatamente perseguiti. Ma c'è anche un altro filone della letteratura sulle esternalità, che non le pensa come un pasto gratis che sbuca dal nulla, bensì come risultato di interventi intenzionali, dei privati e soprattutto dello Stato, volti ad aumentare l'efficienza dei processi produttivi e a inventare nuovi prodotti. Questa linea di pensiero individua nel settore della ricerca e sviluppo lo strumento che può vincere il trend decrescente della produttività del capitale, trasformando i rendimenti decrescenti in rendimenti costanti o addirittura crescenti. Anche in questo caso un impulso fondamentale è arrivato dagli studi di Paul Romer, presto seguiti da altri studi sul ruolo degli investimenti in ricerca e sviluppo.21

La controversia fra modelli neoclassici alla Solow, basati sui rendimenti decrescenti, e modelli di crescita endogena alla Romer, basati su rendimenti costanti o addirittura crescenti, è tuttora in corso e divide gli economisti,22 anche per i suoi più o meno nascosti risvolti politici. Le teorie di crescita endogena hanno esercitato un forte appeal non tanto per il loro ottimismo, ma perché hanno aperto un enorme spazio all'intervento della politica nell'economia, contribuendo a diffondere l'idea che l'intervento pubblico potesse aiutare in modo sostanziale lo sviluppo economico con gli incentivi e l'offerta di ogni genere di bene pubblico: più istruzione, più salute, più fondi alla ricerca, più infrastrutture materiali e immateriali. La loro filosofia è sostanzialmente keynesiana, ed entra in felice risonanza con le teorie dell'intervento pubblico.

Il successo delle teorie di crescita endogena, tuttavia, non ha segnato la sconfitta definitiva del pessimismo neoclassico. C'è un punto, infatti, su cui il pessimismo neoclassico si rovescia in ottimismo, mentre il contrario succede all'ottimismo dei modelli di crescita endogena, e in particolare dei modelli AK. I modelli alla Solow, è vero, prevedono un rallentamento della crescita, ma l'altra faccia del rallentamento - la faccia positiva - è la convergenza fra economie avanzate ed economie in via di sviluppo.23 È proprio perché l'investimento in capitale è a rendimenti decrescenti che le economie avanzate sono destinate a essere "agganciate" da quelle dei paesi arretrati: nelle economie avanzate la produttività del capitale cresce più lentamente che in quelle arretrate, e questo conferisce un vantaggio ai paesi meno ricchi. Nei modelli AK, invece, non c'è convergenza, né assoluta né condizionale (ossia a parità di caratteristiche di due economie): proprio perché il ritmo di crescita non dipende dal livello di reddito già raggiunto, un'economia in ritardo è destinata a rimanerlo per sempre, almeno finché non cambia i suoi fondamentali rendendoli migliori di quelli delle economie che insegue.

Così, alla fine del nostro viaggio, la teoria economica ci lascia con il dubbio da cui eravamo partiti: hanno ragione gli ottimisti o i pessimisti?

Sfortunatamente, la teoria economica non ha una risposta, ma ne ha due. E, cosa più grave, la scelta fra le due risposte è, per così dire, cablata negli assunti matematici della teoria. Basta cambiare il valore di un parametro nella funzione di produzione e tutto cambia, facendoci passare da una curva che implode (la curva di Solow) a una curva che esplode (la curva di Romer). Così, chi sceglie un modello di crescita neoclassico è inesorabilmente condotto a prevedere l'arresto della crescita, a meno di introdurre artificiosamente e dall'esterno una fonte inesauribile di progresso tecnico. Chi invece adotta un modello AK, o uno dei tanti modelli di crescita endogena, è altrettanto inesorabilmente condotto a profetizzare un futuro di crescita senza fine. Pessimismo e ottimismo dipendono da un minuscolo dettaglio della funzione di produzione. Un dettaglio su cui, di norma, gli economisti decidono a priori, in base alle loro preferenze teoriche, come un paziente che, conoscendo le inclinazioni dei suoi possibili medici o psicologi, li sceglie in base alla cura che intende farsi prescrivere.

È chiaro che è un vicolo cieco, e che dobbiamo trovare un'altra strada. Come dice un antico proverbio cinese: se vuoi entrare in un pentagono e non ci riesci da nessuno dei cinque lati, cerca il sesto.