Introduzione

 

 

Gli alberi non possono crescere fino al cielo.

DAVID WARSH (2006)

 

Avevo in mente un altro libro, anzi non avevo in mente nessun libro. Quando, quasi dieci anni fa, cominciai a lavorare sull'equazione della crescita, non pensavo affatto di scrivere qualcosa sull'argomento. Semplicemente mi ero incuriosito. Mi incuriosiva il fatto che, per tanti decenni, l'Italia fosse cresciuta di più della media delle altre economie avanzate, e invece da un po' di anni - più o meno dai primi anni Novanta del secolo scorso - crescesse di meno, molto di meno. Un handicap che il mio paese non poteva permettersi, né allora né oggi, dato l'enorme debito pubblico accumulato nel tempo, un debito che giusto negli anni della svolta, intorno al 1993-1994, aveva toccato il 120% del PIL.

Mosso da questa curiosità, decisi però di non seguire la strada degli economisti. Il problema degli economisti, infatti, è che di fronte alle grandi domande del nostro tempo (l'inflazione negli anni Settanta, la disoccupazione negli anni Ottanta, il ristagno oggi) non hanno una risposta, ma ne hanno molte. Troppe, e troppo diverse. E si capisce anche perché: a seconda della diagnosi, cambia la terapia, e le terapie non sono mai politicamente neutrali. Se sei di sinistra ti piacciono le terapie basate sull'espansione dello Stato sociale, quindi sarai keynesiano. Se sei di destra ti piacciono le terapie basate sulla riduzione delle tasse, quindi sarai friedmaniano. Se sei liberale ti piacciono le terapie basate sulla libera iniziativa e la contrazione dell'intervento statale, quindi sarai hayekiano. E infatti non esiste, in natura, un economista che abbia idee economiche in contrasto con il proprio orientamento politico, uno studioso che dica per esempio: io sono a favore dello Stato sociale, ma mi rendo conto che l'economia funziona come dice Hayek; o viceversa un soggetto che dica: a me piacerebbe abbassare le tasse e ridurre la spesa pubblica, ma mi rendo conto che l'economia funziona come dice Keynes. Miracolosamente, ogni economista ha le idee economiche che si attagliano alla sua ideologia politica, come un abito che aderisce perfettamente al corpo di chi lo indossa. E non occorre essere marxisti o psicologi per intuire in che direzione viaggi la causalità, se siano cioè le convinzioni teoriche che influenzano le ideologie, o siano viceversa le ideologie che - come una calamita - attirano le teorie più coerenti con le convinzioni politiche.

È proprio perché il nesso fra teorie economiche e politiche che ne conseguono è così stretto che gli economisti, ben più degli altri studiosi di scienze sociali, appaiono divisi in sette, che essi chiamano scuole. Ed è per lo stesso motivo che, considerata nel suo insieme, l'economia non ha una risposta sul problema della crescita, così come la religione non ha una risposta sul problema della divinità ma ne ha tante quante sono le religioni.

Ma se la teoria economica non poteva avere la risposta alle mie curiosità, dove andarla a cercare?

Fuori dalla teoria, più che fuori dall'economia. Nella vita, come nello studio, le circostanze contano. E le circostanze, nel mio caso, sono che faccio il sociologo, ho spesso lavorato con economisti, scienziati politici e psicologi, e insegno una materia che si chiama "analisi dei dati". Il mio lavoro, in altre parole, è raccogliere dati e analizzarli. Feci dunque quello che sono abituato a fare. Cominciai a raccogliere dati sul problema della crescita, certo guidato dalle teorie esistenti, ma senza un occhio di riguardo per alcuna di esse. In modo alquanto empirico, o eclettico, senza aderire ad alcun modello o spiegazione preesistente, ma anche senza escluderne alcuna. Dopotutto, il terreno non era riserva di caccia esclusiva degli econometrici e degli economisti applicati. Con lo studio empirico della crescita, specie dopo i fondamentali lavori di Robert Barro dei primi anni Novanta, si erano cimentate un po' tutte le discipline sociali, compresa la psicologia. E anche qui i risultati erano spesso discordanti, ma almeno potevano essere controllati, confrontati, affinati.

