Il sole di
mezzanotte
di Rod
Serling
Titolo originale: The Midnightsun
Traduzione di Lea Grevi
© 1962 by Rod Serling
Apparso sul n. 318 di Urania (6 ottobre 1963)
«Per diventare un artista di successo non basta mettere un po’ di colore su una tela» era solito ripetere uno dei suoi maestri, anni prima. «Occorre trasferire nel quadro emozioni e sentimenti, servendosi del pennello come se fosse un’estensione del nostro sistema nervoso». Norma Smith guardò fuori della finestra il sole gigantesco, poi tornò a studiare il quadro in lavorazione, posato sul cavalletto che aveva sistemato vicino ai vetri. Tentando di dipingere quel sole, ne aveva catturato in parte l’essenza fisica, questo sì. L’enorme palla bianco-gialla sembrava occupare una buona metà del cielo ed i suoi margini, un tempo sfumati, ora erano più definiti e circondati da lingue di fiamma, anch’esse enormi, in costante movimento.
Questo movimento era riprodotto nel suo quadro, ma il calore, l’incredibile, bruciante calore che arrivava a ondate successive e abbrustoliva letteralmente la città, non poteva essere raffigurato e nemmeno descritto. Era una febbre che non cessava, che, anzi, continuava a salire senza mai un attimo di tregua e che si propagava per le strade come un incendio invisibile.
La ragazza depose il pennello ed attraversò lentamente la stanza fino al piccolo frigo, in un angolo. Ne tolse una bottiglia di vetro, di quelle per il latte, piena d’acqua e con attenzione ne versò un po’ in un bicchiere. Poi ne bevve un sorso e ne sentì il refrigerio espandersi dentro di lei. Nell’ultima settimana la semplice azione di bere dava origine a reazioni particolari. A essere sincera, lei non ricordava di aver mai sentito l’acqua, prima: prima provava sete e l’acqua le dava sollievo dalla sete, ma adesso il semplice inghiottire qualcosa di freddo era di per sé un’esperienza. Ripose la bottiglia dentro il frigo e gettò un’occhiata all’orologio posato sulla libreria.
Segnava le 11 e 45. Sentì un rumore di passi che scendevano le scale, fuori dell’appartamento, con lentezza andò alla porta, la aprì e uscì nell’ingresso.
Una bambinetta di quattro anni la squadrò dal basso, molto seria, poi puntò gli occhi sul bicchiere che lei aveva ancora in mano. Norma si inginocchiò e avvicinò il bicchiere alle labbra della bambina.
— Susie! Non prendere l’acqua della signora! — intervenne una voce maschile.
Norma alzò gli occhi verso l’uomo alto e robusto, sudato fradicio, che indossava una camicia sportiva completamente sbottonata. — È tutto a posto, signor Schuster. Ne ho tanta — disse.
— Nessuno ne ha tanta — ribatté l’uomo, arrivando in fondo alle scale ed allontanando la bambina prendendola per mano. — Non c’è più niente che sia “tanto”, ormai. — Attraversò l’ingresso ed andò a bussare alla porta di fronte. — Signora Bronson! — chiamò. — Ce ne stiamo andando.
La signora Bronson aprì la porta e si affacciò. Era una donna piccola e tozza, di mezza età, il viso lucido di sudore, che indossava un leggero grembiule da casa. Aveva un aspetto trasandato e pareva addirittura brutta, mentre Norma ricordava benissimo che fino a poco tempo prima era stata una donnina piuttosto graziosa, che dimostrava meno della sua età. Adesso il suo viso era stanco, i capelli spettinati e appiccicosi.
— Ha trovato della benzina? — chiese la signora Bronson. Anche la sua voce era stanca.
L’uomo alto annuì: — Una cinquantina di litri. Spero che ci portino almeno fino a Buffalo.
— Fin dove avete intenzione di arrivare? — chiese Norma.
La moglie dell’uomo alto stava scendendo le scale. — Tenteremo di arrivare fino a Toronto — rispose. — In quella città abita un cugino di mio marito.
La signora Bronson si chinò ad accarezzare i capelli della bambina, poi, con delicatezza, le asciugò il visetto arrossato. — Non so se sia prudente che vi muoviate adesso. Le autostrade sono intasate. Paraurti contro paraurti, dice la radio. Perfino con questa carenza di benzina e tutto il resto...
Schuster la interruppe: — Lo so anch’io, ma dobbiamo provarci. — Si umettò le labbra. — Volevamo solo salutarla, signora Bronson. Siamo stati bene, qui da lei. È una persona davvero gentile. — Poi, un po’ imbarazzato, si girò di scatto verso la moglie. — Andiamo, cara.
Afferrò la loro valigia e, sempre tenendo per mano la figlia, scese l’ultima rampa di scalini. La moglie lo seguì.
— Buona fortuna! E buon viaggio! — gli gridò dietro la signora Bronson.
— Arrivederla, signora Bronson! — rispose la voce della donna.
La porta d’ingresso della casa si aprì e si richiuse. La signora Bronson rimase a guardare la rampa di scale per qualche secondo, poi si rivolse a Norma. — E adesso siamo rimaste in due — disse, sottovoce.
— Erano gli ultimi? — chiese Norma, indicando le scale.
— Gli ultimi. La casa è vuota, tranne noi due.
Un uomo che portava una cassetta di attrezzi uscì dall’appartamento della signora Bronson.
— Adesso funziona di nuovo, signora Bronson — disse. — Non posso garantirle per quanto tempo continuerà a funzionare, ma per un po’ non dovrebbe darle più guai. — Gettò un’occhiata a Norma ed armeggiò, un po’ impacciato, con la cassetta degli attrezzi. — Mi pagherebbe in contanti questa volta, signora? — chiese poi.
