Infestata dagli insetti

di Lisa Tuttle

 

 

Titolo originale: Bug House 

Traduzione di Beata della Frattina

© 1980 Mercury Press Inc.

Apparso sul n. 856 di Urania (5 ottobre 1980) 

 

 

 

La casa era un relitto, posato come una nave squassata dalle intemperie su un promontorio coperto da erbacce sovrastante l’oceano. Nel vederla, Ellen si sentì stringere il cuore. 

— È questa? — chiese dubbioso il tassista, mentre rallentava sbirciando attraverso il parabrezza. 

— Dovrebbe — rispose poco convinta Ellen. Non poteva capacitarsi che sua zia – né chiunque altro, del resto – potesse vivere in quella casa. 

Secondo l’usanza locale, la casa era di legno, posata su blocchi di cemento che la tenevano sollevata di circa un metro sul terreno. Ma adesso le inondazioni dovevano essere molto meno dannose del vento, o anche solo del tempo. La casa stava sbriciolandosi sui blocchi che la reggevano. Gli assiti erano logori e chiazzati qua e là dai resti della vecchia vernice grigia. Le finestre prive di tende guardavano cieche, e un’imposta pendeva sbilenca. Fra le assi della cadente balconata del primo piano, Ellen scorgeva lembi di cielo. 

— Vi aspetto, casomai non ci sia nessuno — disse l’autista fermandosi in fondo al vialetto coperto di erbacce. 

— Grazie — rispose Ellen prendendo la valigia. Gli mise in mano l’importo della corsa ed alzò gli occhi a guardare la casa. Nessun segno di vita. Avvilita, disse all’uomo: — Aspettate finché qualcuno non mi avrà aperto, per favore. 

Mentre percorreva il vialetto di cemento tutto crepe che portava alla casa, Ellen fu sorpresa nel veder qualcosa che si muoveva sotto di essa. Si fermò di scatto e sbirciò nel buio. Un cane? Un bambino che giocava? Si trattava di una cosa grossa e scura che si spostava rapida, ma ormai era scappata, o si era nascosta. Ellen udiva alle sue spalle il ronzio del motore del taxi, e per un attimo pensò di tornare indietro. Da Danny. Di tornare ad affrontare i suoi problemi e le promesse e le bugie di lui. 

Riprese a camminare, e quando fu arrivata al portico bussò con le nocche, rapidamente, un paio di volte, sulla cadente porta grigia. 

Una donna vecchia, molto vecchia, magra come uno stecco e ovviamente malaticcia, le aprì. Ellen e la donna si fissarono per un momento senza parlare. 

— Zia May? 

Negli occhi della vecchia passò un lampo di riconoscimento, mentre annuiva. — Sei Ellen, naturalmente.

Ma come mai la zia era così invecchiata?

— Entra, cara — disse la vecchia tendendo un artiglio di pergamena. Ellen sentiva il vento alle spalle, e per un istante ebbe l’impressione che il pavimento del portico stesse cedendo sotto i suoi piedi. Entrò, inciampando. La vecchia – è mia zia, si sforzò di ricordare – chiuse la porta dietro di lei. 

— Non vivrai qui tutta sola — disse Ellen. — Se l’avessi saputo... se papà l’avesse saputo, avremmo... 

— Se avessi avuto bisogno di aiuto l’avrei chiesto — tagliò corto la vecchia con un tono brusco e autoritario che rammentò a Ellen suo padre. 

— Ma questa casa — insisté, — è troppo, per una persona sola. Dà l’impressione di dover crollare da un momento all’altro, e se ti dovesse capitare qualcosa mentre vivi qui tutta sola... non so come... 

Zia May scoppiò in una risata che sembrava il fruscio di un pezzo di carta secca. — Sciocchezze. Questa casa vivrà più a lungo di me. Spesso l’apparenza inganna. Guardati in giro... qui vivo benissimo. 

Soltanto allora Ellen guardò l’atrio d’ingresso. Era una stanza ampia, dal soffitto alto, con un lampadario di ottone e un ricco tappeto orientale. Le pareti erano dipinte di un tenue color crema e l’imponente scalinata aveva un’aria solida. 

— Certo — ammise Ellen — vista all’interno fa un’impressione molto migliore. Da fuori sembrava una casa abbandonata. Il tassista non credeva che ci vivesse qualcuno. 

— A me importa com’è dentro — disse la vecchia. — Ammetto di averla trascurata. È tutta corrosa e mangiata dagli insetti, ma anche così le sue condizioni sono molto migliori delle mie. Sarà ancora in piedi quando io sarò sottoterra, e tanto mi basta, non credi? 

— Ma, zia May... — Ellen l’afferrò per le spalle ossute. — Non parlare così. Non sei moribonda. 

Di nuovo quella frusciante risata. — Cara, guardami. Ho poco da vivere. Ormai non si può più far niente per salvarmi. Sono tutta divorata, dentro, e di me è restato appena quel poco per darti il benvenuto. 

Ellen la guardò negli occhi, e quel che vide le offuscò la vista di pianto.

— Ma i dottori... 

— I dottori non sanno niente. Viene per tutti il momento di passare da questa vita a un’altra. Ma andiamo a sederci. Vuoi mangiar qualcosa? Avrai certamente fame dopo un viaggio così lungo. 

Frastornata e confusa, Ellen la seguì nella cucina, un locale stretto tutto in verde e oro. Sedette al tavolo e guardò la tappezzeria decorata a pesci e padelle.

Sua zia era moribonda. Questo non se l’era aspettato. Era la sorella maggiore di suo padre, ma dopo tutto aveva solo otto anni più di lui. E suo padre era un uomo sano e robusto, ancor pieno di vigore. Guardò la zia, che si trascinava penosamente dalla credenza al tavolo per preparare il pranzo. 

