Regista
di Steven
Utley
Titolo originale: The Beasts of Love
Traduzione di Beata della Frattina
© 1981 Mercury Press Inc.
Apparso sul n. 898 di Urania (9 agosto 1981)
Giaceva supino nel letto e fissava il soffitto buio. La pendola in anticamera suonò l’ora. Le due, pensò, e tutto va... bene...
Il secondo e ultimo rintocco si spense. Si ritrovò ad ascoltare la casa che parlava fra sé, sommessamente, con un profondo mormorio di gola. Il legno scricchiolava e gemeva e da qualche parte, in basso, il termostato ticchettava con un suono appena percettibile. Sembrava che la casa pulsasse in sincronia col borbottio del condizionatore. Dopo un’eternità il borbottio cessò e il meccanismo si assestò. Lui percepiva i sommessi ronzii e fruscii e cercava di suddividerli, di identificarli, invitandoli a fermarsi uno dopo l’altro per dargli la possibilità di riprender sonno.
Senti allora il leggero fruscio di un respiro.
Puttana, pensò.
Al suo fianco ci fu un lieve fruscio.
Maledetta puttana.
Il fruscio cessò.
Grazie, puttana.
Quanto l’odiava. Non aveva bisogno di girarsi per vederla. L’aveva vista anche troppe volte così, e sapeva come gli sarebbe apparsa: la puttana aveva scalciato il leggero copriletto in fondo ai piedi, aveva rialzato la camicia arrotolandola fino al seno, e se ne stava distesa a pancia in su con le gambe divaricate, simile in tutto e per tutto a una mostruosa ranocchia bianca pronta per essere sezionata.
Quanto l’odiava.
Non si trattava solo di piccoli fatti irritanti accumulatisi con l’andare degli anni, né di altri, più gravi. E che presto, troppo presto aveva cominciato raccoglierli, catalogarli, collezionarli e a coltivare il più piccolo seme di irritazione, delusione, risentimento, finché non era sbocciato il fiore dei disgusto e dell’odio. Sapeva che un giorno, o una notte, avrebbe finalmente ceduto, esplodendo come il Krakatoa; lei sarebbe diventata di ghiaccio e insieme avrebbero fatto tremare il mondo distruggendosi a vicenda.
Sarebbe arrivato a quel punto.
Era inevitabile.
E allora perché non sbarazzarsi di lei?
Sussultò. Non aveva avuto intenzione di spingersi fino a quel punto. Ripeté più volte mentalmente la domanda, assaporandola, spostando l’enfasi dal perché al non e poi allo sbarazzarsi.
La domanda si ricompose: «E allora perché non sbarazzarsi di lei?».
Omicidio.
Per poco la parola non gli sfuggì di bocca.
Omicidio...
La dolce, liscia, vellutata forza di persuasione della parola.
Ma... “omicidio”?
Ma “libertà”. Non più sentirla mentre se ne sta lì stravaccata a borbottare e russare. Non più guardarla mentre si trascina in giro ciabattando chiedendosi come e perché lui abbia potuto sposare proprio quella donna. Non più guardarla mangiare e bere fino ad abbrutirsi. Non più lei, né questo, ma libertà e possibilità di ricominciare tutto daccapo, di far meglio la prossima volta, di ripartire da zero...
Il sudore lo solleticava. Aveva voglia di ridere e di piangere. Omicidio. Libertà. Dio mio. Omicidio. Il come. Il quando, il dove. Bisognava riuscirci al primo tentativo, l’unico. Non bisognava agire a precipizio. Doveva riuscire bene. Omicidio. Libertà. E allora perché non... Si rese vagamente conto di sonnecchiare. E allora perché non... Sentì la pendola dell’anticamera battere il quarto d’ora. E allora perché non ti sbarazzi di lei?
Interrompiamo per un momento. Lasciamo intervenire il regista che vuol dire la sua.
Sono io che comando qui. Io dispongo la scena, sistemo le luci, dirigo la musica di fondo, manovro i fili e creo le voci, un sommesso borbottio da parte di lui, uno strillo acuto da parte di lei.
Vedremo. Mi occupo io degli effetti speciali. Io faccio procedere il dramma, senza seguire i dettami della sceneggiatura, ma come mi pare sia meglio a seconda dei momenti. Le sceneggiature vanno bene per chi ha paura o non è capace di improvvisare; io sono per la spontaneità, l’improvvisazione, e chi ha il diritto di dire che sbaglio? Chi ha la presunzione di dettarmi le regole del mestiere? Sta a me scegliere. Io dirigo pensieri e azioni. Le conseguenze le subiranno le mie marionette.
Dunque, pensate. Abbiamo un uomo, un marito, e fra poco comparirà una donna, sua moglie. Sono sposati da undici anni. Non sanno spiegare perché vivano ancora insieme dopo tutto questo tempo, anche se la moglie, che è la più sensibile se non la più intuitiva dei due, potrebbe – naturalmente dietro mio incitamento – alzare le spalle e dire: «Per abitudine». Ma non c’è nessuno con cui sia in confidenza. Ho provveduto io a questo. Non devono aver sollievo, nessuno dei due, nessun sollievo finché non lo deciderò io. Abbiamo, dunque, il matrimonio fallito di due persone che dall’amore sono passate (o meglio, che io ho fatto passare) a quella che si può definire avversione reciproca, sulle soglie dell’odio. So quello che farò.
La sveglia trillò sul comodino. Lei si rigirò brontolando sulla pancia e affondò la faccia nel cuscino. Le molle del materasso protestarono. La sveglia continuava a trillare. Imprecando, lei si drizzò su un gomito, e con la mano libera spense la suoneria. Si girò a guardare l’uomo addormentato al suo fianco. Un filo di bava brillava all’angolo della sua bocca.
