Che fare?

 

La tesi di questo libro non è che le società avanzate, gli attuali paesi OCSE, entreranno tutte in stagnazione nel giro di qualche decennio. Quel che abbiamo fatto, in questo studio, è di provare a rispondere a una domanda più circoscritta: che cosa sarebbe successo se, dopo il 2007, nulla fosse cambiato nei meccanismi che avevano governato la crescita nell'ultimo periodo felice, il dodicennio che va dal 1995 al 2007?

La risposta a questa domanda, che volutamente lascia fuori la crisi del 2007-2013, è che alcune economie sarebbero entrate in stagnazione molto presto, altre molto tardi, ma tutte prima o poi avrebbero dovuto rallentare e infine fermarsi, perché la crescita aumenta il benessere e il benessere è il principale ostacolo alla crescita. Con un'importante differenza, però: i paesi con cattivi fondamentali si sarebbero fermati su un reddito di stato stazionario relativamente basso, quelli con buoni fondamentali su un reddito decisamente alto.

Ora la crisi ha scompaginato le carte, e dire qualcosa sul futuro delle economie avanzate è diventato ancora più difficile di prima. Si può pensare che la crisi abbia abbassato il reddito di equilibrio di tutti i paesi, o di molti di essi. Ma si può anche pensare che, nel lungo periodo, il ruolo frenante del benessere si attenui. Benessere, infatti, significa innanzitutto un costo del lavoro più elevato che altrove (da cui uno svantaggio competitivo rispetto ai paesi poveri), e tutto fa pensare che fra qualche decennio, quando molti paesi emergenti o in via di sviluppo avranno raggiunto standard di vita occidentali, quel divario sarà diventato molto minore di oggi.

Se è impossibile indovinare come andranno le cose in generale, c'è però almeno una domanda cui, invece, è possibile provare a rispondere: che cosa può fare una società avanzata per aumentare il suo tasso di crescita?

Nel porre questo interrogativo, naturalmente, do per scontato che tornare a crescere (o continuare a farlo) sia ancora un obiettivo desiderabile per molte, se non tutte, le società avanzate. E spiego brevemente perché.

Il primo, ovvio, argomento pro-crescita è che molte società avanzate sono ancora lontane dagli standard di vita delle società arrivate, che guidano la classifica dei paesi OCSE: giusto per dare un'idea, nel 2013 il reddito dei tre paesi OCSE meno ricchi, ossia Messico, Turchia e Cile, era circa 1 / 4 di quello della Norvegia, il paese più ricco dopo il Lussemburgo.

Il secondo argomento è che alcuni paesi, in particolare i PIGS mediterranei, sono costretti a crescere semplicemente per evitare il fallimento. Se non vogliono fallire e precipitare nella povertà, devono pagare i loro debiti,1 ma l'unico modo per pagarli è tornare a crescere.

Il terzo argomento è che anche nelle società più ricche esistono sacche di povertà e altri gravi problemi sociali che si potrebbero affrontare assai meglio se il reddito nazionale crescesse ancora.

Il quarto e ultimo argomento è che, senza crescita, le tensioni sociali rischiano di diventare drammatiche. Se la torta del reddito nazionale non aumenta, la vita di un sistema sociale diventa un gioco a somma zero: non si può migliorare la propria condizione senza peggiorare quella di qualcun altro. Il che, in sostanza, significa che il nucleo dell'azione politica diventa la redistribuzione del reddito: più arbitrio dei governanti nell'allocazione delle risorse, meno libertà per individui e imprese. Di qui tensioni sociali, invidia di classe, aumento dei conflitti interni. Nessuna società moderna, finora, ha ancora imparato a convivere con un ammontare di risorse che resta costante nel tempo, o addirittura si restringe ogni anno.

Ma torniamo alla nostra domanda. Ammesso che, almeno per alcune società, la crescita sia ancora un obiettivo desiderabile, che cosa può fare un paese per migliorare le proprie prospettive in tal senso?