— Lascia fare a me, zia May — disse, alzandosi. 

— No, no, cara. Io so dov’è la roba, tu no. Posso ancora arrangiarmi, come vedi. 

— Papà sa di te? Quand’è l’ultima volta che vi siete visti? 

— Oh, santo Cielo, non voglio affliggerlo coi miei problemi. Non ci vediamo da anni. L’ultima volta dev’essere stato al tuo matrimonio, cara. 

Ellen ricordò. Quella era stata l’ultima volta che anche lei l’aveva vista. Stentava a credere che la donna di allora e quella che le stava davanti adesso fossero la stessa persona. Cos’era successo perché fosse invecchiata a quel modo in tre soli anni?

May posò un piatto davanti a Ellen. Conteneva tonno e maionese, circondati da crackers al sesamo.

— Non tengo mai molti cibi freschi in casa. Per lo più scatolame — disse. — Mi è difficile uscire a far spese, e del resto ho poco appetito. Così non bado molto al mangiare. Vuoi un caffè o un tè? 

— Tè, grazie. Zia, non sarebbe meglio se ti facessi ricoverare in un ospedale dove qualcuno avrebbe cura di te? 

— Posso badare benissimo a me stessa, qui. 

— Son sicura che mamma e papà sarebbero felici se tu andassi... 

May la tacitò scuotendo la testa con aria decisa. 

— In ospedale potrebbero trovare una cura adatta... 

— Per un moribondo, l’unica cura è la morte, Ellen. 

Il bricco cominciò a borbottare, e May versò l’acqua bollente sulla bustina di tè che aveva messo in una tazza. 

Ellen si rilassò contro lo schienale della sedia, appoggiando la testa contro il muro. Sentiva un flebile, ininterrotto crepitio dall’interno del muro. Termiti?

— Zucchero? 

— Sì, grazie — rispose automaticamente Ellen. Non aveva ancora toccato il cibo, e non aveva voglia né di mangiare né di bere. 

— Oh, povera me! — esclamò zia May. — Temo che dovrai berlo amaro. È tanto tempo che non ne facevo uso e ci sono entrate le formiche. 

Ellen la guardò mentre vuotava il barattolo nella pattumiera della cucina.

— Zia May, hai problemi di denaro? Voglio dire... se sei costretta a vivere qui perché non puoi permetterti... 

— Oh no, cara. — May si mise a sedere accanto alla nipote. — Ho fatto degli investimenti e ho denaro in banca sufficiente per i miei bisogni. E questa casa è mia. L’ho comprata quando Victor è andato in pensione, ma lui non è vissuto abbastanza a lungo per godersela insieme a me. 

In uno slancio di affetto, Ellen fece per abbracciarla, ma May la scostò agitando la mano ossuta, ed Ellen si ritrasse.

— Dopo la morte di Victor mi è passata la voglia di rimetterla a nuovo. Ecco perché è rimasta la stessa catapecchia che sembrava quando l’ho comprata. È stato un vero furto, perché nessuno la voleva, questa casa. Nessuno, eccettuati Victor e me. — May chinò la testa di lato e inaspettatamente sorrise. — E tu? Cosa ne diresti se ti lasciassi questa casa, alla mia morte? 

— Zia May, ti prego, non cominciamo... 

— Sciocchezze. E a chi altri dovrei lasciarla? A meno che tu non la possa soffrire, è ovvio, però lasciami dire che la proprietà vale abbastanza. Se la casa sta andando in malora per colpa dell’incuria e degli insetti, puoi sempre farla demolire e costruire qualcosa che piaccia a te e a Danny. 

— Molto generoso da parte tua, zia. Ma non voglio più sentirti dire che sei moribonda, d’accordo? 

— No? A me non fa né caldo né freddo. Ma se ti turba, non ne parlerò più. Vieni, ti mostro la tua stanza. 

Mentre saliva lentamente le scale appoggiandosi alla ringhiera e fermandosi a ogni scalino per riprendere fiato, la vecchia spiegò. — Non salgo più di sopra. Ho trasferito la mia camera da letto al pianterreno. Era troppo faticoso continuare a salire e scendere. 

Al primo piano stagnava un pesante odore di palude e di muffa.

— Questa stanza ha una bella vista sul mare — disse May. — Ho pensato che ti sarebbe piaciuta. — Si fermò sulla soglia di una camera facendo cenno a Ellen di seguirla. — Nell’armadio a muro sul pianerottolo c’è la biancheria pulita. 

Ellen diede un’occhiata alla stanza. Gli unici mobili erano un letto, una sedia dallo schienale rigido e un tavolino da notte. Le pareti verdi erano nude e i vetri delle porte-finestre privi di tende. 

— Non uscire sul balcone. Ho paura che sia marcio — disse May. 

— L’ho notato. 

— Be’, ti lascio sola, cara. Mi sento un po’ stanca. Perché non fai un sonnellino fino all’ora di cena? 

Ellen guardò la zia e si sentì stringere il cuore alla vista di quel pallido viso stanco e rugoso.

Lo sforzo di salire le scale l’aveva sfiancata. Le tremavano le mani e sembrava sfinita. 

Ellen la sostenne. — Oh, zia May — le disse con dolcezza. — Ti sarò d’aiuto, te lo prometto. Non ti affaticare. Penserò io a te e al resto. 

May si svincolò dall’abbraccio, annuendo. — Sì, cara. È molto bello averti qui. Ti diamo il benvenuto. 

Rimasta sola, Ellen si accorse che anche lei era esausta. Si lasciò cadere sul materasso nudo e osservò la tetra stanzetta, con la mente che era tutta un groviglio di problemi vecchi e nuovi. 