— Ho il conto aperto da voi — rispose la signora Bronson.
L’elettricista era visibilmente a disagio. — Il padrone dice che da adesso devo farmi pagare in contanti. — Gettò un’occhiata di scusa verso Norma. — Stiamo lavorando ventiquattr’ore su ventiquattro. Di frigo se ne rompe uno ogni minuto. Tutti, ma proprio tutti, vogliono far fare loro del ghiaccio... quando con l’interruzione della corrente ogni due ore per le macchine è quasi impossibile... — Con visibile sforzo tornò a guardare la signora Bronson. — Circa il conto, signora...
— Quant’è? — L’elettricista abbassò di nuovo gli occhi sulla sua cassetta degli attrezzi prima di rispondere, sottovoce: — Devo chiederle cento dollari. — E scosse la testa, sconsolato.
La signora Bronson non riuscì ad impedire che nella sua voce trapelasse lo sgomento: — Cento dollari? Per una riparazione che le ha preso un quarto d’ora?
L’elettricista annuì, vergognoso. — Per una riparazione di un quarto d’ora. Molti pezzi adesso costano il doppio, e anche il triplo. È così da un mese, cioè da quando... — Guardò fuori dalla finestra dell’ingresso che dava sulla strada. — ... da quando è successo.
Vi fu un silenzio pieno di imbarazzo, poi la signora Bronson si tolse la vera dall’anulare. — Non ho più denaro liquido — disse, calma. — Ma questa è d’oro. E vale parecchio. — Tese l’anello all’uomo.
L’elettricista non sapeva più dove guardare. Fece un movimento di scatto, che pareva uno spasmo, ma che non era né un rifiuto né un’accettazione. Poi fissò l’anello e scosse la testa. — Gliela metterò sul conto — disse, girando il viso dall’altra parte. — Non posso prendere la fede di una signora. — Si avvicinò alle scale. — Arrivederla, signora Bronson. E buona fortuna. — Si fermò in cima al primo gradino.
Il sole bianco-giallo era inquadrato dalla finestra sopra la sua testa. Adesso era costante, ma era sempre qualcosa di malefico che non poteva essere ignorato.
— Ho intenzione di portar via la mia famiglia, stanotte — disse l’elettricista, guardando fuori dalla finestra. — Andrò verso nord. In Canada, se ci riesco. Dicono che là fa più fresco. — Si girò a guardare di nuovo le due donne. — Non che faccia molta differenza... è solo un modo per... per tirarla un po’ più per le lunghe. — Sorrise, ma era un sorriso forzato. — Come quelli che ti fanno fretta perché gli aggiusti il frigo e il condizionatore... — Scosse la testa. — È una sciocchezza. È solo per tirarla un po’ più per le lunghe, ecco tutto.
Scese i gradini lentamente, le larghe spalle curve. — Cristo! — lo udirono esclamare le due donne mentre arrivava all’ingresso del pianterreno. — Cristo, che caldo! — I suoi passi si allontanarono.
Norma si appoggiò allo stipite della porta. — Cosa succederà adesso?
La signora Bronson si strinse nelle spalle. — Non lo so. Ho sentito alla radio che da oggi in poi daranno l’acqua soltanto per un’ora al giorno. Dicono che annunceranno quando. — D’un tratto guardò fisso Norma. — Ha intenzione di andarsene anche lei? — sbottò.
Norma scosse la testa. — No, non me ne vado. — Si costrinse a sorridere, poi si girò e rientrò nel suo appartamento, lasciando aperta la porta.
La signora Bronson la seguì. Norma si diresse subito verso la finestra. Il sole la sommerse di calore e la bagnò della sua strana luce, quasi malevola. Aveva cambiato l’intera città: le strade, i palazzi, i negozi avevano assunto un malaticcio colore bianco-grigiastro. L’aria era diventata pesante ed umida.
Sentiva il sudore colarle giù per la schiena e le gambe. — Continuo ad avere questa pazza idea... questa pazza idea che mi sveglierò e scoprirò che non è successo niente — disse. — Mi sveglierò in un letto fresco e fuori sarà notte e ci sarà il vento e i rami stormiranno... e ci saranno ombre sui marciapiedi e la luna. — Girò il viso per guardare direttamente fuori dalla finestra ed ebbe l’impressione di stare di fronte ad una fornace. Le onde di calore la colpivano, le penetravano nella carne, le filtravano nei pori. Continuò, a voce più bassa: — E anche i rumori del traffico, delle automobili, dei bidoni della spazzatura, le bottiglie del latte, le voci. — Alzò una mano e tirò la cordicella della veneziana. Le stecche si chiusero e l’ombra avvolse la stanza, ma il calore rimase. Norma chiuse gli occhi. — Non è strano?... — disse, pensosa. — Non è strano quante cose diamo per certe, immutabili... — Fece una pausa. — ... fin tanto che le abbiamo?
Le mani della signora Bronson sembravano due nervosi uccellini svolazzanti. — C’era uno scienziato alla radio, l’ho sentito stamattina — disse, costringendosi a parlare in tono leggero, colloquiale. — Ha detto che farà ancora più caldo, ogni giorno sempre di più. Dato che adesso ci muoviamo tanto vicino al sole. Ed è per questo che siamo... che siamo...
La voce le morì in gola: non riuscì a pronunciare la parola fatidica.
Non voleva sentirla. Quella parola era “spacciati”. Ma, detta o taciuta, essa aleggiava nell’aria.
