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I numeri del declino

 

4-3-2-2-1... A prima vista sembra uno schema di gioco, come quelli che si usano nel calcio. Invece è il riassunto di mezzo secolo di storia economica. Della nostra storia, la storia delle "società avanzate", il club1 dei paesi più ricchi del mondo riuniti nell'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).2 Un insieme di 34 Stati che, ancor oggi, produce quasi il 50% del PIL del mondo con meno del 18% della popolazione.

La sequenza 4-3-2-2-1 riassume, in pochi fatti stilizzati, l'andamento delle economie avanzate negli ultimi 50 anni, ossia fra l'inizio degli anni Sessanta del XX secolo, e l'inizio degli anni Dieci del XXI secolo.

Negli anni Sessanta il nucleo3 dei paesi OCSE cresceva a un ritmo del 4%. Ma già nel decennio successivo, con la crisi del petrolio e l'inflazione, il tasso di crescita del PIL pro capite era sceso un po' sotto il 3%. Nei due decenni successivi, che sono anche quelli delle politiche liberiste (Reagan e Thatcher) e della globalizzazione, il ritmo di crescita scende ulteriormente, appena sopra il 2% negli anni Ottanta, appena sotto il 2% negli anni Novanta. Infine, nel primo decennio di questo secolo, il tasso di crescita scende di un altro scalino, e si porta addirittura un po' al di sotto dell'1%: un ulteriore rallentamento cui contribuisce la crisi iniziata nel 2007, ma che era in atto comunque, già prima della crisi (vedi figura 1).

Figura 1 - Tasso di crescita delle economie avanzate (22 paesi sempre OCSE)

 

 

 

Se, infatti, confrontiamo il tasso di crescita dei primi 7 anni del XXI secolo (il periodo 2000-2007, dunque pre-crisi) con quello degli ultimi 7 anni del XX secolo (il periodo 1993-2000), possiamo constatare che la decelerazione del ritmo di crescita dei paesi avanzati fra l'ultimo decennio del Novecento e il primo del nuovo millennio è un fatto anteriore alla crisi. Il tasso di crescita degli ultimi anni del secolo scorso (1993-2000) era del 2,7%, quello dei primi anni di questo secolo (2000-2007) è dell'1,9%. Come dire che, nel giro di meno di un decennio e ancor prima della grande crisi, la velocità di crescita dei paesi avanzati si era ridotta di quasi 1 punto percentuale, perdendo circa 1 / 3 della propria velocità.4

Possiamo condensare questi fatti elementari dicendo che, considerate nel loro complesso, le economie avanzate perdono velocità a un ritmo di circa 1 punto al decennio. Il trend dura da circa mezzo secolo, e presenta due sole, piccole, anomalie, che si manifestano come scostamenti dal trend di lungo periodo: gli anni Settanta si situano un po' al di sotto del trend, gli anni Novanta un po' al di sopra. Detto in altre parole: cresciamo sempre più lentamente, ma negli anni Settanta la decelerazione è stata particolarmente drammatica, mentre negli anni Novanta siamo quasi riusciti a mantenere il ritmo del decennio precedente. Vedremo alla fine di questo studio quali sono, verosimilmente, le ragioni di questa piccola anomalia.

Il declino delle società avanzate è preoccupante, perché dura ormai da mezzo secolo, è molto rapido, e pare progredire con un ritmo implacabile. Se il trend degli ultimi 50 anni dovesse continuare, quel che potremmo attenderci nei prossimi 10 è una crescita prossima a zero. Il quadro si fa però ancora più deprimente per noi se, per un attimo, distogliamo lo sguardo dalle nostre società, le cosiddette società "avanzate", e ci volgiamo a tutte le altre. Possiamo chiederci, per esempio, se anche gli altri paesi, sia quelli poveri sia quelli chiamati "emergenti", siano stati coinvolti nel trend di rallentamento. È difficile avere dati completi e affidabili su tutti gli Stati del mondo e per un periodo di mezzo secolo, ma con i database esistenti qualcosa si può fare. Se lavoriamo sui paesi del nucleo OCSE e li confrontiamo con gli "altri" (il gruppo di tutti i paesi non-OCSE per cui abbiamo i dati completi degli ultimi 50 anni),5 il quadro è piuttosto diverso da quello delle società avanzate. Per tre decenni, dal 1960 al 1990, il PIL pro capite degli "altri" (i paesi non-OCSE) è cresciuto a un tasso medio relativamente stabile,6 prossimo al 2,5%. Poi però, grosso modo in concomitanza con il decollo della globalizzazione, il loro tasso di crescita è aumentato sensibilmente, portandosi al 3,2% negli anni Novanta e addirittura al 5,4% nel decennio scorso, un ritmo quest'ultimo che l'insieme delle economie avanzate non è mai riuscito a tenere. Detto in poche parole: mentre la tendenza di lungo periodo delle economie avanzate è il rallentamento, quella delle economie arretrate è l'accelerazione.