Non aveva mai conosciuto abbastanza zia May da diventarne intima, e quella visita improvvisa era frutto di un impulso dettato dalla disperazione. Voleva starsene lontana da suo marito per qualche tempo, per punirlo di una sua recente infedeltà, e aveva pensato dove potersi rifugiare... dove andare se aveva bisogno di un posto alla portata dei suoi mezzi, e dove Danny non potesse trovarla facilmente? La casa solitaria di zia May, sulla costa, le era sembrato il nascondiglio migliore, per una settimana. Aveva previsto noia, pace, ripensamenti, rimpianti, ma non si era certo aspettata di trovare una moribonda. E questo era un altro problema che, al paragone, faceva sembrare insignificanti i suoi problemi coniugali. 

Si sentì improvvisamente sola, abbandonata a se stessa. Come desiderava che Danny fosse lì a confortarla! Perché si era ripromessa di non farsi viva con lui per una settimana almeno?

Però poteva chiamare suo padre. Doveva avvertirlo di non dir niente a Danny? Non sapeva... detestava l’idea di mettere al corrente i genitori dei suoi dissapori col marito. Però, se Danny l’avesse cercata da loro, avrebbero capito che qualcosa non andava. 

Decise comunque di chiamare suo padre quella sera stessa. Sarebbe venuto a vedere sua sorella, ad occuparsi di lei, a farla ricoverare in ospedale, a trovare un medico che l’avrebbe guarita o comunque curata... 

Ma adesso era così stanca che non se la sentiva di muoversi. Si sdraiò sul materasso. Avrebbe preso più tardi le lenzuola. Adesso voleva solo chiudere gli occhi e riposare un momento... 

 

Quando si svegliò era buio, e aveva fame.

Si mise a sedere sul bordo del letto. Era tutta intorpidita e disorientata. La stanza sapeva di muffa. Chissà quanto aveva dormito.

Girò l’interruttore ma non si accese nessuna luce, così uscì a tentoni, percorse il corridoio in penombra fino alle scale. I gradini scricchiolavano sotto il suo peso. Dalla cucina proveniva una luce. 

— Zia May? 

La cucina era vuota, illuminata da un tubo fluorescente. Ellen aveva la sensazione di non essere sola. Qualcuno la stava osservando. Ma, quando si voltò, alle sue spalle c’era solo il buio dell’atrio.

Rimase per un momento ad ascoltare gli scricchiolii e i gemiti della vecchia casa, e i rumori attutiti del vento e del mare, fuori. Nessun rumore umano, e tuttavia aveva la persistente sensazione che se avesse ascoltato bene avrebbe sentito una voce...

Scorse un’altra luce fioca sul lato opposto dell’atrio, e si avviò da quella parte. L’assito del pavimento scricchiolava forte sotto i suoi passi.

La luce che aveva scorto proveniva da una lampadina da notte, e, vicino, scorse una porta socchiusa. Allungò la mano per spalancarla. Allora udì la voce della zia May ed entrò nella stanza. 

— Non sento più le gambe — stava dicendo May. — Non mi fanno male. Non le sento, ecco tutto. Però, non so come, funzionano ancora. Avevo paura che, una volta scomparsa la sensibilità, non mi avrebbero più retto. Invece non è stato così. Però tu lo sapevi, mi avevi detto che sarebbe stato così. — Tossì e nella stanza buia si udì il cigolio di un letto. — Vieni qui, siediti, c’è posto. 

— Zia May? 

Silenzio. Ellen non la sentiva neanche respirare. Finalmente May disse: — Ellen, sei tu?

— Certo. Chi credevi che fossi? 

— Cosa? Oh, probabilmente stavo sognando. — Il letto cigolò ancora. 

— Cosa stavi dicendo delle tue gambe? 

Altri cigolii. — Eh, cosa dici, cara? — La voce era quella di una persona non ancora ben sveglia. 

— Oh, niente — rispose Ellen. 

— Non sapevo che fossi già coricata. Parleremo domattina. Buonanotte. 

— Buonanotte, cara. 

Ellen uscì dalla stanza buia e maleodorante, con la testa confusa. Zia May doveva aver parlato nel sonno. O forse, stanca e confusa, aveva delle allucinazioni. Ma era assurdo pensare – come, a dispetto di tutto, pensava Ellen – che zia May fosse stata sveglia e avesse confuso la nipote con un altro, qualcuno che aspettava, che viveva nella casa, nascosto nel buio. 

Un rumore di passi sulle scale, non molto al di sopra della sua testa, la spinse a correre. Ma le scale erano buie e vuote, e sbirciando fino in alto Ellen non riuscì a veder niente. Probabilmente aveva sentito uno dei tanti rumori di quella vecchia casa moribonda. Ellen tornò in cucina, poco soddisfatta della spiegazione che si era data. Trovò la credenza ben fornita di scatolame e si preparò una minestra. La stava mangiando quando sentì di nuovo il rumore di passi. Questa volta le parve che provenissero dalla stanza sopra la cucina. 

Alzò gli occhi al soffitto. Se davvero c’era qualcuno che passeggiava lassù, non faceva il minimo tentativo di non farsi sentire. Inutile ingannarsi. Quello era un rumore di passi. C’era qualcuno, di sopra. 

Ellen posò il cucchiaio, pervasa da un senso di gelo. Il rumore continuava. Poi, d’improvviso, cessò. Il silenzio che seguì era snervante. Ellen aveva l’impressione di vedere un uomo accovacciato con la testa appoggiata al pavimento. Andò ad aprire l’armadietto a muro vicino al telefono e, sullo scaffale, insieme all’elenco telefonico, a cerotti e lampadine, trovò una torcia elettrica. Proprio come nella casa di suo padre. 