Era successo esattamente un mese prima. All’improvviso, inesplicabilmente, la Terra era uscita dalla sua orbita ellittica inserendosi in un’altra che gradatamente, secondo dopo secondo, giorno dopo giorno, la portava più vicino al Sole.
A mezzanotte cominciò a fare quasi altrettanto caldo che a mezzogiorno... e la luminosità era quasi la stessa. Sparirono il buio e la notte. Tutti i piccoli lussi umani – condizionatori d’aria, frigoriferi, ventilatori elettrici – in breve non furono più lussi, ma pietosi tentativi, dettati dal panico, per sopravvivere anche solo temporaneamente.
New York era ormai un gigantesco animale malato, che lentamente si mummificava, mentre la sua linfa vitale evaporava. Si era svuotata di quasi tutti i suoi abitanti, che avevano preso la via del nord, verso il Canada, in una inutile corsa con un sole che li aveva già sopravanzati. La Terra era un mondo infuocato. Ogni giorno il Sole aumentava di dimensioni ed ogni giorno il calore si aggiungeva al calore, finché il liquido nei termometri non ribollì, e respirare, parlare, muoversi divenne un perpetuo tormento. La Terra era un mondo dall’eterno mezzogiorno.
Era il pomeriggio del giorno dopo e Norma saliva le scale di casa con un sacco di carta pieno di roba da mangiare, da cui sbucavano un barattolo e un mazzo di carote rinsecchite. Si fermò sul pianerottolo per tirare fiato. Il leggero vestito di cotone le si era incollato addosso come un guanto bagnato.
— Norma? — la chiamò la voce della signora Bronson. — Sei tu, cara?
— Sì, signora Bronson — rispose lei, ansante.
Riprese a salire. La padrona di casa uscì dal proprio appartamento e subito fissò il sacco che Norma portava. — Il supermercato era aperto?
Norma accennò un sorriso. — Spalancato. Credo che sia la prima volta in vita mia che mi dispiace di essere nata donna. — Depose il sacco di carta sul pavimento e lo indicò. — È tutto quello che avevo la forza di trasportare. Non c’erano commessi né impiegati. Solo poche persone, clienti credo, che si portavano via quello che riuscivano a prendere. — Sorrise di nuovo e raccolse il sacchetto da terra. — Per lo meno non moriremo di fame... e in fondo al sacchetto ci sono tre lattine di succo di frutta.
La signora Bronson la seguì all’interno del suo appartamento. — Succo di frutta! — Batté le mani tutta eccitata, come una bambina. — Oh, Norma... ne possiamo aprire una subito?
Norma si girò verso di lei e, sorridendole, le accarezzò una guancia.
— Certo.
Si mise a vuotare il sacchetto mentre la signora Bronson apriva e chiudeva sportelli e cassetti degli armadietti nella zona cucina.
— Dov’è l’apriscatole?
Norma le indicò l’armadietto di sinistra. — Lì, nel primo cassetto.
Le dita della padrona di casa tremavano per l’eccitazione mentre apriva il cassetto, vi frugava dentro e alla fine ne tirava fuori un apriscatole. Poi la signora Bronson si avvicinò a Norma, fece per porgerle l’arnese, ma all’improvviso le strappò di mano la lattina che la ragazza aveva appena tirato fuori dal sacchetto. Quindi, sempre con le mani che le tremavano, tentò di infilare la punta dell’apriscatole nel coperchio della lattina, respirando pesantemente e a scatti. Ma lattina e apriscatole le sfuggirono e finirono sul pavimento. Allora la donna si lasciò cadere ginocchioni, emettendo un lamento, una specie di gemito infantile. Il suono la riscosse: si morse il labbro e chiuse gli occhi.
— O mio Dio! — bisbigliò. — Mi sto comportando come un animale. Oh, Norma... come mi dispiace...
Norma si inginocchiò vicino a lei, e raccolse lattina e apriscatole. — Lei si sta comportando come una donna spaventata — ribatté, calma. — Avrebbe dovuto vedere me al supermercato, signora Bronson, correre su e giù per i passaggi. Intendo dire proprio correre: andavo di qua e di là, urtavo contro gli scaffali, prendevo una cosa e poi la buttavo via, e poi ne prendevo un’altra e un’altra. — Sorrise e scosse la testa. Poi si rialzò. — E con tutto questo credo di essere stata la persona più calma di tutto il supermercato. C’era una donna, ferma nello spazio davanti alle casse, che piangeva. Semplicemente: piangeva come una bambina e continuava a implorare che qualcuno la aiutasse. — Norma scosse di nuovo la testa, come per cancellare quella scena dalla mente.
D’un tratto una radiolina portatile, posata sul tavolino da caffè, si accese e ronzò. Dopo un attimo ne uscì la voce di un annunciatore. Era una voce baritonale e sonora, ma aveva qualcosa di strano.
— Signore e signori, questa è la stazione radio WNYG. Vi annuncio che trasmetteremo per un’ora, per darvi gli ultimi dati sul traffico ed altre notizie essenziali. Per primo, un comunicato emesso dalla Direzione della Difesa Civile. Fuori New York City tutto il traffico si muove in direzione nord ed est... quindi si consigliano gli automobilisti di non immettersi nelle autostrade fino a nuovo ordine.
Sulla Garden State Parkway, sulla Merritt Parkway e sull’autostrada dello Stato di New York, sempre in direzione nord, si viaggia paraurti contro paraurti, in alcuni tratti con code che raggiungono i settanta, ottanta chilometri. Si pregano gli automobilisti di non immettersi nelle autostrade fino a nuovo ordine...