Diversamente da quanto di solito accade in questo genere di studi, tuttavia, decisi di concentrarmi su un periodo di anni non troppo lungo e su un ambito di paesi non troppo ampio. La mia domanda iniziale, infatti, era piuttosto circoscritta. Non volevo scoprire da che cosa, in generale, dipende la "ricchezza delle nazioni", come in tanti - da Adam Smith a Richard Lynn - avevano tentato di fare. No, volevo solo scoprire come mai, nell'ambito delle società avanzate, l'Italia era passata così repentinamente dai primi posti in classifica agli ultimi. Inoltre, contrariamente a quanto pensano altri studiosi, non sono affatto convinto che i meccanismi che governano la crescita siano uniformi, ossia gli stessi nello spazio e nel tempo. Di qui la scelta di lavorare solo sulle economie avanzate (gli attuali paesi OCSE, l'organizzazione che riunisce i paesi più sviluppati) e sull'ultimo periodo di crescita relativamente lungo e privo di crisi, i dodici anni che vanno dal 1995 al 2007.

Il risultato di questo lavoro, all'inizio condotto sporadicamente, poi in modo via via più sistematico, è condensato nell'equazione della crescita, che descrive in che modo, e in che misura, quattro differenti forze (z1, z2, z3, z4) e una singola "controforza" - il reddito di partenza y0 - influenzano il tasso di crescita (g) del reddito pro capite di un'economia:

g = f(y0, z1, z2, z3, z4)

 

L'equazione permette, conoscendo il valore delle quattro forze e della controforza, di prevedere molto accuratamente a che tasso si svilupperà un determinato sistema economico-sociale.

È stato a questo punto, quando ho avuto tra le mani l'equazione della crescita, che il libro che poteva essere è diventato un altro libro. Non dirò qui che cosa sono esattamente z1, z2, z3, z4, per non togliere al lettore il piacere di scoprirlo poco per volta, man mano che si inoltrerà nel testo, ma dirò solo perché - a questo punto - il libro che poteva essere è diventato un altro libro, un libro non previsto.

Osservando la struttura dell'equazione, notai un particolare che - stranamente - non pare aver finora attirato l'attenzione degli studiosi, nonostante esso fosse ben noto in quanto quasi sempre presente nella maggior parte degli studi di questo tipo. Provo a spiegarlo in modo informale. L'equazione della crescita contiene, a destra, un termine - il reddito iniziale y0 - che è fatto della stessa stoffa di g, il termine che compare a sinistra.

Che cos'è, infatti, g, ovvero il tasso di crescita?

Il termine g, nella maggior parte degli studi empirici sulle determinanti della crescita, non è altro che l'incremento percentuale medio annuo del reddito pro capite (y) in un certo periodo. In breve g, il tasso di crescita, è una funzione di y, il reddito, perché g altro non è che il tasso di crescita di y: se, in un dato anno, g vale 0,05, significa che - in quell'anno - il reddito (y) è cresciuto del 5%.

Il fatto che g e y siano collegati rende l'equazione della crescita potenzialmente "autonoma", ossia utilizzabile per fare delle previsioni sul futuro. In concreto: usabile per simulare la traiettoria di un sistema economico-sociale a partire da un certo punto nel tempo. Esattamente come facciamo quando calcoliamo la crescita del nostro capitale a partire da un certo investimento iniziale (y0) e un certo tasso di interesse annuo (r). Conoscendo il capitale iniziale e il tasso di interesse, possiamo determinare la traiettoria futura dei nostri risparmi.

È questa l'essenza della autonomia ("ricorsività", per i logici; "autoregressività" per gli statistici), che richiede soltanto che esista una regola, non importa quanto complessa, secondo cui lo stato del sistema al tempo t dipende dal suo stato al tempo t-1 (ed eventualmente dai suoi stati ancora più remoti). Nel caso dell'equazione della crescita tale dipendenza si presenta così: c'è un reddito pro capite di partenza y0; il reddito di partenza influenza - mediante l'equazione della crescita - il tasso di crescita iniziale g0; il tasso di crescita g0 determina il nuovo reddito y1; tale reddito - sempre mediante l'equazione della crescita - influenza il nuovo tasso di crescita g1; che a sua volta determina il nuovo reddito y2, e così via.

Naturalmente, per compiere questo piccolo gioco di prestigio in un campo complesso come quello della crescita, occorre accettare alcune ipotesi semplificatrici; per questo abbiamo detto che l'equazione della crescita è "potenzialmente" autoregressiva. Ma se siamo disposti ad accettarle - e vedremo che ci sono buone ragioni per accettarle - si può fare un esercizio: usare l'equazione della crescita per calcolare, paese per paese, come sarebbero andate le cose in futuro (ossia dopo il 2007) se nulla fosse cambiato nei meccanismi fondamentali del sistema, e inoltre ogni paese avesse mantenuto le caratteristiche strutturali che possedeva al termine dell'ultimo periodo di crescita (1995-2007). In altre parole: simulare il futuro delle economie avanzate sotto l'assunto ottimistico che nessuna crisi o shock fosse intervenuto a disturbarne il cammino.

