Il
basilisco
di Harlan
Ellison
Titolo originale: Basilisk
Traduzione di Rosella Sanità
© 1972 by Mercury Press, Inc.
Apparso sul n. 670 di Urania (11 maggio 1975)
Tornando da un pattugliamento notturno oltre il perimetro delle postazioni di artiglieria, il caporale dei lancieri Vernon Lestig cadde in una trappola messa sul sentiero dai nemici. Lui stava alla retroguardia a coprire la ritirata della pattuglia dal settore otto recentemente invaso, e, attardatosi troppo, smarrì il camminamento nella boscaglia. Non aveva modo di sapere che stava camminando parallelo alla pattuglia, a una trentina di metri sulla sinistra, ma continuò a camminare diritto, sperando d’incrociarla. E non vide gli aculei dello sbarramento, disposti in modo insidioso, imbevuti di veleno, inclinati per colpire con efficienza, incredibilmente appuntiti.
Due punte vicine penetrarono la protezione dello stivale. La prima s’infilò nella pianta del piede, e il peso di Lestig la spinse in su fino a farla uscire poco sotto l’osso della caviglia, sempre dentro lo stivale. L’altra gli penetrò nel tallone e si scheggiò contro la fibula sopra il calcagno, senza uscire dalla pelle.
Tutti i circuiti saltarono, tutte le lampadine scoppiarono, tutte le valvole bruciarono, i serpenti persero la pelle, le ruote dei carri si misero a stridere, i vetri delle finestre si infransero, i trapani dei dentisti perforarono fino al terminale dei nervi, il vomito salì bruciando lungo la gola, gli imeni si ruppero, le unghie si piegarono graffiando le lavagne, l’acqua cominciò a bollire. Lava. Dolore infinito. Il cuore di Lestig smise di battere, pulsò disperato, riprese a battere, esitò. Il suo cervello si bloccò rifiutandosi di accettare la realtà. Tutti i sensi furono annullati. Saltellò di lato sul piede sinistro sano, strappando l’altro alle punte che spuntavano dal terreno. Lo fece istintivamente, e svenne. Di colpo, svenne per il dolore.
Stava succedendo questo: un mostro nero avanzava verso di lui nell’oscurità senza fine. In un viaggio sconfinato attraverso il mito, si muoveva per arrivare nell’attimo “precedente” la perforazione della carne. Un mostro simile a una lucertola, con occhi che sembravano stagni d’olio, con mortali colori ultravioletti dall’anima di fumo. Sotto la pelle nera priva di peli si agitavano muscoli simili a corde di seta, nervi da ben allenato velocista di un mondo perduto, con eleganti movimenti di una forza coreografica. Il sempre vigile guardiano della fede scendeva adesso a passi leggeri in mezzo alla nebbia delle potenti barriere erette per separare gli uomini dai loro padroni.
In quell’attimo, prima che lo stivale toccasse le punte di bambù il basilisco superò gli ultimi veli del tempo e dello spazio e delle dimensioni, e del pensiero fusi insieme, per assumere forma palpabile nella foresta del mondo di Vernon Lestig. E nella traslazione cambiò mutando fiabescamente. La pelle nera, spessa e oleosa del drago dal fiato mortale scintillò, mandò vampate di calore sulla prateria piatta, e si videro sprizzare lampi dorati dietro le cime delle montagne, e la grande creatura assunse mille colori. Diamanti verdi brillarono sulle pelle del basilisco, i freddi milioni di occhi di un dio senza nome. Rubini saturi del sangue acquoso degli insetti racchiusi nell’ambra dall’alba dei tempi, pulsarono. Gioielli d’oro che mutavano di attimo in attimo forma e profumo e colore, formavano il meraviglioso mosaico della pelle. Un delicato, splendido, sgargiante caleidoscopio luminoso di pelle teso sopra la possente massa dei muscoli.
Il basilisco era nel mondo.
E Lestig non aveva ancora sperimentato il suo dolore.
La creatura sollevò una zampa di raso e l’appoggiò sugli aculei dello sbarramento. Il basilisco si abbandonò lentamente e gli aculei penetrarono nella pelle appena sensibile. Un siero nerastro e fumoso colò sulle punte mescolandosi al veleno orientale. Il basilisco ritirò la zampa, e le due ferite rimarginarono istantaneamente. Si chiusero. Sparirono.
Sparirono. Uno scatto di muscoli, un balzo nell’aria, un turbine di aria nera, e il basilisco si lanciò nel nulla e scomparve. Scomparve.
Alla fine dell’attimo, Vernon Lestig mise il piede sulle punte acuminate.
È risaputo che una creatura il cui sangue è servito a soddisfare la sete di vorvalaka, il vampiro, diventi uno dei succhiatori delle tenebre, un officiante della deità padrona, possessore egli stesso dei poteri che distinguono i discepoli della deità.
Il basilisco non apparteneva ai vampiri, e i suoi poteri non erano quelli dei succhiatori di sangue. Non era stato per caso che il padrone del basilisco l’aveva mandato a reclutare il caporale dei lancieri Vernon Lestig. Esiste un ordine precostituito nella parte oscura dell’universo.