Un breve silenzio, poi la voce riprese, in tono diverso: — Ed ecco il bollettino meteorologico odierno della Direzione del Servizio Meteorologico. La temperatura alle undici, ora degli stati dell’est, era di settantotto gradi centigradi. Umidità, novantasette per cento. Nessuna variazione della pressione. Previsioni per domani...
Questa volta il silenzio fu più lungo, tanto che Norma e la signora Bronson si girarono a fissare la radio. Alla fine la voce dell’annunciatore riprese per la seconda volta: — Farà caldo. Più o meno lo stesso, solo più caldo...
Dalla radio provenne un mormorio di voci indistinte. — Non me ne frega niente — disse chiaramente l’annunciatore. — Chi diavolo credi che penseranno, che li prende in giro con questo bollettino meteo di merda?... Signore e signori, domani potrete friggervi le uova sul marciapiede, riscaldarvi la minestra nell’oceano e prendervi la più bella abbronzatura della vostra vita solo standovene in qualche maledetta ombra! — Il mormorio delle voci si fece udire di nuovo, stavolta più intenso e con un senso di urgenza, e l’annunciatore, ovviamente, reagì a quello che gli dicevano. — Cosa vuoi dire con panico?... Chi diavolo vuoi che ci sia rimasto, da spaventare?... — Il suono di una risata a denti stretti, poi la voce dell’annunciatore continuò: — Signore e signori, mi dicono che queste mie uscite dal seminato del copione potrebbero indurvi al panico. Ma è mia ferma opinione che in tutta la città non siano rimaste più di dieci o dodici persone che mi stanno ascoltando. Perciò adesso vi propongo un nuovo e speciale concorso. Chi riuscirà con il suono della mia voce a rompere la punta del suo termometro me la mandi. In cambio, io gli manderò un mio opuscolo speciale, studiato per l’occasione, su come stare al caldo quando il sole splende a mezzanotte. Adesso, magari, potrei farvi ascoltare un paio di pizze di spot pubblicitari... Cosa ne dite di una bella birra gelata? Non vi piacerebbe un sacco? — La voce si spense per un attimo. — Lasciami stare, mi senti? — disse ancora. — Lasciami stare, maledizione! Vattene via!
Seguirono altri mormorii agitati e pieni di paura, poi un silenzio definitivo, sostituito dopo qualche secondo dal suono raschiante di una puntina su un disco e, alla fine, da musica da ballo.
Norma e la signora Bronson si scambiarono un’occhiata.
— Ha visto? — disse Norma, mentre si accingeva ad aprire la lattina di succo di pompelmo. — Lei non è la sola ad essere spaventata.
Si slacciò il primo bottone del vestito, poi da uno scaffale prese due bicchieri e vi versò il succo di pompelmo. Tese un bicchiere alla signora Bronson, che lo accettò, ma rimase a guardarlo senza bere.
— Forza, signora Bronson! — disse sottovoce Norma. — È succo di pompelmo.
La donna più anziana tenne gli occhi fissi sul pavimento e molto lentamente depose il bicchiere sul ripiano di cucina. — Non posso — disse. — Non posso vivere a sue spese, Norma. Ne avrà bisogno lei, di questo.
Con uno scatto, Norma si avvicinò alla donna e la prese per le spalle con mano ferma. — Da adesso cominceremo a vivere l’una a spese dell’altra, signora Bronson. — Riprese il bicchiere e lo tese alla padrona di casa, poi le strizzò l’occhio ed afferrò il proprio bicchiere. — Alla salute della nuova arrivata!
La signora Bronson fece un coraggioso tentativo per sorridere e ricambiare la strizzatina d’occhio, ma avvicinando il bicchiere alle labbra dovette reprimere un singhiozzo che per poco non le fece andare di traverso il succo di frutta.
La musica alla radio si interruppe di netto ed un piccolo ventilatore elettrico, all’altra estremità della stanza, smise di muoversi da destra a sinistra mentre le pale rallentavano e si fermavano come quelle dell’elica di un vetusto aereo.
— Hanno tolto di nuovo la corrente — disse Norma, calma.
La signora Bronson annuì. — Ogni giorno la danno per un tempo sempre più corto. Cosa succederebbe se... — Si interruppe.
— Se, cosa? — chiese Norma, con dolcezza.
— Se la togliessero e non ritornasse più? Qui dentro sarebbe peggio di un forno... Caldo come fa adesso, è già quasi insopportabile, ma dopo sarebbe peggio. — Si pose una mano sulla bocca. — Norma, sarebbe molto peggio.
Norma non le rispose. La signora Bronson bevve un altro piccolo sorso di succo di pompelmo, poi posò il bicchiere e si mise a vagare per la stanza, guardando i quadri che ne riempivano le pareti. E c’era tanta disperazione nella sua faccia sudata, un po’ tonda, e tanto terrore negli occhi che a Norma venne voglia di abbracciarla per confortarla.
— Norma — disse la signora Bronson, osservando uno dei quadri.
Norma le andò vicino.
— Dipingi qualcosa di diverso, oggi. Dipingi una scena con una cascata e degli alberi che si piegano nel vento... Dipingi qualcosa... qualcosa di freddo. — D’un tratto la sua faccia disperata si trasformò in una maschera irosa, e lei afferrò il quadro e lo scagliò per terra.
— Maledizione, Norma! — urlò. — Non dipingere più il sole! — Poi cadde sulle ginocchia e si mise a piangere.
Norma continuò a fissare il quadro rovinato. Era quello ad olio cui stava ancora lavorando: la raffigurazione della strada, come la vedeva dalla finestra, con il caldissimo sole bianco che la sovrastava. Lo squarcio nella tela, che attraversava la scena, le dava un aspetto stranamente surrealistico: sarebbe potuto essere un quadro di Dalì.