La torcia funzionava, e il nitido fascio di luce le diede conforto. Rammentando che in camera sua mancava la luce, prese anche una lampadina prima di richiudere l’armadietto.

Salita al piano superiore aprì tutte le porte scoprendo una fila di stanze vuote, armadi a muro e bagni. Non aveva più sentito il rumore di passi e non trovò traccia di nessuno o niente che avesse potuto provocare quel rumore. Poco per volta, la tensione cui era in preda si allentò e, dopo aver preso lenzuola e coperte, tornò nella sua stanza. 

Sostituì la lampadina, e la luce si accese. Poi chiuse la porta e si accinse a fare il letto. Qualcosa, sul guanciale, attirò la sua attenzione. Guardando più da vicino notò che sembrava un mucchietto di segatura. Esaminò il muro e vide che una delle assi era costellata da una miriade di forellini da cui usciva la segatura. Ellen arricciò il naso disgustata: termiti. Si trattava certamente di termiti. 

Scrollò vigorosamente il guanciale e lo infilò in una federa, decisa a chiamare suo padre l’indomani mattina appena sveglia. May non poteva continuare a vivere in quel posto.

 

Il sole che si riversava dalla finestra priva di tendine la svegliò di buonora. Ellen fu riportata lentamente alla coscienza dagli stridi dei gabbiani e dall’odore di mare che pervadeva ogni cosa.

Si alzò, rabbrividendo per l’umidità che le era penetrata nelle ossa, e si vestì in fretta. Trovò la zia in cucina, seduta al tavolo, intenta a bere una tazza di tè. 

— C’è dell’acqua bollente sulla stufa — disse May come saluto. 

Ellen si preparò una tazza di tè e sedette accanto alla zia.

— Ho ordinato delle provviste — disse May. — Dovrebbero arrivare fra poco, così mangeremo uova e pancetta per colazione. 

Ellen la guardò e si rese conto che la donna seduta accanto a lei era moribonda. Davanti a quel fatto solenne, incontrovertibile, non trovò nulla da dire. Così, rimasero sedute in silenzio sorbendo il tè, finché non suonò il campanello. 

— Vuoi andargli ad aprire, cara? — disse May. 

Ellen si alzò. — Devo pagarlo?

— Oh, no. Non occorre. Basta che tu lo faccia entrare. 

Perplessa, Ellen aprì la porta a un giovanotto robusto che teneva un sacchetto marrone fra le braccia. Lei si fece avanti incerta per prendere il sacchetto, ma il giovanotto ignorò il gesto e si diresse risolutamente verso la cucina. Depose il sacchetto e cominciò a vuotarlo. Ferma sulla soglia, Ellen lo guardava, notando che l’uomo sapeva dove andavano riposte le provviste. 

Non rivolse la parola a May, che sembrava indifferente alla sua presenza, ma quando ebbe terminato di riporre tutto, si mise a sedere al tavolo, al posto di Ellen, e, reclinando la testa di lato, guardò la giovane e disse: 

— Voi dovete essere la nipote. 

Ellen non rispose. Non le piaceva il modo come la guardava. I suoi occhi scuri, quasi neri, erano duri, senza profondità. E il giovane fece scorrere lo sguardo di quegli occhi lungo tutta la sua persona, valutandola. Poi sorrise al suo persistente silenzio, e osservò: — Un tipo tranquillo. 

May si alzò con la tazza vuota in mano.

— Lascia fare a me — si affrettò a dire Ellen. May le porse la tazza e si mise a sedere, sempre ignorando la presenza del giovane. — Vuoi che prepari qualcosa per colazione? — chiese Ellen. 

May fece un cenno di diniego.

— Mangia pure quel che vuoi, cara. Io non ho voglia... ormai non importa se mangio o no. 

— Invece dovresti mangiare, zia May — insisté Ellen. 

— Be’, se proprio insisti, prenderò soltanto un pezzetto di pane tostato. 

— Io gradirei delle uova — disse lo sconosciuto che si era sdraiato pigramente sulla sedia. — Non ho ancora fatto colazione. 

Ellen guardò May, sperando che le spiegasse chi era quel maleducato. Un amico? Un dipendente? Non voleva esser scortese con lui, per non offendere la zia. Ma la vecchia stava seduta con gli occhi fissi nel vuoto, indifferente.

— Aspettate che vi si paghi per le provviste che avete portato? — chiese Ellen allo sconosciuto. 

Lui sorrise. Un sorriso duro che mise in mostra una dentatura regolare. — È un piacere che faccio a vostra zia, così non deve disturbarsi a uscire, nelle sue condizioni. 

Ellen lo guardò ancora per un momento, aspettando invano un cenno di spiegazione da parte della zia, poi andò al fornello per preparare la colazione. Si chiedeva perché quell’uomo si rendesse utile a sua zia. Davvero non lo pagava? Non le sembrava un tipo da fare dei favori disinteressati. 

— Adesso che ci sono io, qui — disse prendendo uova e burro dal frigo — non dovete più preoccuparvi per la zia. Posso andare io a far la spesa per lei. 

— Vorrei un paio di uova fritte, col tuorlo poco cotto — disse lui. 

Ellen lo fulminò con lo sguardo ma si astenne dal far commenti. Non era il tipo da andarsene se lei si fosse rifiutata di preparargli le uova. Caso mai se le sarebbe cucinate da sé. E poi non doveva dimenticare che aveva portato le provviste. 

Ma si vendicò cuocendo troppo le uova e accompagnandole con fettine di pane bruciacchiato.

Quando si mise a sedere per far colazione; disse in tono provocatorio: — Sono Ellen Morrow. 