Qui l'equazione della crescita ha ancora molte cose da dire. La più rilevante è che mentre i parametri dell'equazione mostrano una certa stabilità, le variabili che entrano nell'equazione, e quindi regolano la velocità della crescita, non sono affatto immodificabili. Detto in altre parole: se un paese vuole crescere di più, o anche solo contrastare il rallentamento della crescita che l'aumento del benessere porta con sé, può benissimo farlo. Un paese può fare investimenti in istruzione, può ridurre le tasse, può migliorare le proprie istituzioni di mercato. Alcuni paesi, per esempio la Germania, l'hanno fatto, sia prima sia durante la crisi, e ne hanno già raccolto i frutti sotto forma di un aumento del tasso di crescita. Altri paesi, la maggior parte, hanno fatto poco o nulla, o addirittura hanno permesso il deterioramento dei propri fondamentali, e ora crescono meno di prima. Insomma, nessun paese è completamente intrappolato nel proprio destino, perché la struttura economica di un paese non è data una volta per sempre, ma può essere modificata dall'azione dei governi, delle forze sociali, e naturalmente anche dall'impegno dei singoli.

Che fare, dunque?

A questa domanda, sfortunatamente, siamo portati un po' tutti a rispondere secondo le nostre preferenze politico-ideologiche. Anche chi accettasse pienamente la "verità" dell'equazione della crescita, ovvero credesse nella sostanziale correttezza delle nostre stime, avrebbe di fronte a sé almeno tre opzioni di fondo: più istruzione, meno tasse sulle imprese e sul lavoro, migliori istituzioni economiche. E non è difficile indovinare quale sceglierebbe: se è di sinistra, punterà sugli investimenti in capitale umano; se è di destra, sulla riduzione delle aliquote; se è un liberale, sulle riforme che promuovono efficienti istituzioni di mercato.

Io penso, invece, che dovremmo ragionare diversamente. Non dovremmo chiederci quale politica ci piace di più, ma quale può funzionare meglio. Le tre politiche implicitamente incorporate nell'equazione della crescita, infatti, non sono così intercambiabili come possono apparire a prima vista. Due elementi, in particolare, rendono diverso, per i vari paesi, il rango di convenienza delle varie politiche.

Il primo elemento è il tempo necessario perché una politica dispieghi i propri effetti.

Un miglioramento del capitale umano, per esempio, non può produrre effetti apprezzabili prima di 15-20 anni, il tempo necessario perché una riforma del sistema scolastico, delle università e dei centri di ricerca si trasmetta al mercato del lavoro. Puntare tutte le proprie carte sull'istruzione è una politica lungimirante, ma purtroppo ha scarsissime possibilità di incidere sul tasso di crescita nel breve e nel medio periodo.

Se si punta sulle istituzioni di mercato, invece, i tempi possono essere meno lunghi, ma molto dipende da quel che si fa: liberalizzare il mercato del lavoro e delle professioni può aumentare la produttività del sistema nel giro di pochi anni, riformare la giustizia e la burocrazia può produrre effetti apprezzabili solo nel medio periodo.

Se, infine, la leva su cui si intende agire sono le tasse, gli effetti possono essere relativamente rapidi: una riduzione delle aliquote, specie se concentrata sull'imposta societaria,2 può fornire una spinta all'economia in tempi piuttosto brevi, come mostrano i due casi di scuola, ovvero le grandi riduzioni fiscali dell'era Thatcher-Reagan. Detto per inciso, non si può escludere che sia stato proprio questo impulso, basato sulla riduzione delle tasse, il fattore decisivo che - fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta - ha generato l'unica significativa anomalia nel trend di raffreddamento della crescita in atto da più di mezzo secolo: dal 1960 a oggi il tasso di crescita delle economie avanzate è sempre diminuito di circa un punto ogni decennio, con la sola eccezione degli anni Novanta, in cui il rallentamento è stato di pochi decimali. Stando alla nostra equazione, un paese che desiderasse ottenere, in un paio di anni, un incremento del tasso di crescita di 1 punto percentuale, dovrebbe abbassare l'aliquota societaria di circa 12 punti, una misura tutt'altro che insostenibile, se si pensa che l'aliquota dell'Irlanda è circa 15 punti al di sotto dell'aliquota media OCSE.