I singhiozzi della donna più anziana alla fine cessarono, ma lei rimase inginocchiata sul pavimento, a testa china.
Norma le toccò con dolcezza una spalla. — Domani... domani cercherò di dipingere una cascata.
La signora Bronson si tese per prendere una mano di Norma e gliela strinse. Poi scosse la testa e disse, in un roco sussurro: — Oh, Norma, scusami. Bambina cara, mi dispiace tanto. Sarebbe molto meglio se...
— Se, cosa?
— Se morissi. — Guardò Norma negli occhi. — Sarebbe molto meglio per te.
Norma si inginocchiò a sua volta e circondò con le mani la vecchia faccia stanca. — Non dica mai più una cosa del genere, signora Bronson. Per l’amor di Dio, non mi dica mai più una cosa del genere!
Abbiamo bisogno l’una dell’altra. Un disperato bisogno.
La signora Bronson appoggiò per un attimo la guancia sulla mano di Norma, poi si alzò.
Passi pesanti salivano le scale. Dopo pochi secondi sulla soglia della porta rimasta aperta comparve un poliziotto. Aveva la camicia dell’uniforme slacciata e con le maniche malamente tagliate all’altezza del gomito. I suoi occhi si spostarono da Norma alla signora Bronson, mentre si asciugava il sudore della faccia abbronzata. — Siete le sole persone, in questa casa? — chiese.
— Sì, siamo rimaste solo io e la signorina Smith — rispose la signora Bronson.
— Avete acceso la radio, di recente? — chiese ancora il poliziotto.
— È sempre accesa. — La signora Bronson si girò verso Norma. — Norma, cara, che stazione era quella che abbiamo...
Il poliziotto la interruppe. — Non ha importanza. Ne sono rimaste solo due o tre che trasmettono e anzi dicono che da domani non ce ne sarà più nessuna. La questione è che... avevamo provato a far diffondere per radio un avviso per il pubblico, per tutti quelli rimasti in città. — Tornò a guardare le due donne, una dopo l’altra, e poi guardò la stanza tutt’intorno: ovviamente era riluttante a proseguire. — Domani... non ci sarà più alcuna forza di polizia. Ci siamo sciolti. Più della metà dei miei colleghi se ne sono già andati. Qualcuno, come me, si è offerto di restare ancora oggi per avvertire tutti quelli che è possibile rintracciare che... — Si accorse dell’espressione di panico che invadeva il viso della signora Bronson e tentò di rendere rassicurante la propria voce. — La cosa migliore da fare, da questo momento in poi, è di tenere sempre la vostra porta ben chiusa. A chiave. Tutti i matti, i maniaci, gli squinternati rimasti in giro saranno liberi di vagare per le strade. Ci sarà pericolo, signore, perciò tenete la porta chiusa. — Si era reso conto che Norma era la più forte e la più affidabile delle due donne, di conseguenza si rivolse a lei. — Ha qualche arma in casa, signorina? — le chiese.
— No, no, nessuna — rispose Norma.
Il poliziotto rifletté per un momento, poi si slacciò la fondina e ne tolse la pistola d’ordinanza, una 45. La tese a Norma. — Prenda questa. È carica. — Si sforzò di sorridere alla padrona di casa. — Buona fortuna a tutte e due.
Si girò e uscì. La signora Bronson lo seguì. — Agente — chiamò, con voce che le tremava. — Agente, cosa ci succederà, a noi che restiamo?
Il poliziotto era già a mezza scala. Si girò. Aveva il viso stanco e come svuotato di ogni emozione. — E chi lo sa? — replicò, calmo. — Quello che è sicuro è che farà sempre più caldo. Così, forse fra un paio di giorni... — Si strinse nelle spalle — ... o tra quattro o cinque al massimo, farà troppo caldo per restare. — Guardò oltre la signora Bronson, verso Norma che era sulla porta, ancora con la pistola in mano. La sua bocca si strinse in una smorfia amara. — Allora, usate il vostro giudizio, signore. — Si rigirò e riprese a scendere le scale.
Era il giorno dopo. Oppure la notte dopo. L’elettricità se n’era andata, bloccando tutti gli orologi, e perciò la normale misurazione del tempo non funzionava più. Una micidiale luce bianca inondava le strade e con il calore la cronologia si era alterata.
Norma dormiva sul suo divano letto. Indossava solo un paio di slip, ma percepiva le ondate di calore come pesanti coperte di lana ammucchiate su di sé. Le pareva che qualcuno la spingesse in una tinozza di fango bollente, e che il fango le ricoprisse la bocca, il naso, gli occhi man mano che si immergeva. Combattuta tra l’incubo sognato e l’incubo della realtà, si lamentò. Dopo qualche istante aprì gli occhi: aveva un mal di testa lancinante, che le faceva battere le tempie.
Si costrinse ad alzarsi dal letto e lo fece con fatica, e provò la stessa sensazione di un enorme peso che la schiacciasse quando attraversò la stanza fino al frigo. Aprì lo sportello, prese la bottiglia da latte piena d’acqua e se ne versò un quarto di bicchiere.
Bevve l’acqua molto lentamente mentre riattraversava la stanza dirigendosi alla finestra. Sussultò quando toccò il davanzale: era come toccare ferro incandescente. Si portò le dita alla bocca e rimase immobile a succhiarsele finché non decise di versarvi sopra qualche goccia dell’acqua del bicchiere. Alla fine si girò e di nuovo attraversò la stanza, aprì la porta ed uscì nell’ingresso, andando a bussare alla porta dell’appartamento della signora Bronson.