Lui esitò il tempo sufficiente a farle pensare di chiedergli senza preamboli come si chiamava, poi disse con voce strascicata: — Potete chiamarmi Peter. 

— Grazie mille — disse lei con tono sarcastico. Il giovane tornò a sfoderare quel suo sgradevole sorriso, ed Ellen sentì che continuava a fissarla mentre mangiavano. Non appena ebbe terminato, Ellen si alzò dicendo alla zia che andava a telefonare a suo padre. 

Allora, per la prima volta in quella mattina, May reagì. Allungò la mano come a volerla trattenere, per ritirarla appena ebbe toccato la nipote. — Ti prego, non preoccuparti per me. Nessuno può far niente, e non voglio che tuo padre si precipiti qui inutilmente. 

— Ma, zia May, sei la sua unica sorella. Devo avvertirlo. Di certo vorrà fare qualcosa per te. 

— L’unica cosa che può fare per me è lasciarmi in pace — disse May. 

Rattristata, Ellen pensò che in fin dei conti sua zia aveva ragione; pure, non poteva lasciarla morire senza cercare di far qualcosa per salvarla. Suo padre doveva essere informato. Per parlare liberamente, ignorò il telefono della cucina e andò nella camera da letto di sua zia, dov’era certa che ci fosse una derivazione. 

Trovò infatti l’apparecchio e compose il numero della casa di suo padre. Il segnale di libero risuonò un’infinità di volte, finché lei riattaccò e provò a chiamarlo in ufficio. Come aveva già supposto, la segretaria le disse che era partito per una delle sue solite partite di pesca e per un paio di giorni non sarebbe stato reperibile. Comunque gli avrebbe detto appena fosse stato di ritorno che lei aveva chiamato. 

Così, non le restava che aspettare. Ellen si avviò verso la cucina. Portava scarpe con suole di gomma che non facevano alcun rumore. Sentì la voce di sua zia che diceva: — Non sei venuto da me, stanotte. Ti ho aspettato tanto. Perché non sei venuto? 

Involontariamente, Ellen si fermò, in ascolto.

— Hai detto che saresti rimasto con me — continuò May con un tono lamentoso che provocò in Ellen un senso di disagio. — Avevi promesso che avresti badato a me finché non fosse venuto il momento. 

— C’era la ragazza, in casa — obiettò Peter. — Non sapevo se avrei dovuto. 

— Che importanza ha se c’è lei? Ellen non conta — ribatté brusca May. — Finché ci sono io, lei non conta. Questa è ancora la mia casa e io... io ti appartengo, non è vero? Non è vero, carissimo? 

Seguì un prolungato silenzio, ed Ellen, cercando di non far rumore, corse via dalla casa.

 

L’aria marina, per quanto calda e umida, era un sollievo dopo l’atmosfera stantia della casa. Ma Ellen, pur aspirandola a profonde boccate, continuava a provare un senso di nausea.

Erano amanti. Sua zia, moribonda com’era, e quello sgradevole giovanotto, erano amanti.

Quel giovanotto aitante, insolente, con quegli occhi duri, andava a letto con la sua anziana, fragile zia. Quel pensiero la turbava, la rivoltava, ma non c’erano dubbi in proposito: il breve dialogo, il tono della voce di sua zia non potevano essere più espliciti. 

Ellen scese di corsa il breve pendio cosparso di erbacce verso la spiaggia angusta, desiderando con tutte le sue forze di dimenticare. Come avrebbe potuto guardare in faccia sua zia, restare nella sua casa, adesso che sapeva?

Le sembrò di risentire la voce di Danny, stanca, sprezzante, eppure ancora affettuosa: — Sei un’ingenua per quel che riguarda il sesso, Ellen. Credi che tutto sia o bianco o nero. Sei una bambina. 

Ellen si mise a piangere pensando a Danny, pentendosi di essere fuggita da lui. Cosa le avrebbe detto in questa circostanza? Che anche sua zia aveva il diritto di divertirsi, e che l’età non contava. Anche quello era un pregiudizio. 

Ma... e lui? si chiedeva Ellen.

Peter... cosa ne ricavava da quella relazione? Era sicura che, in un modo o nell’altro, ne ritraeva un utile. Forse la derubava, pensò, ricordando tutte quelle stanze vuote al primo piano. 

Trovò un fazzoletto di carta in una tasca dei jeans e si asciugò le lacrime. Quello che aveva saputo spiegava molte cose. Adesso capiva perché sua zia si rifiutava di lasciare quella cadente catapecchia e perché non voleva che venisse suo fratello. 

— Salve, Ellen Morrow. 

Lei alzò la testa, sorpresa, e se lo ritrovò davanti, in mezzo al sentiero, che sorrideva con quel suo duro sorriso. Rispose con un monosillabo, e distolse la sguardo da quegli occhi scuri impenetrabili. 

— Non siete molto cordiale — osservò lui. — Ci avete piantati in asso. Non mi avete dato l’opportunità di parlare con voi. 

Lei gli scoccò un’occhiata micidiale e cercò di sorpassarlo, ma lui le si mise al fianco. — Non dovreste essere così ostile — le disse. — Dovreste cercare di conoscermi. 

Ellen si fermò voltandosi a guardarlo in faccia. — Perché? Non so chi siete né cosa fate in casa di mia zia.

— Credo che ve ne siate fatta un’idea — replicò lui, lasciandola di stucco. — Mi occupo di lei. Era sola, senza parenti né amici, prima che arrivassi io. Sola e indifesa. Forse voi ci troverete da ridire, ma lei mi è grata. Non le farebbe piacere se cercaste di allontanarmi. 

— Adesso ci sono io — disse Ellen. — Faccio parte della famiglia. E verrà anche suo fratello. Non sarà più sola... alla mercé di un estraneo. 