Possiamo farci un'idea più diretta di questo mezzo secolo di storia economica se, anziché confrontare i tassi di crescita dei vari decenni, lavoriamo direttamente sul divario, ossia sul rapporto fra il PIL pro capite dei paesi OCSE e dei paesi non-OCSE.

Figura 2 - Divario fra le economie avanzate e il resto del mondo (medie mobili)

 

 

 

Un'occhiata al diagramma precedente consente di capire al volo come sono andate le cose. L'ultimo mezzo secolo è nettamente suddiviso in tre fasi, separate tra loro da due date storiche: il 1968, che ha sconvolto le economie dell'Occidente, e il 1989, che ha sconvolto quelle del mondo comunista.

Nella prima fase, che va dal 1960 al 1968, il vantaggio delle economie avanzate è ulteriormente cresciuto, portando il divario da 7,3 a 8,7, un massimo storico mai più eguagliato in seguito. Questo significa che, all'apogeo della loro crescita, i paesi OCSE avevano un reddito pro capite quasi 10 volte superiore a quello dei paesi non-OCSE. Nella fase di mezzo, che va dalla "rivoluzione" del 1968 a quella del 1989, il divario non manifesta una tendenza uniforme: nei primi anni, dal 1968 al 1982, diminuisce leggermente, mentre nella seconda fase, dal 1982 al 1989, torna ad aumentare, pur senza raggiungere più il livello del 1968. Nell'ultima fase, infine, la tendenza principale è a un declino rapidissimo, che porta il divario da 8,5 nel 1989 a 4,5 nel 2011: un dimezzamento, in poco più di vent'anni.

Si può discutere a lungo se il punto di svolta, quello in cui i paesi avanzati hanno cominciato a crescere meno di quelli arretrati, si situi già nel 1968, o debba essere postdatato fino al 1989. Molto dipende dalle fonti che si usano, dalla definizione di economie avanzate, e soprattutto dai paesi che si includono nell'analisi.7 Ma resta il fatto che, dopo il 1989, il divario si riduce a una velocità impressionante, con un'unica brevissima pausa nel triennio 1996-1999.

La storia che abbiamo raccontato non dovrebbe stupire più di tanto. La sostanza del processo descritto è che l'ultimo mezzo secolo è stato caratterizzato prima da un aumento della diseguaglianza fra paesi, poi da una sua riduzione. È vero, si sente spesso dire che le diseguaglianze sono in aumento nel mondo, e persino che la crescita smisurata della diseguaglianza è la causa ultima della crisi attuale. La realtà è che non possiamo sapere se la diseguaglianza complessiva è aumentata o no, perché mancano dati affidabili sul grado di diseguaglianza interna degli oltre 200 Stati che formano il mondo.8 Quel che possiamo ricostruire con precisione, invece, è l'evoluzione del grado di diseguaglianza fra tutti gli Stati del mondo dal 1960 a oggi, misurata come di consueto con l'indice di Gini.9

Figura 3 - La parabola della diseguaglianza fra Stati

 

 

 

Il pattern non potrebbe essere più chiaro. L'evoluzione del grado di diseguaglianza fra i redditi medi pro capite degli Stati segue la traiettoria di una parabola: prima una crescita, all'inizio rapida e poi sempre più lenta, poi - dopo gli anni Settanta - una diminuzione, prima lenta e in seguito sempre più rapida. Un andamento che dovrebbe risultare familiare, visto che è quello che Kuznets aveva previsto, fin dagli anni Cinquanta, per l'evoluzione della diseguaglianza interna a un paese.10 A quanto pare la legge di Kuznets, o qualcosa che le somiglia, funziona anche per il mondo nel suo insieme.