Lottò per non riprendere coscienza, come se a livello cellulare lui sapesse quale dolore lo aspettava alla ripresa dei sensi. Ma la marea rossa si sollevò maggiormente, inghiottì a poco a poco il suo corpo in declino, e alla fine il dolore eruppe dal mare di sangue con una lunga onda avvolgente e lo travolse. Urlò, e l’urlo continuò e continuò a lungo, fino a quando loro non tornarono a fargli un’iniezione di qualcosa che gli attutì il dolore, e lui perse ogni contatto con il caos di dolore che aveva il centro nel suo piede destro.
Quando riprese coscienza era buio, e al primo momento pensò che fosse notte, ma poi aprì gli occhi e continuò a vedere buio. Il piede destro gli prudeva implacabile. Tornò a dormire. Non in coma, a dormire.
Quando riprese coscienza era ancora notte. Aprì gli occhi e capì; di essere cieco. Sentì uno strato di paglia sotto la mano sinistra e capì di trovarsi su un pagliericcio, e che l’avevano fatto prigioniero. Poi cominciò a piangere perché intuiva, senza nemmeno allungare la mano per accertarsene, che gli avevano amputato il piede. Forse anche l’intera gamba. Pianse per non essere più in grado di fare una corsa in macchina a bere qualcosa prima di pranzo. Pianse per non essere più in grado di andare a un cinema senza che la gente lo guardasse facendo finta di non notare che cosa gli era successo. Pianse per Teresa e per la decisione che lei adesso avrebbe dovuto prendere. Pianse per come gli sarebbero stati, adesso, i vestiti. Pianse per quello che avrebbe dovuto dire ogni volta. Pianse per le scarpe, e per molte altre cose ancora. Maledì i genitori, e la pattuglia, e i nemici, e quelli che lo avevano mandato laggiù, e supplicò, pregò ardentemente che uno di loro potesse prendere il suo posto in quel momento. E quando finì di piangere e si augurò di morire, loro vennero a prenderlo per portarlo in una baracca, e là cominciarono a fargli domande. Nella notte. La notte che lui portava con sé.
Loro appartenevano a un popolo antico, con eredità di schiavitù, quindi per loro l’angoscia aveva meno significato del più sottile velo di nuvola rossa sopra un pianeta deserto della stella più lontana del loro cielo. Ma sapevano come sfruttare il dolore, e per loro non c’era niente di male in questo. Per un popolo con un’eredità di schiavitù, il male è un concetto valido per coloro che forgiano i ceppi, non per chi li porta. E in nome della libertà tutto si può fare.
Così torturarono Lestig, e lui disse tutto quello che loro volevano sapere. Tutte le piccole informazioni che conosceva. Posizioni e movimenti e piani e difese e consistenza di truppa e particolari degli armamenti, e la natura della sua missione e le voci che aveva raccolto e il suo nome e il grado, e tutte le cifre del suo numero di matricola che riuscì a ricordare, e il suo indirizzo di casa nel Kansas, e i numero della patente di guida, e quello della carta di credito, e il numero telefonico di Teresa. Disse tutto.
Ma loro continuarono a interrogarlo. Gli legarono le mani dietro la schiena e lo appesero per le braccia a una parete di legno alta quanto un uomo. La circolazione del sangue rallentò, e il peso gli staccò quasi le braccia, e loro lo colpirono con canne di bambù e con sferze. Lui non riusciva nemmeno più a piangere. Non gli avevano dato né cibo né acqua, e non riusciva a produrre lacrime. Ma il fiato gli entrò profondamente nei polmoni calmandogli i dolori al petto. E uno di quelli che lo interrogavano commise l’errore di farsi avanti per afferrare la testa di Lestig per i capelli e sollevarla, e avvicinarsi ancora per fare una nuova domanda. E Lestig... cadendo cadendo... espirò con forza, lottando per vivere. E il suo alito eruppe, e la cosa terribile accadde.
Quando la pattuglia di ricognizione della base uscì per controllare la posizione del comando nemico, quando gli elicotteri scesero nella radura, il Quartier Generale venne informato che tutti i nemici della zona erano morti, tranne uno, e che avevano trovato il caporale dei lancieri di Marina Lestig Vernon C., numero di matricola 526-90-5416, steso privo di sensi sul pavimento sporco di una baracca che conteneva i corpi di nove ufficiali nemici morti in maniera orribile, con molta probabilità di malattia. Il Quartier Generale avrebbe dovuto vedere com’era ridotto quel posto. Gesù, non potevano certo immaginare il puzzo che c’era, e com’erano ridotti quei pendii. Doveva essere stata una terribile malattia a ridurli in quel modo. Il giovane tenente si era sentito male e aveva vomitato. E cosa dovevano fare dell’uomo con la faccia in decomposizione che era riuscito a fuggire nel bosco prima che loro lo raggiungessero? Gli uomini erano spaventati a morte, e...
Il Quartier Generale richiamò immediatamente la pattuglia e inviò sul posto la sezione del controspionaggio che isolò tutta la zona con misure di sicurezza. Dall’uomo con la faccia piagata, poco prima della sua morte, vennero a sapere che Lestig aveva parlato. Gli uomini del controspionaggio mandarono Lestig all’ospedale da campo, e poi a Saigon, e poi a Tokyo, e poi a San Diego, e infine io deferirono alla corte marziale sotto accusa di tradimento e di cospirazione col nemico. I giornali si impadronirono del caso, ingigantendolo, e il processo alla corte marziale venne tenuto a porte chiuse. Dopo parecchio tempo Lestig ne uscì in modo onorevole, il Governo lo ripagò per la perdita del piede e la cecità, lui venne ricoverato per altri undici mesi in ospedale, e in una certa misura riebbe la vista, anche se doveva portare gli occhiali neri.