— Lei non vuole che me ne vada, e non vuole che venga nessuno della vostra famiglia. 

Dopo un breve silenzio, Ellen riprese: — È sola, vecchia e malata... ha bisogno di assistenza. Ma voi che tornaconto ne ricavate? Credete che vi lascerà dei soldi alla sua morte? 

— Vostra zia non ha denaro — disse lui con un sorriso sprezzante. — Tutto quel che possiede è quella bicocca malandata, che ha intenzione di lasciare a voi. Io le do quello di cui ha bisogno, e cioè qualcosa di più indispensabile e importante del denaro. 

Temendo di arrossire e non volendo che lui se ne accorgesse, Ellen si voltò avviandosi a lunghi passi sulla sabbia, verso la casa. Lui le camminava al fianco, ma Ellen lo ignorò finché lui non le afferrò un braccio. Ellen si lasciò sfuggire un fremito soffocato che la imbarazzò, ma Peter non diede segno di averlo sentito. Dopo averla costretta a fermarsi, le stava indicando qualcosa sulla sabbia. 

Ancora un po’ impaurita, e sentendosi molto sciocca, Ellen si accovacciò accanto a lui, e vide cosa aveva attirato la sua attenzione. Si trattava di una battaglia, una lotta per la sopravvivenza in una piccola arena sabbiosa. Un ragno del color della sabbia danzava leggero sulle lunghe zampe. Gli girava intorno, il corpo chitinoso che brillava scuro al sole, il nero pungiglione proteso, una vespa. 

C’era un che di misteriosamente affascinante nel modo con cui i due antagonisti giravano uno intorno all’altro, circospetti, fermandosi, ritraendosi e balzando di nuovo all’attacco. Il ragno sulle sue zampe delicate sembrava nervoso ad Ellen, mentre la vespa era sicura e decisa. Sebbene non le piacessero né le vespe né i ragni, Ellen sperava che vincesse il ragno. D’improvviso, la vespa scattò in avanti; il ragno si ribaltò agitando le zampette come dita, e i due lottarono per qualche istante. 

— Ah, ecco che l’ha preso — mormorò Peter. Ellen vide che aveva uno sguardo intenso, assorto nella lotta mortale. 

Abbassò gli occhi e vide che il ragno giaceva immobile, mentre la vespa gli girava intorno.

— L’ha ucciso — disse. 

— No — corresse Peter — il ragno non è morto, solo paralizzato. La vespa vuole accertarsi che la sua puntura faccia effetto prima di continuare. Poi scaverà una buca e ci trascinerà dentro il ragno e deporrà le uova nel suo corpo. Il ragno non potrà far altro che restare immobile nella casa della sua nemica in attesa che le uova si schiudano e che le larve lo divorino. — Sfoderò il suo sgradevole sorriso. 

Ellen si alzò.

— Naturalmente il ragno ha perso la sensibilità — continuò Peter. — È vivo, ma non sente niente. Funzionano solo i sensi superficiali. Il veleno paralizzante che la vespa gli ha iniettato lo ha virtualmente ucciso. Un essere più progredito potrebbe torturarsi al pensiero del futuro, della morte inevitabile... ma quello non è che un ragno. E cosa può sapere un ragno? 

Ellen si allontanò senza rispondere. Si era aspettata che la seguisse, ma quando si voltò vide che slava sempre accovacciato a guardare la vespa che portava a termine il suo mortale rito.

Entrata in casa, Ellen chiuse a chiave il portone, e poi si assicurò che anche tutte le altre porte e le finestre fossero chiuse. Sebbene sospettasse che la zia avesse dato a Peter le chiavi di casa, non voleva esser colta di sorpresa da lui. Stava chiudendo la porta laterale, di fianco a quella della stanza della zia, quando la voce flebile della vecchia disse: — Sei tu, tesoro?

— Sono io, zia May — rispose Ellen chiedendosi a chi fosse rivolto quel “tesoro”. Dibattuta fra compassione e disgusto, entrò nella stanza. 

Dal letto, la zia le rivolse un debole sorriso. — Mi stanco così facilmente, adesso. Credo che oggi resterò a letto tutto il giorno. Che altro mi resta, se non aspettare?

— Zia May, potrei noleggiare un’auto e portarti da un dottore... o forse potremmo trovarne uno disposto a venire qui. 

May scosse la testa grigia sul cuscino. No. No. Un dottore non può far niente, e non esiste medicina al mondo che possa giovarmi ormai. 

— Qualcosa che ti faccia sentire meglio. 

— Cara, sento così poco. Non provo alcun dolore. Non preoccuparti per me, ti prego. 

Sembrava così sfinita, pensava Ellen, logora, ormai al lumicino. Guardando quel minuscolo corpo fra le lenzuola, si sentì riempire gli occhi di lacrime. D’impulso, cadde in ginocchio accanto al letto. — Zia May, non voglio che tu muoia!

— Su, su — mormorò la vecchia senza muoversi. — Non te la prendere così. Anch’io la pensavo allo stesso modo, una volta, ma adesso non più. Mi sono rassegnata all’inevitabile, e anche tu devi fare lo stesso. 

— No — sussurrò Ellen premendo la faccia sulle coperte. Avrebbe voluto abbracciare la zia, ma non osava, intimorita dall’immobilità della vecchia. Avrebbe voluto che allungasse una mano o che voltasse la testa verso di lei per lasciarsi baciare. Non se la sentiva di fare la prima mossa. 

Finalmente smise di piangere e alzò il capo. La zia aveva chiuso gli occhi e respirava lentamente, tranquilla. Si era addormentata. Elle si alzò ed uscì. Come avrebbe voluto che ci fosse lì suo padre con cui condividere la pena che l’opprimeva. 