Il secondo elemento che influisce sull'efficacia di una politica è il contesto socio-economico, in particolare il fatto di avere una Banca centrale nazionale oppure no: in breve, essere nell'eurozona o fuori di essa. Abbiamo già visto che, a parità di altre condizioni, un paese euro cresce di circa 1,5 punti in meno di un paese non-euro. Ma non si tratta solo di questo. Alcuni indizi empirici fanno pensare che, negli anni immediatamente successivi alla recessione del 2008-2009, i paesi euro e i paesi non-euro non differiscano solo per il loro tasso di crescita tendenziale, ma anche per le sue determinanti.

Nell'eurozona, i paesi che meglio sono riusciti a fronteggiare la crisi sono quelli che combinano un'elevata qualità del capitale umano e conti pubblici relativamente in ordine: Germania, Finlandia, Austria, Olanda, Belgio e Francia, ossia l'Europa del Nord eccetto Lussemburgo e Irlanda. I paesi che meno sono stati in grado di fronteggiare la crisi sono quelli caratterizzati da bassa qualità del capitale umano e deterioramento dei conti pubblici: Portogallo, Grecia, Spagna, ovvero l'Europa del Sud eccetto l'Italia. In una posizione intermedia Italia, Irlanda e Lussemburgo, ossia i tre paesi che non è possibile assegnare a nessuno dei due gruppi precedenti. L'Italia è mediocre sia sui conti pubblici sia sul capitale umano, mentre Irlanda e Lussemburgo appaiono speculari: l'Irlanda ha un ottimo livello di istruzione ma ha dovuto gravemente deteriorare i conti pubblici per salvare le sue banche, il Lussemburgo ha buoni conti pubblici ma anche il peggior capitale umano dell'eurozona.

Tabella 6 - Tre tipi di paesi nell'eurozona

 

Velocità di crescita (2010-2012) Accelerazione (rispetto al 2001-2007) Paesi del Nord 1,5 0,1 Paesi mediocri -0,4 -1,2 Paesi del Sud -1,6 -3,5 Totale eurozona 0,5 -0,9 Come si vede dallo specchietto riassuntivo, nel triennio 2010-2012 l'eurozona nel suo insieme è già entrata in un regime di stagnazione (crescita media +0,5%), e ormai cresce di quasi un punto meno di prima (-0,9%). Solo i paesi del Nord hanno ripreso a crescere a un ritmo simile a quello precedente (1,5%), mentre tutti gli altri sono tuttora in decrescita. I tre paesi del Sud (Grecia, Spagna e Portogallo), in particolare, sono lontanissimi dal loro tasso di crescita del passato: crescevano al ritmo medio del 2%, ora decrescono di circa 1,5 punti all'anno.

Le cose vanno un po' diversamente per i paesi OCSE fuori dell'eurozona, un insieme di 20 nazioni, di cui 19 mai entrate, e una - l'Estonia - entrata solo nel 2011. Anche qui ci sono differenze fra paesi che si sono ripresi e paesi che stentano a uscire dalla crisi ma, contrariamente a quanto accadeva nella zona euro, la variabile chiave sembra essere il livello della pressione fiscale sulle imprese, misurata con l'imposizione totale sul profitto commerciale (il cosiddetto TTR, o Total Tax Rate). Se dividiamo i paesi in tre gruppi in base alle politiche fiscali attuate nel triennio 2010-2012, confrontate con quelle del settennato felice 2001-2007, il quadro che emerge è piuttosto nitido:3

Figura 30 - Crescita e tasse nei paesi non-euro

 

 

 

Mediamente, i paesi che hanno aumentato le tasse crescono molto più lentamente di prima (-2,3); i paesi che le hanno lasciate sostanzialmente invariate crescono leggermente meno che in passato; infine, i paesi che le hanno ridotte in modo apprezzabile crescono appena un po' più di prima. Sembra dunque che, per tornare a crescere come in passato, occorra una riduzione di qualche punto del TTR. Una stima di larga massima suggerisce che il ritorno al ritmo precedente la crisi richieda una riduzione del TTR dell'ordine di 5 punti, più del triplo della riduzione effettivamente messa in atto dai paesi dell'eurozona (-1,4%).