E alla fine tornò a casa sua, nel Kansas.
Tra Syracuse e Garden City, seduto accanto al finestrino a guardare attraverso la pellicola di polvere che saliva dalla massicciata, Lestig fissava l’ombra del treno che correva piatta sulla pianura del Kansas.
— Ehi, siete il caporale Lestig?
Vernon Lestig mise a fuoco la vista e scorse l’immagine riflessa nel vetro. Si girò. Un cameriere con un vassoio carico di tavolette di cioccolata, di bevande, di panini ai prosciutto e al formaggio, e di giornali, lo stava guardando.
— No, grazie — disse Lestig, rifiutando l’offerta del vassoio.
— Ma non siete voi quel caporale Lestig... — Il cameriere prese un giornale di quelli che aveva sul vassoio e lo aprì rapidamente. — Sì, certo, eccovi qua. Vedete?
Lestig aveva già visto la maggior parte dei giornali, ma quello era il quotidiano locale di Wichita. Si frugò in tasca.
— Quanto costa?
— Dieci cents. — Il cameriere lo guardò con aria sorpresa, poi capì, e fece un sorriso. — Siete rimasto un bel po’ fuori dal mondo, eh, per non ricordare quanto costa un giornale?
Lestig gli diede due monete da cinque cents, poi si girò di scatto verso il finestrino e aprì i giornale. Lesse l’articolo. Era implacabile. Poi c’era una nota che si riferiva a un editoriale interno. Aprì il giornale alla pagina indicata, e lesse. La gente era scandalizzata, diceva. C’erano troppi processi segreti, diceva. È necessario essere informati sui nostri crimini di guerra, diceva. È un abuso inqualificabile da parte dei militari e del Governo, diceva. Significa proteggere, e anche nobilitare i traditori e gli assassini, diceva. Lestig si lasciò sfuggire il giornale dalle mani. I fogli gli restarono sulle ginocchia per un attimo, poi scivolarono sul pavimento.
— Non l’ho mai detto, ma se volete la mia opinione, avrebbero dovuto fucilarvi. —Disse il cameriere allontanandosi rapidamente lungo il corridoio per raggiungere il fondo della carrozza dove scomparve per proseguire il servizio nelle altre vetture. Lestig non si voltò a guardarlo. Anche dovendo portare gli occhiali neri per proteggere gli occhi infermi, riusciva a vedere con molta chiarezza. Pensò ai mesi di cecità e si chiese per la millesima volta che cosa fosse successo in quella baracca. Poi pensò che sarebbe stato molto meglio essere rimasto cieco.
La Rock Island Line era una buona linea ferroviaria. La Rock Island Line era quella che gli serviva. Per tornare a casa. Il panorama esterno si offuscò. Spesso gli si offuscava la vista, quasi che il restauro degli occhi fosse solo temporaneo, una specie di generatore di riserva che intervenisse per fornire di tanto in tanto l’energia necessaria alla vista, e che s’interrompesse quando lo sforzo diventava eccessivo. Poi la luce tornò, e lui fu nuovamente in grado di vedere. Ma era calata una nebbia sugli occhi di Lestig, e sul panorama.
Altrove, avvolto in un’altra nebbia, un grande mostro sedeva sulle zampe posteriori sprizzando colori cromatici dalle scaglie della corazza, e rosicchiava qualcosa che aveva in una zampa anteriore. E guardava, sbuffava, e aspettava che la visione di Lestig schiarisse.
A Wichita noleggiò una macchina, e tornò indietro per cento chilometri, fino a Grafton. La Rock Island Line non fermava più in quella stazione. I treni passeggeri, nel Kansas, stavano scomparendo.
Lestig guidò in silenzio. Nessuna musica di radio gli teneva compagnia. E non canticchiò, né tossì. Guidò con gli occhi fissi sulla strada, senza vedere le colline e le valli attraverso cui passava, caratteristiche di una zona che smentivano il luogo comune che voleva il Kansas completamente piatto. Guidò come chi, avendo il dono di una mente fantasiosa, si sarebbe considerato una specie di testuggine attirata irresistibilmente dal mare.
Passò lungo la cintura di colline di sabbia dell’Arkansas meridionale, abbandonò la statale 96 a Elmer, prima di Hutchinson, e puntò verso sud lungo la statale 17. Erano tre anni che non guidava su quelle strade. D’altra parte, in tutti quegli anni, non aveva più nemmeno nuotato, né era salito in sella a una bicicletta. Ma guidare è una di quelle cose che una volta imparate non si dimenticano più.
Come Teresa.
O la casa. Non si può dimenticare.
O la baracca.
O il puzzo che c’era là dentro. Non si poteva, dimenticare.
Attraversò North Fork all’estremità occidentale della Riserva Cheney, e dopo Pretty Praine svoltò, uscendo dalla statale 17: Arrivò a Grafton poco prima dell’imbrunire. L’immenso disco del sole stava calando dietro le colline. Gli edifici abbandonati della miniera di zinco, ormai chiusa da dodici anni, si stagliavano contro il cielo come dìta nere di una mano gigantesca sollevata dietro l’altura più vicina.
Girò intorno alla piazza, il cui unico ornamento erano il monumento del soldato e del marinaio e il podio smantellato della banda militare. Alle finestre del Municipio sventolava una bandiera a mezz’asta. Un’altra sventolava davanti all’Ufficio Postale.