È stato dopo aver condotto, paese per paese, queste "simulazioni del suo destino" che questo libro ha cambiato drasticamente forma. Mi sono reso conto, infatti, che a dispetto di tutte le medicine con cui ci illudiamo di poter stimolare la crescita, quella del reddito di partenza (y0) è di gran lunga la forza dominante che governa le traiettorie delle nostre economie. E tale forza gioca nettamente e pesantemente contro la crescita, e in questo senso è una controforza: un reddito di partenza elevato è un formidabile freno alla crescita, un freno che si può neutralizzare solo con enormi sforzi di trasformazione strutturale del sistema economico-sociale, ossia cercando di modificare le altre variabili (z1-z4) che influenzano la crescita. Si può interpretare il vento contrario del reddito pro capite in tanti modi, per esempio come contrazione dell'offerta di lavoro, o come eccesso di costi salariali, o come deficit di motivazione. Resta però il fatto che le società avanzate producono benessere, e il benessere contiene in sé le forze che rallentano la spinta al suo incremento.

Gli esercizi di simulazione condotti su ciascuno dei paesi OCSE a partire dalla situazione del 2007 (ultimo anno del periodo studiato) forniscono risultati drammatici, per non dire sconvolgenti. Il tasso di crescita medio delle economie avanzate era già avviato su un sentiero di declino di circa 1 punto al decennio, e questo significa che - anche senza la grande crisi iniziata nell'estate del 2007 - molte economie avanzate sarebbero comunque entrate in stagnazione in tempi relativamente brevi. Ma non basta: il nucleo dell'equazione della crescita rivela che, rebus sic stantibus (ossia: se non si fa nulla), ogni 10.000 dollari di reddito pro capite in più costano circa 1 punto di rallentamento del processo di crescita. Non ci sono abbastanza dati per stabilire con sicurezza se, alla fine del periodo da noi studiato, il mondo delle economie avanzate stesse scivolando verso un destino di stagnazione (ossia di crescita molto lenta, diciamo intorno all'1%), o fosse addirittura avviato verso un regime di crescita zero, ipotesi che a mio avviso appare più compatibile con i dati a nostra disposizione. Le simulazioni suggeriscono che la crescita di ogni paese abbia un suo tetto, tanto più basso quanto peggiori sono le sue istituzioni economiche e sociali (ossia le variabili z dell'equazione della crescita), e che - nel giro di un paio di decenni - la maggior parte dei paesi sarebbe comunque entrata in stagnazione. Insomma, se l'equazione della crescita è corretta, la crisi non sarebbe la causa del ristagno attuale, ma l'evento che ne ha anticipato i tempi, e ci avverte del pericolo prima che sia troppo tardi.

Questo significa, a mio parere, che sono irrealistici sia i modelli dominanti fra gli economisti, che per lo più ipotizzano una crescita illimitata del reddito pro capite, sia i modelli della ormai ricca tradizione ecologica, che vedono l'arresto della crescita come una conseguenza quasi meccanica dell'esaurimento delle risorse naturali.

No, se la nostra ricostruzione ha qualche fondamento, il vero nemico della crescita è la crescita stessa. È la crescita che ha ucciso la crescita. Il nucleo dell'equazione della crescita è il feedback negativo fra livello di benessere e spinta alla crescita. La crescita fa aumentare il benessere, ma l'aumento del benessere fa lievitare i costi di produzione e riduce gli incentivi a migliorare la propria condizione. Così la crescita prima rallenta, poi diventa stagnazione, e infine si arresta. È questo il meccanismo per cui, a parità di altre condizioni, i paesi più poveri crescono di più dei paesi più ricchi. Da questo punto di vista la teoria della crescita, più che dai modelli matematici degli economisti, spesso stregati dal sogno di una crescita illimitata, ha molto da imparare dalla vastissima letteratura matematico-statistica sulla dinamica delle popolazioni. Qui l'idea centrale è che la crescita di una popolazione, sia essa di piante, batteri, salmoni o tigri, debba comunque incontrare un limite ben preciso. In alcuni modelli tale limite è costituito dal carattere finito di alcune risorse dell'ambiente: una popolazione di ninfee in un laghetto non può raddoppiare ogni notte per sempre, perché a un certo punto riempirà tutta la superficie del laghetto e non avrà più spazio per crescere. In altri modelli, come le equazioni di Lotka e Volterra, che descrivono l'interazione fra una popolazione di prede e una popolazione di predatori, è il comportamento stesso di una delle popolazioni che ne limita la crescita: i predatori hanno bisogno delle prede per riprodursi, ma a forza di divorare le loro prede non hanno cibo sufficiente per continuare a crescere, così cominciano a diminuire di numero, fino a permettere alla popolazione di prede di tornare a crescere, fornendo di nuovo alimento alla popolazione dei predatori.