Ed eccoci, finalmente, al cuore della nostra domanda: che cosa può fare un paese per contrastare la tendenza al rallentamento della crescita?

La prima risposta è: dipende. Dipende, per esempio, dal fatto di avere o no una valuta nazionale: i paesi dell'eurozona non possono non porsi il problema dei conti pubblici, anche se i tempi e i modi per risanarli possono variare in un range piuttosto ampio. Dipende, poi, dalla fretta che un paese ha: se può aspettare 20 anni, è razionale puntare soprattutto sul miglioramento del capitale umano; se vuole dei risultati meno lontani, può cercare di riformare le sue istituzioni di mercato; se vuole risultati a brevissimo termine, la via maestra è la riduzione delle tasse, in particolare quelle che gravano sui profitti e sul lavoro (riassunte nel livello del TTR).

Ma il punto fondamentale, il punto di partenza di tutto, dovrebbe essere di tipo diagnostico. Un paese che vuole tornare a crescere, o crescere di più, dovrebbe - per prima cosa - individuare la sua classe di opportunità. Ora, che cos'è la "classe di opportunità" di un paese?

La classe di opportunità di un paese non è altro che l'insieme dei suoi handicap o, se preferite, dei suoi ritardi. Più un paese è indietro in un certo ambito, e più ha la possibilità di automigliorarsi, modificando sé stesso. Quello che la teoria economica afferma per il trasferimento di tecnologia, e cioè che i paesi arretrati hanno il "vantaggio" di poter crescere imitando quelli avanzati, vale altrettanto bene per le tecnologie istituzionali, ossia per gli assetti economici, sociali, culturali, giuridici che distinguono tra loro i vari paesi e influenzano il tasso di crescita di ciascuno. Naturalmente è vero che nessun assetto istituzionale può essere trasferito meccanicamente e in blocco, come si trasferisce una tecnologia vera e propria, ma questo non impedisce a un paese di ispirarsi alle migliori pratiche (le cosiddette best practices) prevalenti nei paesi che funzionano, adottando e adattando a sé stesso le più promettenti. Ecco perché è importante conoscere la propria classe di opportunità: solo dopo averla individuata, un paese è in grado di imboccare la strada più promettente per tornare a crescere.

È impossibile dire con sicurezza che cosa conterà veramente in futuro. E tuttavia non sembra azzardato immaginare che i tre fondamentali che governano l'equazione della crescita, capitale umano, istituzioni economiche e tasse, continuino a giocare un ruolo di primo piano anche domani. Lo hanno giocato in passato, hanno continuato a giocarlo negli anni della crisi, è verosimile che possano giocarlo in futuro. Se le cose stanno così, diventa immediato determinare la classe di opportunità di ogni paese: basterà, per ciascuno, individuare gli ambiti in cui ha più strada da percorrere, ossia posizioni da risalire rispetto agli altri paesi. Se un paese ha problemi su tutti i fondamentali è in classe di opportunità 3, se ne ha su due è in classe 2, se ne ha su uno solo è in classe 1, e se infine non ne ha nessuno è in classe 0.

Tabella 7 - I problemi delle società avanzate: 4 classi di opportunità

 

Classe Paesi Capitale umano Tasse Istituzioni 3 Messico • • • Lussemburgo • • Polonia • • Turchia • • 2 Cile • • Israele • • Giappone • • Italia • • Grecia • Portogallo • Norvegia • Canada • Australia • Nuova Zelanda • Germania • 1 Belgio • Spagna • Francia • Stati Uniti • Svizzera • Ungheria • Svezia • Slovacchia • Repubblica Ceca • 0 Paesi con buoni fondamentali: Islanda, Irlanda, Corea del Sud, Finlandia, Estonia, Slovenia, Olanda, Danimarca, Austria, Regno Unito. Come si può vedere nella tabella 7, l'unico paese in classe 3 è il Messico, che ha problemi su tutti i fronti: capitale umano, tasse, istituzioni economiche.

I paesi in classe 2 sono 7: Polonia, Turchia, Cile e Israele hanno soprattutto problemi di capitale umano e di istituzioni economiche, il Lussemburgo di capitale umano e di tasse, Italia e Giappone di tasse e di istituzioni economiche.