Di per sé, il fatto che chi è avanti corra meno di chi sta indietro non solo non è un problema, ma potrebbe essere salutato come un fatto positivo, come un meccanismo di riequilibrio fra paesi ricchi e paesi poveri. Il problema non sta nella riduzione del divario, ma nel modo in cui sta avvenendo: le economie avanzate non solo corrono meno delle altre, ma corrono meno che in passato. Molto meno, sempre meno. Lo schema 4-3-2-2-1 mostra che la perdita di velocità è cominciata almeno 40 anni fa, e vale circa 0,1 punti all'anno, più o meno 1 punto al decennio. Dunque, già prima della crisi del 2007-2013 le economie dei paesi avanzati erano pericolosamente vicine a un regime di stagnazione, e questo in una situazione in cui molte di esse sono schiacciate da un immenso debito pubblico e privato. Ciò vale, in particolare, per l'eurozona: non solo perché, fra i paesi OCSE, quelli dell'eurozona sono i più lenti, ma perché i mercati finanziari li trattano peggio degli altri. Può sembrare strano, ma i dati di questi anni mostrano in modo piuttosto inequivocabile che l'"equazione dello spread" è del tutto diversa per i paesi con una vera Banca centrale (come il Giappone, gli Stati Uniti, il Regno Unito) e per i paesi che, come i 17 paesi dell'eurozona, non hanno una vera Banca centrale. Per i primi i tassi di interesse richiesti dal mercato dipendono soprattutto dall'inflazione, per i secondi sono estremamente sensibili al tasso di crescita: se un paese ha discrete prospettive di crescita, i mercati tollerano un alto debito pubblico, ma se le sue prospettive di crescita sono negative, i mercati diventano estremamente esosi.11 Insomma, fra i paesi ad alto debito pubblico, il lusso della non crescita possono permetterselo solo i paesi che hanno una vera Banca centrale. Tutti gli altri devono prendere in serissima considerazione la sequenza 4-3-2-2-1, e il futuro di crescita zero che essa pare annunciare.

Di fronte a numeri tanto drammatici, si potrebbe pensare che, da decenni, il problema centrale della letteratura sulla crescita sia diventato il rapido declino delle economie avanzate. Ma non è così. In un certo senso è esattamente il contrario. Gli studi empirici sulle determinanti della crescita, fioriti soprattutto negli ultimi due decenni sulla scia dei pionieristici lavori di Robert Barro e Xavier Sala-i-Martin, si sono posti quasi sempre un altro problema: scoprire le condizioni che avrebbero permesso ai paesi meno sviluppati di rincorrere, e possibilmente raggiungere, quelli avanzati, il cosiddetto catching up. Di qui si è sviluppato l'immenso arcipelago della "letteratura sulla convergenza", con la sua distinzione fra s-convergenza e ß-convergenza, fra ß-convergenza assoluta e ß-convergenza condizionale:12 tutti strumenti volti a mettere a fuoco la questione di fondo, ossia se le diseguaglianze di reddito pro capite13 o di produttività fra paesi ricchi e paesi poveri stessero diminuendo oppure no.

In concreto, questo significa cercare di scoprire le forze che spiegano le differenze nei redditi pro capite dei vari paesi o, equivalentemente, le differenze nei loro tassi di crescita di lungo periodo, cui quelle differenze vanno evidentemente ricondotte. Di qui la scelta di lavorare su insiemi molto ampi di paesi, avanzati e no, e la scarsa attenzione ai paesi OCSE e alle loro specificità.14 Molto influenzata dai lavori dei teorici della crescita, in particolare dall'economia dello sviluppo e dai modelli di "crescita endogena",15 questa letteratura pare dare per scontato che la crescita sia un processo potenzialmente illimitato, e che i meccanismi che la governano siano universali, ovvero poco variabili nel tempo e nello spazio.16

Questo libro adotta, per molti versi, la prospettiva opposta. Nelle pagine seguenti mi concentrerò solo sulle società avanzate (i 34 paesi OCSE), studiate nell'ultimo ciclo di crescita (1995-2007). Quel che cercherò di individuare non sono le determinanti generali della crescita, ma che cosa fa sì che - fra le società avanzate - alcune riescano ancora a crescere e altre no. Infine, pur attirato dall'idea di una crescita illimitata (e dai modelli matematici che la descrivono), non la darò affatto per scontata. Che le nostre società abbiano ancora davanti a sé un significativo tratto di sviluppo, o stiano invece per entrare in un regime di stagnazione, o addirittura di arresto della crescita, è una questione che non può essere decisa a tavolino, in base a considerazioni teoriche o ideologiche, ma che merita di essere studiata a partire dai dati della nostra storia recente. È quanto mi riprometto di fare in questo libro.