Si stava facendo buio. Accese i fari. La nebbia davanti agli occhi era stranamente rassicurante, come se lo separasse, proteggendolo, da una terra familiare e sconosciuta nello stesso tempo.
I negozi della Fitch Street erano chiusi, ma le luci sulla pensilina dell’Utopia Theater erano tutte accese, e una piccola folla era in fila sul marciapiede in attesa dell’apertura del botteghino. Rallentò per vedere se conosceva qualcuno, e la gente lo guardò. Un giovane sui vent’anni, che lui non conosceva, indicò la sua macchina poi si girò verso gli amici. Nello specchietto retrovisore Lestig vide due dei giovani abbandonare la fila e dirigersi verso la pasticceria di fianco al teatro. Attraversò il quartiere degli affari e diresse verso casa.
Accese i fari abbaglianti, ma non servirono a dissipare la nebbia entro cui avanzava. Se avesse posseduto un po’ d’immaginazione avrebbe pensato di vedere, il mondo attraverso gli occhi di qualche mostro particolare. Ma lui non possedeva immaginazione.
La casa dove la sua famiglia aveva vissuto per sedici anni era vuota.
Sul prato incolto davanti alla casa era piantato un cartello con la scritta “Vendesi”. Gramigna e altre erbacce avevano invaso il terreno. Qualcuno aveva segato la quercia che sorgeva in mezzo al prato. L’albero, cadendo, aveva spezzato con i rami superiori parte della veranda che girava sul fianco della casa.
Entrò dalla botola per il carbone che si apriva sul retro dell’edificio, e con quel poco di vista che gli restava ispezionò tutte le stanze, sia quelle del piano terreno sia quelle del piano superiore. Fu un’impresa lunga, perché doveva camminare appoggiandosi a una stampella d’alluminio.
Il padre, la madre, e Neola erano partiti in fretta e furia. Negli armadi gli attaccapanni erano tutti raggruppati, come timide creature strette l’una all’altra per farsi coraggio. Il pavimento della cucina era coperto con scatoloni di un mercato. In uno c’era una teiera senza manico, evidentemente scartata. La gola del camino era rimasta aperta, e la pioggia aveva ridotto le cèneri ammucchiate sulla grata in una pasta nera. Su un vasetto di marmellata di more lasciato aperto su uno scaffale della cucina era cresciuta la muffa. E c’era polvere dappertutto.
Mentre toccava le tende stracciate che penzolavano da una finestra del soggiorno, vide i fari delle macchine che stavano girando nel vialetto. Erano tre, e avanzavano quasi incollate l’una all’altra. Altre due si fermarono accanto al marciapiede. La luce dei fari illuminò il soggiorno con un bagliore tenue, Le portiere sbatterono.
Lestig si scostò di lato.
Ombre nere si riunirono davanti ai fari, raggruppandosi, parlando. Una delle ombre si staccò dal gruppo, alzò un braccio, e qualcosa scintillò per un attimo nel raggio dei fari. Poi un crick ruppe una delle finestre con un’esplosione di vetri.
— Lestig, figlio di puttana, bastardo, vieni fuori!
Si mosse con difficoltà, senza far rumore, attraversò il soggiorno, passò in cucina, e scese nello scantinato, Socchiuse con cautela la botola del carbone, e dalla fessura vide qualcuno muoversi all’esterno. Avevano circondato la casa. Il carbone gli scricchiolò sotto il piede.
Richiuse silenziosamente la botola e si girò per tornare di sopra. Non voleva restare in trappola nel seminterrato. Dal pian terreno giunse il rumore dei vetri fracassati.
Salì faticosamente la scala, afferrandosi al corrimano, senza poter usare la stampella, ma attraversò rapido l’appartamento, e infilò la scala che portava al piano superiore. La porta della veranda si trovava nella stanza che era stata dei suoi genitori. L’aprì. La persiana penzolante era appoggiata alla parete esterna appesa a un solo cardine. Uscì sul terrazzo badando di e evitare i punti lesionati dalla pianta abbattuta. Guardò in basso, restando con la schiena contro la parete, ma non vide nessuno. Raggiunse zoppicando la balaustra e la scavalcò, dopo aver lasciato cadere la stampella nel vuoto, poi si lasciò scivolare lungo una delle colonne del portico, stringendosi forte con le gambe, come aveva fatto tante volte da ragazzino quando scappava fuori a giocare dopo che i suoi l’avevano messo a letto.
Successe così rapidamente che non ebbe idea, anche in seguito, di che cosa l’avesse tradito. Prima ancora che toccasse terra col piede, qualcuno lo afferrò alle spalle. Lottò per restare afferrato alla colonna, come uno scimmia al ramo, e cercò anche di scalciare col piede buono. Ma gli fecero perdere l’appiglio, e venne scaraventato a terra. Cercò di sfuggire all’aggressore rotolando su se stesso, ma andò a finire contro un cespuglio di gelso. Allora pensò di nascondersi là dentro, piegandosi in due, ma un piede lo colpì al fianco, e lui cadde disteso sulla schiena. E perse gli occhiali neri. Attraverso la nebbia densa intravvide qualcuno che si lasciava cadere per piombargli addosso. E vide qualcosa di grosso e di lungo che gli veniva sollevato sulla testa. Aveva la forma... sforzò gli occhi per vedere... sforzò...