 

Passò il resto della giornata a leggere e a girare senza scopo per la casa, pensando a Danny, alla zia e anche a quell’antipatico estraneo, Peter, con un senso di frustrazione, perché non poteva far niente. Si alzò il vento, e la vecchia casa scricchiolava. Coi nervi tesi, sentendosi intrappolata in quella cadente carcassa, uscì sotto il portico a guardare l’oceano grigio e bianco. Lì fuori le sferzate del vento le facevano piacere e gli scricchiolii del balcone non la infastidivano. 

Oziosamente, il suo sguardo si posò sulla ringhiera su cui posava le mani e ne staccò una scheggia con l’unghia. Con sua sorpresa non si staccò solo la scheggia ma un buon tratto di legno marcio che scoprì la superficie interna molle e piena di forellini come una spugna. Le parve che il legno vibrasse e dopo un attimo di perplessità capì che il legno era infestato dalle termiti. Con un grido di disgusto arretrò guardando la parte che aveva scoperto. Poi rientrò in casa chiudendo la porta a chiave. 

Cominciava a far buio, ed Ellen provava sempre più il desiderio di compagnia. Si rese conto che non aveva più saputo niente della zia da quando l’aveva lasciata addormentata, la mattina. Dopo aver dato un’occhiata in cucina per vedere cosa poteva preparare per cena, Ellen si recò nella stanza della vecchia. 

Era buio, e nella stanza regnava un silenzio che le parve innaturale. In preda all’apprensione, si soffermò sulla soglia tendendo le orecchie nel tentativo di percepire qualche suono. Poi capì il motivo di quel silenzio. May non respirava. 

Ellen accese la luce e si precipitò accanto al letto. — Zia May, zia May — gridò sperando al di là di ogni speranza. Afferrò una mano gelida illudendosi di percepire le pulsazioni, e posò la testa sul petto della vecchia, trattenendo il respiro, per ascoltare i battiti del cuore. 

Niente. May era morta. Ellen si ritrasse, restando inginocchiata al capezzale, con la mano della morta fra le sue. Guardava quel viso immobile, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, in preda a un dolore crescente.

Dapprima pensò che fosse una goccia di sangue. Scura e lucida, era apparsa sul labbro inferiore di May scivolando lentamente giù dall’angolo della bocca. Ellen guardò stupefatta la goccia staccarsi dal labbro e muoversi sul mento senza lasciarsi dietro alcuna traccia. 

Allora capì cos’era.

Era un piccolo insetto, nero e lucido, non più grande dell’unghia del mignolo. E, mentre lei continuava a guardare, un secondo insetto strisciò cauto sulla sporgenza del labbro di May.

Ellen arretrò carponi, con lo stomaco in subbuglio. Le sembrava di sentire anche un odore orrendo. Arrancando, riuscì a rimettersi in piedi e a uscire senza vomitare né perdere i sensi.

Una volta nell’atrio, si appoggiò al muro, cercando di fare ordine nei suoi pensieri.

May era morta. E con gli occhi della mente vide un torrente di insetti neri rovesciarsi dalla sua bocca. 

Stringendo i denti, si sforzò di pensare a qualche altra cosa. Non era vero. Non era successo niente. Non doveva pensarci. Non doveva...

Ma May era morta, e questa era una realtà che lei doveva affrontare. Asciugò con un gesto impaziente le lacrime che le riempivano gli occhi. Non era il momento. Piangere non serviva a niente. Doveva pensare. Doveva chiamare un’impresa di pompe funebri? No, prima un dottore, anche se ormai le sue prestazioni erano inutili. Ma un dottore le avrebbe detto quello che doveva fare, a chi doveva notificare il decesso. 

Andò in cucina e accese la luce, notando così che il buio era calato all’esterno come una tenda ad oscurare la finestra. Nell’armadietto accanto al telefono trovò l’elenco degli abbonati locali, e consultò la lista dei medici. Ce n’erano pochissimi. Scelse il primo e alzò il ricevitore. 

Il telefono era muto. Perplessa, premette il pulsante. Niente. Però la linea funzionava perché si sentiva un leggero rumore, un respiro lieve, come se qualcuno avesse sollevato il ricevitore di un altro telefono, in casa, e stesse in ascolto. 

Sconvolta, Ellen sbatté il ricevitore sulla forcella. Si era sbagliata. Non poteva esserci nessuno in casa. Però uno degli altri apparecchi poteva avere il ricevitore staccato. Cercò di rammentare se ne avesse visto uno, al piano superiore, perché non aveva la forza di rientrare da sola nella stanza di sua zia. 

Tuttavia pensò che se anche ci fosse stato un altro apparecchio di sopra, lei non l’aveva visto né tanto meno usato, ed era improbabile che l’inconveniente dipendesse da esso. Invece era più probabile che fosse staccato quello nella camera della zia. Doveva andare a vedere. 

Lui l’aspettava nell’atrio, immobile. Ellen si sentì mozzare il fiato in gola e arretrò, incapace di emettere un suono. Lui avanzò, accorciando lo spazio che li divideva. 

Finalmente Ellen ritrovò la voce, e, vincendo la paura istintiva che provava per lui, disse: — Peter, dovete andare a chiamare un dottore per la zia. 

— Ha detto che non vuole dottori — rispose lui. E la sua voce pacata le diede un senso di sollievo dopo quel sinistro silenzio. 

— Ormai non conta più quel che vuole o non vuole — disse. — È morta. 

Il silenzio ronzava intorno a loro. Era troppo buio per poterne essere sicura, ma a Ellen parve che lui sorridesse.

— Allora, volete andare a chiamare un dottore? 

— No. 

Ellen arretrò, e lui la seguì.

— Andate almeno a darle un’occhiata. 