Che schifo, pensò la donna.
Si alzò e andò in bagno ad orinare. Lo sportello dell’armadietto dei medicinali sopra il lavandino si era di nuovo aperto da solo. Lei esaminò l’insieme disordinato di flaconi di medicinali, di bombolette di crema da barba, deodoranti e depilatori. Aspirina. Pillole di vitamine. Sonnifero. Tranquillante. Pillole dimagranti. Pillole lassative. Gesù, che casino.
Tirò l’acqua e si lavò le mani. Mentre si lavava i denti prese dall’armadietto una bottiglia marrone e la soppesò sul palmo scuotendola leggermente. Doveva esser mezzo piena. Rimise pensosamente la bottiglietta al suo posto, si sciacquò la bocca e prima di far la doccia sostò un momento in ascolto. Adesso sta russando, pensò disgustata. Gesù. Fa tremare la casa. Ma sentitelo, quel bastardo!
Fece la doccia e si asciugò. Si spruzzò il deodorante sotto le ascelle, e infine trasse dall’armadietto la bottiglietta marrone, svitò il coperchio e ne versò il contenuto sul palmo. Contò le pillole, le rimise nella bottiglietta e ripose questa nell’armadietto. Oh Dio, pensò. Oh Dio, non puoi sapere che effetto fa. Non puoi sapere come reagirebbe lui. Non puoi saperlo ecco tutto.
Invece io sì. Posso saperlo. Io so tutto.
State a sentire; immaginate che sia un ragno appostato nell’angolo strategico di una tela, enorme ma finissima, che copre tutta la città. La rete è così fitta che nessuno può muoversi o parlare, e nemmeno pensare, senza che le relative vibrazioni mi vengano immediatamente trasmesse. E io, come un ragno, sono in grado di distinguere. Una foglia che s’impigli nella tela non desta la mia attenzione. Ma fate che sia invece qualcosa ricco di succhi e io mi precipiterò a svuotano... ecco, così vi siete fatti un’idea. È inutile dilungarsi sulla metafora burattinaio-ragno. Per farla breve, quel che conta è che io so tutto. Tutto di tutto. Niente mi sfugge. Assorbo tutto e so, per esempio, che ognuno (me compreso, sotto questo aspetto almeno io sono come tutti gli altri) ognuno, dicevo, vuole qualcosa. Ambisce al potere, all’immortalità, all’amore. Vuole vendetta. A volte ha fame di tutto questo, e anche d’altro. Io tendo la mia rete sulla città e mi arrivano tutti questi piccoli e grandi desideri, la fame da cui ognuno è pervaso, e come cerca di soddisfarla. Alcuni ricorrono alla bottiglia, o alla violenza, oppure si “bucano”. E poi c’è il sesso. Ci sono gli egoisti e le azioni improntate all’egoismo. C’è il successo. C’è la morte. Nel mio caso c’è la capacità, di cui io solo sono dotato, di influenzare pensieri e azioni di due determinate persone la cui vita ho reso, con metodica precisione e grande abilità, un inferno in terra.
Ma quel che è giusto è giusto. Devo essere assistito giorno e notte, e questo, dopo tutto, è il motivo per cui mi hanno relegato qui. Anche questo è un inferno in terra. Non sono in grado di nutrirmi da solo. Le mie dita sono prive di articolazioni e unite fra loro da membrane. I pollici sono dei monconi che sporgono da un lato di quelle che dovrebbero essere le mani. Non sono in grado di muovermi: i miei piedi sono delle protuberanze rigonfie, senza ossa, con un imprecisato numero di unghie sparse nei posti dove dovrebbero esserci le dita. Non ho talloni. Non riesco nemmeno a controllare lo stomaco, le ghiandole salivari, l’intestino e la vescica. Il mio corpo è un ammasso amorfo, senza spalle né tronco, tutto addome e natiche. Nel cranio ci sono tutti gli organi dei sensi, ma sparsi a casaccio, e solo la metà funziona. Non parlo e non sento, anche se, grazie alla mia rete, nulla mi sfugge. Qualcuno mi ha paragonato ai mostri dei doccioni di Notre Dame, altri hanno pensato che avrei dovuto morire appena nato. Non conoscerò mai l’amore di un altro essere umano.
Però...
A colazione non si rivolsero la parola. Evitarono anche di guardarsi. Lui non le diede neanche il solito bacio pro forma mentre usciva. Lei si versò un altro caffè e lo bevve lentamente pensando alla bottiglietta marrone nell’armadietto dei medicinali.
D’improvviso scoppiò a piangere.
A mezzogiorno lui saltò il pranzo per andare invece a bere. Si raffigurava la moglie morta, immobile ai piedi della scala della cantina. Vedeva se stesso che la guardava dalla sommità della scala. Si chiuse la faccia tra le mani e disse, scosso da un violento tremito: «Oh, Dio mio».
Ma sono io che comando.
Li ho allontanati dall’orlo dell’abisso, non molto, naturalmente, perché non soffrano per essere arrivati al punto da prendere in seria considerazione l’idea di uccidersi a vicenda, ma abbastanza perché vogliano tentare una volta di più a ritrovare ciò che io ho tolto loro tanto tempo fa. L’amore. Il vero, splendido, luminoso amore. L’amore che mi creò. L’amore che avrebbe dovuto sorreggerli quando videro come malamente mi avevano creato. L’amore che non furono capaci di dare anche a me e che non è paragonabile a niente di quello che ho nella grottesca testa di bambino di nove anni.
Adesso Mamma e Papà sono di nuovo a casa. E cercano di baciarsi e di riconciliarsi.