La classe 1 è quella che ospita più paesi (ben 16), spesso con problemi assai diversi: fra i paesi dell'attuale eurozona, Grecia e Portogallo hanno innanzitutto problemi di capitale umano, Germania, Francia, Spagna e Belgio problemi di alte tasse, la Slovacchia problemi di cattive istituzioni economiche. Fra i paesi che non fanno parte dell'eurozona, 5 hanno tasse troppo alte (Norvegia, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti), 4 hanno istituzioni economiche insoddisfacenti (Svizzera, Svezia, Ungheria, Repubblica Ceca).

Restano, infine, 10 paesi in classe 0 (buoni fondamentali nei tre ambiti), tutti in Europa eccetto la Corea del Sud: Irlanda, Finlandia, Austria, Olanda, Estonia, Slovenia nell'eurozona, Regno Unito, Danimarca, Islanda fuori di essa.

La collocazione dei 34 paesi OCSE in classi di opportunità, è ovvio, contiene alcuni margini di arbitrarietà. Dipende dalle fonti statistiche utilizzate, dalla scelta degli indicatori e delle soglie, dal periodo considerato. Non dubitiamo che altri possano, in futuro, ripetere il nostro esercizio ottenendo risultati un po' diversi, con qualche paese che cambia di classe. Il punto che ci premeva sottolineare, tuttavia, è soprattutto metodologico, per non dire filosofico.

L'equazione della crescita ci ha mostrato che, con l'aumento del benessere, continuare a produrre reddito diventa sempre più difficile. Non solo: usando l'equazione della crescita per simulare il futuro delle società avanzate dopo il 2007, ci siamo resi conto che le nostre società erano avviate su un sentiero di declino già prima della crisi, e che in tutte la crescita del benessere era destinata a incontrare un tetto, un soffitto al di là del quale non poteva spingersi.

Non dobbiamo stupircene, né spaventarci. Un paese, specie se ha raggiunto un elevato benessere, può anche pensare di fermarsi semplicemente perché è "arrivato", ovvero perché è cresciuto "abbastanza", secondo l'efficace espressione di Robert e Edward Skidelsky. Così come può accettare di incamminarsi su un sentiero di decrescita, più o meno volontaria e più o meno felice, secondo la discutibile utopia di Serge Latouche.

Non c'è nulla di male nelle retoriche romantiche e anticapitalistiche, che sognano un'umanità liberata dalla schiavitù del lavoro, della produzione per la produzione, dell'arricchimento senza limiti. Il sogno ha sfiorato un po' tutti: non solo i "regressisti", attratti - forse un po' ingenuamente - dal mito di una vita semplice, naturale, libera dalle costrizioni della modernità, ma anche i progressisti, che nel progresso tecnico-scientifico hanno sempre visto la forza fondamentale capace di togliere l'umanità dal suo stato di alienazione, sfruttamento, dipendenza dalla natura.

È stato il sogno di Keynes che, nel 1930, riflettendo sulle "prospettive economiche per i nostri nipoti" immaginava un incremento della produttività così spettacolare da rendere quasi superfluo il lavoro. Allora, immaginava Keynes,

per la prima volta dalla sua creazione l'uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l'interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.

Ma era anche stato, poco meno di un secolo prima, il sogno di Marx e Engels, che ne L'ideologia tedesca così dipingevano la fine della divisione del lavoro nella società comunista:

nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.

Il sogno di Prometeo, rubare il fuoco agli dei per affrancare l'umanità, così come il mito opposto, quello della vita semplice, pastorale o agreste, sono due costanti che attraversano tutta la storia della cultura occidentale, dai miti greci al Faust di Goethe, dalle Bucoliche di Virgilio al buon selvaggio di Rousseau. Due costanti legate da un unico, comune, filo nascosto: l'idea di uno "stato finale", o di equilibrio, in cui l'umanità possa finalmente trovarsi a casa, presso di sé, sottratta alle mille forze che sempre le hanno impedito di diventare sé stessa.