L’ombra lanciò un urlo, l’arma cadde dalle mani, e le mani vennero portate di scatto alla faccia. Poi l’ombra si allontanò barcollando, passando in mezzo ai cespugli di gelso, e ancora gridando.
Lestig tastò intorno, trovò gli occhiali, e li mise. Poi scoprì di essere coricato sulla stampella d’alluminio. Allora si rimise in piedi con l’aiuto della stampella come uno sciatore che si alza dopo una caduta aiutandosi con una racchetta.
Si allontanò zoppicando passando dietro la casa, le girò attorno e arrivò alle macchine vuote ancora parcheggiate vicino al marciapiede, con i fari accesi e puntati verso la sua vecchia abitazione. Si mise a sedere dietro un volante, vide che la macchina aveva il cambio a cloche, e capì che con un piede solo non ce l’avrebbe fatta a guidare. Stese, raggiunse la seconda macchina, vide che aveva il cambio automatico, aprì silenziosamente la portiera. Si mise al volante e girò la chiavetta d’accensione. Il motore si accese. Dai lati della casa eruppe una massa d’ombre.
Ma quando raggiunsero la strada lui era già lontano.
Rimase seduto al buio, seduto nella nebbia fuligginosa che gli offuscava la vista, seduto nella macchina rubata. Davanti alla casa di Teresa. Non la casa dove la ragazza viveva quando lui era partito tre anni prima, ma quella dell’uomo che lei aveva sposato da sei mesi, quando il nome di Lestig aveva fatto la sua comparsa sulle prime pagine dei giornali.
Era andato fino alla casa dei genitori di Teresa, ma non aveva potuto, o non aveva voluto, entrare in casa ad aspettarla. D’altra parte sulla cassetta delle lettere c’era appuntato un biglietto per il postino che informava di inoltrare tutta la corrispondenza di Teresa McCausland al nuovo indirizzo.
Tamburellò con le dita sul volante. La gamba destra era indolenzita per la caduta. La manica della camicia era strappata e l’avambraccio sinistro aveva un lungo graffio provocato dai cespugli. Ma ormai non sanguinava più.
Alla fine smontò dalla macchina, appoggiò l’ascella all’incavo imbottito della stampella, e si avviò all’ingresso con l’andatura di chi calza le pinne.
Il pulsante di plastica bianca che sporgeva dallo stipite barocco era leggermente illuminato dalla targhetta con il nome “Howard”. Lui lo premette e da un punto imprecisato della casa giunse il suono del campanello.
Venne lei ad aprire. Indossava un paio di pantaloncini blu e una camicia bianca da uomo, logora e senza bottoni. Evidentemente una camicia smessa dal marito.
— Vern... — La voce le morì prima che lei potesse dire «oh», oppure «cosa diavolo...» oppure «dicono...» oppure «no!».
— Posso entrare?
— Vattene Vern. Mio marito...
— Chi è, Terry? — chiese una voce dall’interno.
— Ti prego, vattene — bisbigliò lei.
— Voglio sapere dove sono andati mio padre, mia madre, e Neola.
— Terry?
— Non posso parlare con te... Vattene!
— Devo sapere cosa diavolo sta succedendo.
— Terry? C’è qualcuno?
— Addio, Vern. Mi... — Chiuse la porta, e non disse nemmeno «mi dispiace».
Si girò per andarsene. Lontano, grandi fasci di muscoli si agitarono, un collo di serpente si sollevò, artigli scintillarono contro le stelle. La vista di Lestig si annebbiò, schiarì per un attimo, e in quell’attimo lui venne preso dalla collera. Si voltò di nuovo verso la porta, si appoggiò al muro, e prese a battere contro il battente con la stampella.
All’interno ci furono voci e rumore di passi. Sentì Teresa discutere, supplicare, insistere, perché il marito, non andasse a vedere cos’era tutto quel fracasso. Ma un secondo dopo la porta si spalancò, e Gary Howard comparve sulla soglia. Era più vecchio, e più robusto di spalle, e più collerico di quanto Lestig non lo ricordasse dagli anni dell’università. L’aria irritata di chi si aspetta un venditore di bibbie, o un propagandista dei donatori di sangue, o una girl scout che vendeva caramelle, o un burlone che si divertiva a suonare i campanelli di sera, scomparve, e le labbra si piegarono in un sorriso affettato.
Howard si appoggiò allo stipite e incrociò le braccia al petto gonfiando i muscoli.
— Salve, Vern. Quando sei tornato?
Lestig si staccò dal muro e mise la gruccia sotto l’ascella.
— Voglio parlare con Terry.
— Non so quando sei arrivato, Vern, però sapevamo che ti saresti fatto vedere. Com’è andata la guerra, vecchio mio?
— Vuoi lasciarmi parlare con lei?
— Nessuno le impedisce di parlarti, vecchio mio. Mia moglie è liberissima di vedere anche gli ex fidanzati. Proprio così, mia moglie. Hai afferrato il concetto, vecchio mio?
— Terry? — Si protese in avanti chiamando da sopra le spalle di Howard.
Gary Howard fece un sorriso indulgente e mise il palmo di una mano sul petto di Lestig.
— Non cominciare a seccare, Vern.
— Voglio parlarle, Howard. Subito, dovessi anche scavalcarti.
Howard s’irrigidì, sempre tenendo il palmo della mano sul petto di Lestig. — Razza di bastardo — disse, con calma, e spinse. Lestig barcollò all’indietro, la gruccia gli sfuggì da sotto il braccio, e lui cadde e rotolò giù per i gradini dell’ingresso.