— Signora Bronson? — chiamò. Non ottenne risposta. — Signora Bronson?
Udì i passi lenti al di là del battente e poi il rumore di una catenella. La porta si aprì di pochi centimetri e la signora Bronson sbirciò dalla fessura.
— Sta bene, signora? — chiese Norma.
La padrona di casa tolse la catena e spalancò la porta. Aveva la pelle tirata sulla faccia e gli occhi troppo brillanti: pareva malata. — Sto bene — rispose. — È tutto così silenzioso. Non sento un rumore da ore. — Uscì nell’ingresso e guardò verso le scale. — Che ore sono?
Norma gettò un’occhiata al suo orologio e mosse il polso. — Si è fermato. Non sono sicura dell’ora. Non so neanche se è mattina o sera.
— Io credo che siano press’a poco le tre del pomeriggio — disse la signora Bronson. — Mi sento come se fossero le tre del pomeriggio. — Annuì. — Sì, credo che questa sia l’ora. — Chiuse gli occhi, stringendo le palpebre. — Mi sono coricata un poco — continuò poi. — Ho voluto chiudere le tende per tener fuori la luce, ma diventa così soffocante con le tende chiuse! — Fece un pallido sorriso. — Immagino che sia una questione di psicologia, vero? Voglio dire che so che non c’è molta differenza tra fuori e dentro...
Dall’alto, dal tetto probabilmente, venne il rumore di un vetro rotto, poi un tonfo sordo.
La mano della signora Bronson si tese di scatto ad afferrare Norma. — Cos’era? — bisbigliò.
— Qualcosa... qualcosa che è caduto...
— No... era qualcuno.
Norma guardò su per la rampa di scale che portava all’ultimo piano. — Non aveva chiuso la porta che dà sul tetto? — chiese, anche lei bisbigliando poiché sentiva salire dentro di sé la paura di un incubo.
— Sì — rispose subito la signora Bronson, poi si mise una mano sulla bocca. — No — si corresse e scosse la testa. — Non lo so, non mi ricordo. Credevo di averla chiusa.
Sopra le loro teste una porta venne aperta con uno schianto, e Norma non aspettò di udire altro: prese per un braccio la signora Bronson e la trascinò nel proprio appartamento, sbattendo la porta e chiudendola a chiave. Poi le due donne trattennero il respiro mentre dei passi pesanti scendevano le scale. Si fermarono di fuori.
La signora Bronson si girò verso Norma e aprì la bocca come per dire qualcosa, ma Norma gliela tappò con una mano e con gli occhi l’avvertì di stare zitta. Vi furono dei rumori nell’ingresso, poi i passi si avvicinarono alla porta. — Ehi! — gridò una voce maschile: — Ehi, chi c’è lì dentro? C’è qualcuno?
Norma sentì tutti i muscoli contrarsi, ma né lei né la donna più anziana emisero alcun suono.
— Venite fuori — disse ancora la voce. — Lo so che siete lì dentro. Venite fuori e facciamo amicizia. — Poi la voce si spazientì. — Andiamo... non ho a disposizione tutta la giornata. Se non venite fuori voi, vengo dentro io!
La mano ancora sulla bocca della signora Bronson, Norma si guardò intorno con disperazione. Vide la pistola del poliziotto sul tavolino da caffè e corse a prenderla. Poi tornò alla porta e tenne la pistola vicino al buco della serratura. Ne alzò il cane e, con la faccia quasi contro la porta, disse a voce alta: — Ha sentito quello scatto? Era una pistola. Adesso se ne vada. Scenda le scale ed esca dalla porta che dà in strada. Ci lasci in pace.
Dall’altra parte della porta proveniva soltanto un ansito: chiunque fosse, lo sconosciuto stava riflettendo sul problema.
— D’accordo, dolcezza — disse la voce, alla fine. — Io non discuto mai con una signora che ha in mano una pistola.
Dei passi strascicati scesero le scale, e Norma andò subito alla finestra, piegando la testa di lato per poter vedere, in basso, i gradini che portavano alla porta d’ingresso. Aspettò, ma nessuno uscì dalla casa.
— Non credo che sia sceso giù per le scale... — cominciò a dire, e in quel preciso istante sentì lo scatto di una chiave. Girò su se stessa e vide la signora Bronson che apriva la porta. Urlò: — Signora Bronson, aspetti un mo...
La porta venne spinta con forza da fuori ed un uomo si inquadrò sulla soglia. Gigantesco e nerboruto, dai lineamenti grossolani, indossava una canottiera stracciata ed era piuttosto sporco. La signora Bronson strillò e fece per scappar fuori, ma l’uomo l’afferrò per un braccio e la scagliò all’interno della stanza.
Norma sollevò la pistola, stringendola spasmodicamente e tentando di premerne il grilletto, ma l’uomo balzò in avanti e con una gran botta gliela fece volar via di mano, poi le mollò una sberla in pieno viso.
Stordita e dolorante, Norma indietreggiò. Con un calcio l’uomo spedì la pistola dall’altra parte della stanza, quindi la raggiunse e vi mise un piede sopra. Rimase là, respirando forte e guardando le due donne, l’una dopo l’altra.
— Matte! Tutte matte le donne! Fa troppo caldo per giocare. Fa maledettamente troppo caldo!
Si chinò a raccogliere la pistola, poi studiò la stanza. Vide subito il frigorifero e vi si diresse. Dentro, c’era ancora una bottiglia d’acqua e lui sorrise di soddisfazione, vedendola. Poi, buttando la testa all’indietro, bevve, con l’acqua che gli colava dagli angoli della bocca e gli gocciolava sulla fronte. Quando ebbe finito tutta l’acqua, scagliò la bottiglia contro il pavimento, dove si ruppe con gran rumore.