Il problema, dunque, non sta nel mito dello stato stazionario, un mito che in fondo accomuna regressisti e progressisti, nemici e amici della modernità. Il problema è che la storia, o meglio la storia dell'economia,4 ci sta offrendo lo stato stazionario prima dell'arrivo. La macchina si è fermata, e questo in sé non sarebbe una tragedia, ma il punto è che - a quanto pare - non eravamo ancora arrivati a destinazione.

Rallentamento, declino, arresto della crescita possono anche non essere un problema per alcuni paesi, i paesi più ricchi, o per i ceti superiori all'interno di ogni singolo paese. Il problema è che, anche se si accetta l'utopia di uno stato stazionario "felice", da quel traguardo siamo ancora abbastanza lontani. Se a qualcosa è servita la crisi, è stato a dimostrare quanto le società avanzate siano ancora lontane da tale condizione, e quanto poco siano pronte a fermarsi già ora.

E tuttavia, rallentamento e declino non sono l'unica possibilità che abbiamo di fronte. L'equazione della crescita ci mostra anche la seconda faccia della luna: le altre grandi forze che influenzano la crescita - capitale umano, pressione fiscale, istituzioni economiche - sono tutte governabili. Se vogliamo, possiamo intervenire per modificarle, e i risultati che otterremo saranno tanto migliori quanto più saremo stati capaci di individuare le nostre debolezze e i nostri ritardi: nessun sistema economico-sociale è impermeabile al cambiamento, e nel gioco della crescita gli handicap possono diventare opportunità, l'arretratezza - come notava il grande storico dell'economia Alexander Gerschenkron più di mezzo secolo fa - può trasformarsi in un vantaggio:

L'industrializzazione è sempre parsa tanto più promettente quanto più grande era lo stock di innovazioni tecnologiche che il paese arretrato poteva rilevare dal paese più avanzato. Le tecnologie prese a prestito ... sono state uno dei fattori più importanti che hanno assicurato un elevato ritmo di sviluppo in una società arretrata.5

Quel che è cambiato, rispetto ai tempi di Gerschenkron, è che oggi l'imitazione di cui dobbiamo essere capaci non è tanto di prodotti e di tecnologie, ma di istituzioni e di politiche. Se vogliono tornare a crescere, le società avanzate in crisi devono modificare radicalmente le proprie istituzioni, dal mercato del lavoro alla burocrazia, e puntare decisamente sulle uniche due politiche che possono fare la differenza: più investimenti in capitale umano, meno tasse sulle imprese.

Da italiano, vorrei aggiungere: la ricetta fondamentale per uscire dalla crisi è non fare come l'Italia, stare il più lontano possibile dall'atteggiamento italiano.

Qual è il nucleo dell'atteggiamento italiano?

È qualcosa che ci viene da lontano, dalla nostra storia. Da secoli invasi, dominati, calpestati dallo straniero, noi italiani abbiamo maturato la convinzione che il mondo esterno sia la chiave di tutto. Ieri accoglievamo lo straniero come un liberatore, perché non riuscivamo a immaginare alcun modo di liberarci che non fosse quello di cambiare padrone. Oggi coltiviamo l'idea che non solo i nostri mali, ma anche la nostra salvezza, possano provenire esclusivamente dall'esterno. Così non solo attribuiamo i nostri guai alla crisi, ai mercati finanziari, ai vincoli europei, alla moneta comune, ma ci illudiamo che dalla crisi potremo uscire grazie agli altri: la ripresa dell'economia mondiale, che dobbiamo solo "agganciare"; le autorità europee, che dovrebbero essere un po' più flessibili sui nostri conti pubblici; la Banca centrale europea, che dovrebbe darci una mano acquistando buoni del Tesoro. Il vittimismo e il fatalismo sono ormai parte integrante del carattere nazionale,6 una sorta di DNA da cui ci è difficile liberarci.

Eppure ci si deve provare. Ci dobbiamo provare noi italiani, ci devono provare i paesi che non pensano di essere già arrivati.

Certo, tutti dobbiamo fare i conti con il meccanismo del drago-balena, per cui la crescita crea benessere, e il benessere tende a spegnere la crescita. Ma nessuna delle economie avanzate è obbligata a soccombere: i draghi si possono anche sfidare, e in giro per il mondo c'è chi ha già cominciato a farlo.