Howard lo guardò disteso a terra, e il sorriso da capo classe gli scomparve dalle labbra.
— Non tornare, Vern. La prossima volta ti cavo il cuore.
La porta sbatté, e dall’interno gli giunse un suono di voci. Voci concitate. Poi, il rumore di uno schiaffo.
Lestig raccolse la gruccia e si rimise faticosamente in piedi. Pensò di entrare di prepotenza, ma lui era Lestig, campione di corsa, una volta, Howard era stato giocatore di rugby.
Tornò alla macchina e si mise a sedere al buio. Non si rese conto di essere rimasto seduto là dentro, fermo davanti alla casa fino a quando un’ombra non si avvicinò alla macchina e lo chiamò.
— Vern...
— Ti conviene rientrare. Non voglio causarti altri guai.
— Lui è salito a fare i suoi rapporti di vendita. Dopo il servizio militare nell’Air Force ha trovato un buon lavoro di rappresentante per la Shoop Motors. Viviamo bene, Vern. E lui è molto buono con me... Oh, Vern, perché? Perché l’hai fatto?
— Ti conviene rientrare.
— Ho aspettato. Tu lo sai che ti ho aspettato, Vern. Poi è successa quella cosa terribile... Vern, perché l’hai fatto?
— Vai via, Terry. Sono stanco, lasciami in pace.
— L’intera città, Vern, l’intera città si vergogna di te. Sono venuti i giornalisti, e quelli della televisione. Sono venuti, e hanno parlato con tutti. Tuo padre, tua madre, e Neola non hanno più resistito a stare qui...
— Dove sono, Terry?
— Sono partiti, Vern. Credo che siano andati a Kansas City.
— Oh Cristo!
— Neola vive più vicino.
— Dove?
— Lei non vuole fartelo sapere, Vern. Credo che si sia sposata. So che ha cambiato nome... Lestig non è più un nome onorato da queste parti.
— Devo parlarle, Terry. Ti prego. Tu devi dirmi dov’è.
— Non posso, Vern. Gliel’ho promesso.
— Allora chiamala. Hai il suo numero di telefono? Ti puoi mettere in contatto con lei?
— Sì, credo di sì. Oh, Vern...
— Chiamala. Dille che resterò in città fin quando non le avrò parlato. Questa sera. Ti prego, Terry.
Lei rimase un attimo in silenzio. Poi disse: — D’accordo, Vern. Vuoi che le fissi un appuntamento alla vostra vecchia casa?
Lui pensò a quelle ombre che aveva visto muoversi nella luce dei fari, e a quella che si era, allontanata gridando mentre lui era disteso accanto al cespuglio.
— No, dille che voglio vederla in chiesa.
— La San Matthew?
— No, la Harvest Baptist.
— Ma è chiusa. È chiusa da anni.
— Lo so. L’hanno chiusa prima ancora della mia partenza. Ma io so come entrarci. Lei se lo ricorda certo. Dille che l’aspetto là.
Un fascio di luce uscì dalla porta d’ingresso, e Teresa Howard si raddrizzò per guardare da sopra il tetto della macchina rubata. Non gli disse nemmeno addio, ma gli toccò rapidamente la faccia con una mano, poi corse via.
Sapendo che bisognava viaggiare ancora, il mostro si sollevò sinuosamente sulle zampe e cominciò ad avanzare attraverso la nebbia delle eternità sconfinate. Dalla gola gli uscì un lieve borbottio di speranza, e i suoi occhi terribili si accesero di gioia.
Era disteso su uno dei banchi della chiesa e sentì scricchiolare le assi della sacrestia. Allora capì che lei era arrivata. Si mise a sedere, cercò di scacciare il sonno dagli occhi annebbiati e si mise gli occhiali neri. In qualche modo servivano.
Lei avanzò al buio lungo la navata centrale, poi si fermò.
— Vernon?
— Sono qui.
La sorella si diresse verso il banco dove si trovava Lestig, ma si fermò a tre file di distanza. — Perché sei tornato?
Lui aveva la bocca arida. Avrebbe voluto bere una birra.
— Dove altro potevo andare?
— Non hai già dato abbastanza dispiaceri alla mamma, a papà, e a me?
Lui avrebbe voluto dirle qualcosa del suo piede e della sua vista, persi in un punto dell’Asia sudorientale. Ma per quel poco che riusciva a vedere, capì che la sorella era cambiata: era invecchiata e aveva l’aria stanca. Non poteva farle questo.
— È stato terribile, Vernon. Terribile. Sono venuti, ci hanno parlato e non ci hanno voluto lasciare in pace. Hanno messo telecamere, e hanno filmato la casa, e noi non potevamo nemmeno uscire. Poi, quando se ne sono andati, sono arrivati quelli della città, ed è stato ancora peggio Oh, Dio, Vern, non puoi immaginare quello che hanno fatto. Una notte sono venuti per fracassare tutto e hanno tagliato l’albero del giardino. Papà ha cercato di fermarli, e loro l’hanno picchiato a sangue, Vern. Avresti dovuto vederlo. Ti saresti messo a piangere, Vern.
Lui pensò al suo piede.
— Siamo partiti, Vern. Dovevamo farlo. Speravamo... — Tacque.
— Speravate che mi avrebbero condannato alla fucilazione, o all’ergastolo.