Sempre stringendo la pistola, fece poi il giro della stanza, lentamente, osservando i quadri, quasi studiandoli. Gettò un’occhiata a Norma e, indicando uno dei dipinti, chiese: — È suo?
Norma annuì in silenzio, non osando parlare.
— È piuttosto brava — disse l’uomo. — Questo quadro è davvero bello. Anche mia moglie dipingeva.
La signora Bronson non riusciva più a dominare il terrore. — Per favore — si lamentò — per favore, ci lasci in pace. Noi non le abbiamo fatto alcun male. Per favore...
L’uomo si limitò a fissarla come se la sua voce provenisse da molto lontano e tornò a guardare i quadri. Poi guardò la pistola che teneva in mano, come se se ne rendesse conto solo in quel momento. Molto lentamente abbassò il braccio e lasciò cadere l’arma sul pavimento.
Accennando ad una smorfia e battendo le palpebre, andò fino al divano letto e vi si sedette.
— Mia moglie... — prese a dire — ... mia moglie stava per partorire il nostro bambino. Era già in clinica. Poi questa storia — fece un gesto verso la finestra — è cominciata. Lei... lei era tanto fragile... piccola, solo una piccola cosa. — Tese le mani come se cercasse a tentoni le parole giuste. — Non riusciva a sopportare il caldo. Hanno tentato di tenerla fresca ma... non poteva sopportare il caldo. Il bambino è vissuto solo un’ora e poi... e poi se n’è andata anche lei.
— Chinò la testa e quando la rialzò aveva gli occhi umidi. — Io non sono un... Io non sono un rapinatore, sono un uomo onesto. Ve lo giuro... sono onesto. È solo che... be’, questo caldo, questo caldo tremendo. Per tutta la mattina ho camminato per le strade cercando dell’acqua...
I suoi occhi chiedevano comprensione e d’un tratto sotto il sudore e lo sporco, la sua faccia fu giovane e spaventata.
— Non volevo farvi del male, sinceramente — riprese. — Non volevo farvi niente. Mi credereste? — Rise. — Avevo paura di voi. Proprio così, avevo tanta paura di voi quanta ne avevate voi di me. — Si alzò dal divano e nell’attraversare la stanza pestò un frammento di vetro.
Abbassò gli occhi a guardarlo. — Mi... mi dispiace per... per questo. Sono un po’ fuori di testa. Ma avevo tanta sete. — Si diresse alla porta e, passando davanti alla signora Bronson, tuttora per terra, tese una mano verso di lei, quasi in un gesto di supplica. — Per favore... per favore, mi perdoni, vuole? Mi perdonerà, per favore?
Sulla soglia, si appoggiò allo stipite per qualche secondo, il sudore che gli colava dalla faccia. — Perché non finisce? — disse, con voce quasi inintelligibile. — Perché, semplicemente, non... Perché non bruciamo? — Girò la testa verso Norma. — Vorrei che finisse. È tutto quello che ci resta... che arrivi la fine. — E se ne andò.
Quando Norma sentì sbattere la porta d’ingresso della casa, andò a rialzare la signora Bronson, poi l’abbracciò e le accarezzò il viso come se fosse una bambina e lei fosse la madre.
— Ho una sorpresa per lei — disse poi. — Signora Bronson, mi sente? Ho una sorpresa per lei.
Andò dall’altra parte della stanza e da una pila di quadri appoggiati alla parete ne prese uno. Si rigirò e lo tenne alto, in modo che la donna anziana potesse vederlo bene. Era una scena buttata giù in fretta, con disperazione, perciò rozza e non bella, ma era una cascata.
La signora Bronson rimase a rimirarlo per lunghi secondi, poi, lentamente, sorrise. — È bellissimo, Norma. Ho visto delle cascate come quella. Ce n’è una vicino ad Ithaca, su a nord. È la cascata più alta in questa parte del paese, e a me piace tanto il rumore che fa. — Si avvicinò alla tela e la toccò. — Quest’acqua limpida che cade e salta sulle rocce... quest’acqua meravigliosa, limpida... — Si interruppe ed alzò gli occhi al soffitto. — Non lo senti? — chiese.
Norma la fissò, sorpresa e un po’ spaventata.
— Non lo senti, Norma? Oh quel bellissimo rumore. È così... così fresco! E così limpido! — Tese l’orecchio mentre attraversava la stanza andando alla finestra. — Oh, Norma, è stupendo — riprese, mentre il suo sorriso diventava evanescente, sognante. — È stupendo, semplicemente. Vieni, possiamo farci una nuotata.
— Signora Bronson... — cominciò Norma, con voce tremante.
— Dài, Norma, facciamo un tuffo e andiamo sotto la cascata. Lo facevo, quando ero ragazza. Basta sedersi là e lasciare che l’acqua ti cada addosso. Oh, che acqua meravigliosa — mormorò, mentre appoggiava la faccia al vetro che bruciava da tanto era caldo. — Che acqua bella... e fresca... Che acqua meravigliosa...
I raggi al calor bianco del sole la colpirono in pieno viso, come artigli d’acciaio, e lentamente la povera donna scivolò sul pavimento, lasciando sulla finestra una traccia di pelle bruciata. Poi si accartocciò su se stessa, come un mucchietto di stracci.
Norma si chinò su di lei. — Signora Bronson? — chiamò. — Signora Bronson?... — Si mise a piangere. — Oh, signora Bronson...