Nei sistemi economico-sociali cosiddetti avanzati, spiace doverlo riconoscere, è in atto da tempo un meccanismo simile. L'impetuosa crescita dei "glorious twenty-five", gli eroici venticinque anni che vanno dal 1950 alla metà degli anni Settanta, ha generato un livello di benessere così ampio e diffuso da attenuare progressivamente la spinta a produrre reddito. È ovvio che, come tutte le cose di questo mondo, anche la crescita economica è destinata a incontrare prima o poi degli ostacoli esterni, come l'esaurimento del petrolio, l'inquinamento, l'accumulazione dei rifiuti, la diffusione di nuove malattie. Ma l'equazione della crescita non descrive questo (ovvio) tipo di limite, l'equazione della crescita ci dice che non occorrerà aspettare così a lungo per assistere alla fine della crescita, perché è la crescita stessa che - dal suo interno - sprigiona le forze che la soffocano. L'arresto della crescita è un evento che le società avanzate sono in grado di produrre da sé, per il solo fatto che il principale prodotto della crescita - il benessere - aumenta i costi e riduce l'esigenza di produrre ancora di più, come può constatare chiunque, in una società avanzata, osservi la diversa propensione al lavoro, allo studio e al sacrificio degli immigrati rispetto ai nativi. Se ci fossero statistiche differenziate per il PIL degli stranieri e quello dei nativi, probabilmente osserveremmo che - dentro le nostre società - si riproduce, in piccolo, quel che accade nel mondo fra economie emergenti ed economie mature: il PIL degli stranieri cresce più in fretta, molto più in fretta, di quello dei nativi, perché "loro", economicamente e in parte anche culturalmente, sono nella condizione in cui noi eravamo negli anni Cinquanta, quando italiani, tedeschi e giapponesi diedero vita ai rispettivi miracoli economici.

Questo non è un libro sulla grande crisi, se non altro perché è stato iniziato prima del 2007, e partiva da un'altra domanda: quali sono le determinanti della crescita? Il fatto curioso è che, a un certo punto, mi sono accorto che lo strumento che avevo costruito per rispondere a quella domanda - l'equazione della crescita - permetteva di rispondere anche a una seconda domanda, che fino ad allora non mi ero mai fatto, e cioè: come sarebbero andate le cose, dopo il 2007, se nessuno shock fosse intervenuto a interrompere l'ordinato sviluppo delle società avanzate?

Poiché la risposta è che, verosimilmente, saremmo comunque e relativamente presto entrati in stagnazione, il libro non può che concludersi con un dubbio. Un grande dubbio. La natura finanziaria della crisi in corso forse ci sta nascondendo il nocciolo della crisi stessa, che diventerà chiaro solo quando le nebbie delle perturbazioni finanziarie si saranno diradate. Quel nocciolo è che le nostre società non hanno più né l'energia né la volontà per continuare a crescere. Alcune ci riusciranno ancora abbastanza a lungo perché hanno tutti i fondamentali della crescita a posto, e avere buoni fondamentali è l'unico antidoto che può compensare gli effetti rallentatori del benessere. Altre società, invece, dovranno fermarsi prima, a livelli di benessere decisamente inferiori, perché i loro fondamentali sono cattivi, ed esse non trovano in sé stesse la determinazione per modificarli. Ma tutte, temo, dovranno entrare nell'ordine di idee che forse c'è un tetto, diverso per ogni società, oltre il quale la crescita non può andare. E che tale tetto non viene da fuori, ma viene da dentro: anche per i sistemi sociali, come per gli individui, più che gli ostacoli esterni sono i nostri stessi successi che possono raffreddare i nostri sogni.