Lei non disse niente.
Lui pensò alla baracca e al puzzo.
— D’accordo, sorellina. Capisco.
— Mi dispiace, Vernon. Mi dispiace veramente. Ma perché ci hai fatto una cosa simile? Perché?
Lui rimase a lungo senza parlare, e alla fine lei gli andò Vicino, gli mise le braccia al collo, e lo baciò. Poi si allontanò nel buio. Le assi della sacrestia scricchiolarono, e lui fu nuovamente solo.
Rimase seduto sul banco senza pensare a niente. Guardò le ombre, fino a quando gli occhi non cominciarono a fargli scherzi curiosi. Gli parve di vedere piccole luci danzare nell’oscurità. Poi i bagliori si unirono, e divennero rossi, e a lui sembrò in un primo momento di guardare in uno specchio, e poi negli occhi di una creatura mostruosa. La testa cominciò a dolergli, e gli occhi bruciarono... E la chiesa mutò, si sciolse, svanì davanti ai suoi occhi. Lui respirò a fondo, si strinse la gola con le mani, e le pareti ripresero forma. E Lestig si trovò di nuovo nella baracca, dove lo stavano interrogando.
Lui stava strisciando, strisciando sul pavimento polveroso, trascinandosi avanti con le dita che lasciavano impronte a solco sul terreno, cercando di allontanarsi da loro.
— Striscia, striscia, e forse ti lasceremo vivere!
Strisciò. Le loro gambe erano all’altezza dei suoi occhi, e lui sollevò una mano per toccare uno di loro, e loro lo colpirono. Ancora, e ancora. Ma il dolore non era la cosa peggiore. C’era la gabbia da scimmie dove lo tenevano imprigionato per interminabili giorni e interminabili notti. Era troppo piccola per stare in piedi, troppo stretta per sdraiarsi, aperta alla pioggia, aperta agli insetti che andavano a posarsi sulla sua gamba ferita per depositare le uova. E c’era il prurito al fianco che sembrava provocato da frecce di lillipuziani, e il faro appeso ai fili tirati tra gli alberi, il faro che non si spegneva mai, giorno e notte, impedendogli di dormire. E c’erano le domande, le continue domande... e lui strisciava... Dio, come strisciava... Se avesse potuto strisciare intorno al mondo sulle mani insanguinate e su un piede solo, lacerandosi le ginocchia, l’avrebbe fatto. Per dormire, per sfuggire alle frecce dolorose, avrebbe strisciato fino al centro della terra per bere il sangue mestruale del pianeta... per un solo attimo di pace, per risanare la gamba, per un po’ di sonno...
«Perché ci hai fatto una cosa simile? Perché?»
Perché sono un essere umano, e sono debole, e nessuno può aspettarsi che io sia in grado di sopportare qualsiasi cosa. Perché io sono un uomo e non un libro di regolamenti che dice che io devo subire e subire e subire. Perché ero in un posto senza sonno, dove non avevo voluto andare, e dove non c’era nessuno in grado di salvarmi. E perché volevo vivere.
Sentì le assi scricchiolare.
Socchiuse gli occhi e rimase in silenzio ad ascoltare. Ebbe la percezione di movimenti furtivi nella chiesa. Allungò la mano per prendere gli occhiali neri, ma erano fuori portata, allora cercò più lontano, e la stampella cadde con fracasso dal banco. E in quel momento gli furono addosso.
Non seppe mai se erano gli stessi di prima.
Gli vennero addosso rovesciando i banchi, e lo colpirono prima che lui potesse pensare a difendersi in qualche modo.
Gli furono addosso e lo colpirono, e lui si agitò in mezzo alla massa dei corpi. Si trovò davanti un tale dalla faccia da mandrillo, e lo guardò.
Lo guardò. Mentre il mostro colpiva.
L’uomo urlò, si portò le mani alla faccia, e la faccia venne via a pezzi, la carne marcia che gli colava tra le dita. L’uomo cadde all’indietro trascinando altri due, e improvvisamente Lestig ricordò quello che era successo nella baracca, ricordò l’effetto del suo alito, delle sue occhiate, e lì, in quella chiesa abbandonata da Dio, si girò, guardandoli uno a uno, e respirò profondamente alitando loro in faccia, e li guardò attraverso le spaventose notti desertiche di un altro universo, e loro urlarono e morirono, e lui si trovò ancora una volta solo. Gli altri, quelli che stavano attraversando la sacrestia, quelli che avevano seguito Neola, quelli che avevano ricevuto la telefonata di Gary Howard dopo che lui era riuscito a strappare l’informazione alla moglie, gli altri si fermarono, girarono le spalle, e fuggirono...
Così il solo Lestig, fratello del basilisco, che era servitore di un’entità senza nome, lontanissima nel tempo e nello spazio, il solo Lestig rimase in mezzo a quelle sagome contorte che fino a pochi minuti prima erano uomini.
Rimase solo, sentì la forza e la furia che gli pulsava dentro, sentì gli occhi ardere, sentì la morte nascosta nella sua lingua e nel profondo della gola, e sentì il vento mortale che gli gonfiava i polmoni. E capì che la notte era finalmente scesa.