Dopo di che gli eventi precipitarono. I vetri delle finestre dei palazzi cominciarono a screpolarsi e ad infrangersi. Il sole occupava adesso tutto il cielo ed era come un enorme soffitto fiammeggiante che premeva inesorabilmente verso il basso.
Norma aveva tentato di raccogliere la pistola, ma il calcio scottava: impossibile toccarlo. Rimase raggomitolata al centro della stanza ad osservare i colori che, sciogliendosi, colavano sulle tele e per terra in lenti e densi rivoletti, simili a minuscole colate di lava. Dopo un po’ s’incendiarono e le fiamme, come lingue affamate, lambirono le tele e le inghiottirono.
Quando giunse la fine, Norma non provò dolore. Non si accorse nemmeno che gli slip le si incendiarono o che dal suo corpo uscivano, evaporando, tutti i liquidi: era ormai una cosa senza vita al centro di un inferno, e nella sua mente non era rimasto niente che le consentisse di urlare...
Poi la casa esplose e il sole gigantesco divorò la città.
Faceva buio e molto freddo, ed uno spesso strato di brina gelata inquadrava i vetri della finestra. Un medico dalle labbra sottili, il collo del cappotto ancora sollevato, sedeva vicino al letto e toccava con mano esperta la fronte di Norma. Poi girò gli occhi per incontrare quelli della signora Bronson, che era in piedi vicino alla porta.
— Si sta riprendendo. Se l’è cavata — disse, in tono pacato. E, volgendosi di nuovo verso il letto: — Signorina Smith? — Fece una pausa. — Signorina Smith?
Norma aprì gli occhi e lo guardò. — Sì? — bisbigliò.
— Ha avuto la febbre alta, ma credo che adesso stia tornando normale.
— Febbre?
La signora Bronson si avvicinò al letto. — Ci ha fatto prendere una bella paura, bambina... era molto malata. Ma adesso starà di nuovo bene. — Sorrise piena di speranza, rivolta al medico. — Vero, dottore, che adesso starà di nuovo bene?
Il medico non le restituì il sorriso. — Certamente — disse, sempre in tono pacato. Si alzò e fece cenno alla signora Bronson di aspettarlo fuori. Infine rincalzò le coperte intorno alla ragazza, raccolse la sua borsa e uscì nell’ingresso, dove c’era la signora Bronson. Un’aria gelida sibilava per le scale e il pianerottolo, e attraverso la finestra delle scale la neve scendeva a raffiche, mista a ghiaccio.
— Mi auguro che starà bene — disse il medico alla signora Bronson. — Basta che la lasci dormire finché ne ha voglia. — Abbassò gli occhi verso la propria borsa. — Vorrei avere ancora qualche medicina da lasciarle, ma ormai abbiamo usato quasi tutto quello che c’era. — Guardò verso la finestra sul pianerottolo. — Temo che non potrò tornare a vederla. Voglio tentare di portare la mia famiglia verso sud, domani mattina. Un mio amico ha un aereo privato...
La voce della signora Bronson era calma e triste. — Dicono... Alla radio dicono che a Miami fa un po’ più caldo.
Il medico si limitò ad annuire. — Così dicono. — Tornò a fissare la finestra incrostata di ghiaccio. — Ma non facciamo altro che rimandare l’inevitabile. È tutto quello che possiamo fare. Scappare come conigli spaventati verso sud, e dicono che entro una settimana anche là sarà tutto coperto di neve.
Attraverso la porta semiaperta dell’appartamento della signora Bronson giunse la voce di un annunciatore della radio: — Questo è un comunicato sul traffico emesso dalla Direzione della Difesa Civile. Si invitano gli automobilisti a non immettersi nelle autostrade che portano in direzione sud ed ovest, partendo da New York City. Ripeto: gli automobilisti non devono immettersi nelle autostrade!
Il medico strinse più forte la borsa e prese a scendere le scale.
— Stamattina ho sentito alla radio uno scienziato — disse la signora Bronson, mentre scendeva qualche gradino a fianco del medico. — Cercava di spiegare quel che è successo. Perché la Terra ha cambiato orbita e ha cominciato ad allontanarsi dal Sole. Ha detto che... — La voce le divenne tesa. — Ha detto che tra una settimana o due, al massimo tre, non vedremo più il sole... e che tutti... — Si strinse le mani, spasmodicamente — ... e che moriremo congelati.
Il medico tentò di sorriderle, ma non ci riuscì. Pareva disfatto e vecchio, e aveva le labbra livide mentre si girava una sciarpa intorno al collo, si infilava un paio di guanti da sci e riprendeva a scendere le scale.
La signora Bronson lo osservò per qualche secondo, finché non sparì dietro l’angolo del pianerottolo, poi tornò nella camera di Norma.
— Ho fatto un sogno tremendo — disse Norma, a occhi semichiusi. — Davvero un sogno da far spavento, signora Bronson.
La donna più anziana prese una sedia e si sedette al capezzale della ragazza.
— C’era sempre luce, il sole non tramontava mai. C’era anche a mezzanotte e... e la notte non calava più. Non c’era più il buio, insomma, non c’era più la notte. — Norma spalancò gli occhi e sorrise.
— Non è una cosa meravigliosa, invece, signora Bronson, avere il buio e il freddo?
La signora Bronson fissò il viso febbricitante della ragazza e annuì lentamente. — Sì, cara, è meraviglioso — disse a bassa voce.
Fuori, la neve cadeva sempre più fitta e il vetro del termometro si spezzò con uno scricchiolio. Il mercurio era sceso troppo in basso e non poteva più scendere oltre. E con enorme lentezza la notte e il freddo allungarono le loro gelide dita a sentire il polso della città, per poi fermarlo.