Bloccarono le uniche due strade che uscivano dalla città. Poi presero torce a pila, lumi a petrolio e lampade da minatori. Quelli che anni prima avevano lavorato nella miniera si misero gli elmetti, e avvolsero stracci intorno a bastoni, e li accesero, per mettersi in cerca dello sporco traditore che aveva ucciso i loro figli, e mariti, e fratelli. Nessuno rise nel vedere quella fiaccolata girare per la città, come in una scena di un vecchio film. Il film di una caccia al mostro. Nessuno fece questo paragone, perché se qualcuno l’avesse mai fatto avrebbe riso ancora meno.
E cercarono nella notte, e non lo trovarono. E quando spuntò l’alba, quando spensero le torce, quando la carovana di macchine che circondava la città accese le luci di posizione al posto dei fari, non l’avevano ancora trovato. Alla fine si radunarono tutti sulla piazza per decidere cosa fare.
E lui era lì.
Era sopra di loro, in cima al monumento al soldato e al marinaio, dove aveva trascorso tutta la notte, ai piedi dell’eroe della Prima Guerra Mondiale che teneva un braccio alzato ed un fucile stretto in pugno. Era lì, e il simbolismo non sfuggì loro.
— Tiratelo giù! — urlò uno. E tutti si precipitarono verso il monumento di marmo e bronzo.
Vernon Lestig rimase a guardarli, e parve non dare peso ai fucili, e alle mazze, e alle Luger, ricordi di guerra, che venivano verso di lui.
Il primo a scalare a base del monumento fu Gary Howard. Howard con il suo ampio sorriso. Gli occhi di Lestig si spalancarono dietro gli occhiali neri. Lui se li tolse con gesto indifferente, e “guardò” il tarchiato venditore di macchine.
La folla urlò con una voce sola, e la corsa in avanti s’arrestò nel momento stesso in cui il corpo fumante del marito di Teresa cadeva su di loro con le braccia spalancate e il corpo contorto.
Quelli delle ultime file cercarono di scappare. E lui lo impedì. La folla si fermò. Un uomo alzò la pistola per ucciderlo, ma cadde, con la faccia bruciata e con pustole fumanti e carne putrida al posto degli occhi.
Si fermarono tutti, agghiacciati in un mondo di muscoli tremanti e di energia che non sapevano più come sfogare.
— Ve lo faccio vedere! — gridò. — Vi faccio vedere cosa significa! Voi volevate saperlo, e io vi accontento!
Allora alitò, e gli uomini morirono. Poi guardò, e altri caddero. E alla fine disse, con calma, in modo che tutti lo potessero capire: — È facile, fino a quando capita. Voi non lo saprete mai, patrioti! Voi vivete la vostra vita e dite questo e quest’altro, dite la vostra su come si diventa eroi, ma non lo saprete mai, fino a quando non vi capiterà il momento di scoprirlo. Io l’ho scoperto, e non è stato bello. Adesso lo scoprirete anche voi.
Puntò un dito a terra.
— Mettetevi in ginocchio e strisciate, patrioti! Strisciate verso di me, e forse vi lascerò vivere. Mettetevi a terra come animali, e strisciate sul ventre verso di me.
Ci fu un urlo in mezzo alla folla, e l’uomo morì.
— Strisciate, ho detto! Strisciate verso di me!
Qua e là, in mezzo alla folla, delle persone scomparvero. Una donna delle ultime file cercò di fuggire e lui la bruciò. Lei cadde. Entro il raggio del fumo che le saliva dalla faccia, tutti si inginocchiarono. Poi interi gruppi si prostrarono, e poi si prostrò una metà della folla. E alla fine furono tutti in ginocchio.
— Strisciate! Strisciate, coraggiosi, strisciate, mia gente! Strisciate, e imparate che è meglio vivere, in qualsiasi modo, e restare vivi, perché siete umani! Strisciate, e capirete che i vostri slogan sono merda, che le vostre regole voi le fate valide soltanto per gli altri! Strisciate per salvare le vostre maledette vite e capirete! Strisciate!
E loro strisciarono. Avanzarono sulle mani e sulle ginocchia, attraverso il prato, il cemento, il fango, sui rami dei piccoli cespugli, e nella polvere.
Strisciarono verso di lui.
E lontano, in mezzo a una nebbia oscura, alto sopra ogni cosa, con il basilisco accosciato ai piedi, Quello con l’Elmetto in testa sedeva sorridente sul trono.
— Strisciate, maledetti!
Ma non conosceva il nome del dio che serviva.
— Strisciate!
In mezzo alla folla una donna, che aveva una stella gialla appesa nella vetrina del suo negozio, strisciò accanto a una pistola calibro 32. La toccò con la mano, e strinse le dita intorno al calcio, poi si sollevò di scatto gridando: — Per Kennyyyyy! — E sparò.
La pallottola colpì Lestig alla clavicola e lo spinse indietro, contro la statua. Lui cercò di riprendere l’equilibrio, ma la stampella gli era caduta, e ormai la folla era balzata in piedi e sparava... sparava...
Lo seppellirono in una tomba senza nome, e non ne parlarono più. Lontano, su un grande trono, la mano che accarezzava la pelle del basilisco accovacciato ai suoi piedi come un fedele mastino, anche il dio Armato non ne volle parlare. Non c’era bisogno di farlo. Lestig era scomparso, ma questo era stato previsto.
L’arma era stata disattivata. Ma Marte, l’Eterno, il Dio che Non Muore Mai, il Signore dei Tempi, il Governatore delle Tenebre, il Potentissimo Rampollo del Conflitto, il Padrone degli Uomini, Marte sedeva contento.
Il reclutamento era andato bene.