— Se è morta non ha bisogno di un medico — replicò lui. — Penseremo domattina a sistemare il cadavere. Ormai è tardi. 

Ellen continuava ad arretrare, aveva paura di voltargli la schiena. Quando si ritrovò in cucina, tentò ancora di telefonare. Ma lui non glielo permise. Prima che fosse riuscita a sollevare il ricevitore, allungò la mano e strappò il cavo dal muro. Sorrideva sempre. Poi afferrò il telefono con il filo penzolante e lo sollevò sopra la testa per poi scagliarlo con violenza sul pavimento. L’apparecchio andò a fracassarsi sul linoleum, a pochi centimetri dai piedi di Ellen. 

Paralizzata dal terrore, incapace di muoversi e di parlare, cercava disperatamente di trovare il modo di sfuggirgli. Pensava al buio, fuori, alla lunga strada sterrata dove non passava nessuno, alla spiaggia deserta. Poi pensò alla stanza della zia, che aveva una pesante porta di quercia e dove c’era un telefono che forse funzionava ancora. Poteva tentare.

Lui continuava a fissarla senza muoversi. Ellen aveva l’assurda idea che volesse ipnotizzarla, per impedirle di scappare o, più semplicemente, aspettava che facesse lei la prima mossa.

Ellen non ne poteva più. Non potevano restare in eterno a fissarsi. Doveva fare qualcosa. Lui le stava troppo vicino per sperare di riuscire a sorpassarlo, ma se si fosse spostata sulla sinistra, l’avrebbe aggirato e poi sarebbe corsa verso la porta... 

Lui la bloccò con le sue braccia poderose appena ebbe mosso il primo passo. Ellen urlò ma lui le chiuse la bocca con la sua, soffocando il grido.

La sensazione di quella bocca fu la cosa che la terrorizzò più di ogni altra. Fino a quel momento, nonostante l’avesse temuto e avesse diffidato di lui, non aveva affatto pensato che volesse violentarla. 

Si dibatté con tutte le sue forze, mentre le braccia di lui rafforzavano la stretta immobilizzandola e togliendole il respiro. Ellen cercò di colpirlo a calci o di dargli una ginocchiata nell’inguine, ma non riusciva a sollevare abbastanza le gambe e i calci che riusciva a sferrare erano deboli e senza effetto. 

Lui staccò la bocca dalla sua e la trascinò nel buio dell’atrio schiacciandola sul pavimento con il peso del proprio corpo. Ellen si consolò pensando che portava dei jeans molto aderenti. Per riuscire a sfilarli... ma non glielo avrebbe permesso. Appena lui avesse allentato sia pur di poco la stretta, gli avrebbe cavato gli occhi. Era decisa a farlo, quando lui si alzò, ma Peter le teneva inchiodati saldamente i polsi con una mano. Appena libera del suo peso cominciò a scalciare, ma le sue gambe erano ostacolate da quelle di lui, e di conseguenza i suoi calci riuscivano inoffensivi. 

Di punto in bianco, lui le lasciò andare le mani. Colta di sorpresa lei esitò un attimo di troppo ad artigliargli gli occhi, e quando cercò di muoversi Peter la stordì con un violento pugno allo stomaco. 

Non riusciva a respirare. Istintivamente si ripiegò su se stessa, consapevole solo di quel tremendo dolore. Intanto, Peter le aveva abbassato jeans e mutandine fino alle ginocchia, poi trascinò il suo corpo inerte come se fosse un oggetto, e la costrinse a mettersi in ginocchio. 

Tremante, in preda a una nausea che non riusciva a sfogare, cercando di riprendere fiato, sentì le mani di lui insinuarsi fra le sue cosce... e poi provò un nuovo e diverso dolore, una fitta acuta e lacerante mentre lui la penetrava. Fu tutto quel che sentì. Un dolore acuto, un senso d’impotenza, e poi il torpore. Sentì – o meglio smise di sentire – un’ondata di torpore, come un freddo intenso che fluiva dalla vagina allo stomaco ai fianchi e poi giù nelle gambe. Anche le costole erano intorpidite e non sentiva più il dolore del pugno che le aveva dato. Niente, né dolore, né altro. Sentiva le labbra, poteva aprire e chiudere gli occhi, ma dal mento in giù era come se fosse morta. 

E alla perdita della sensibilità si aggiunse la perdita di controllo. Le sembrava di essere una bambola di pezza stesa sul pavimento, e sebbene pensasse che lui continuava a violentarla, non poteva alzare né girare la testa per guardare. 

Oltre all’ansito affannoso del proprio respiro, Ellen percepì un altro suono, un sommesso ronzio. Il suo corpo sussultava e si sollevava a tratti, probabilmente in risposta a quello che lui le stava ancora facendo. 

Ellen chiuse gli occhi e pregò di svegliarsi. Dietro le palpebre chiuse sfilarono vivide immagini. Rivide l’insetto sul labbro della morta, una specie di scarafaggetto nero, duro e lucente come gli occhi di Peter. La vespa nella duna di sabbia che girava intorno al ragno paralizzato. Il cadavere di zia May coperto da una rilucente marea di insetti che vi strisciavano sopra, banchettando. 

E dopo aver finito con sua zia sarebbero venuti e avrebbero trovato il suo corpo sul pavimento, paralizzato e pronto per loro?

Pianse a quell’idea e riaprì gli occhi. Vide davanti a lei i piedi di Peter. Dunque, aveva finito. Riprese a piangere.

— Non lasciarmi così — mormorò ancora in preda al terrore suscitato da quei pensieri. 

Sentì l’aspra risata di lui. — Lasciarti? Ma questa è casa mia. 

Allora lei capì. Ma certo che sarebbe rimasto. Sarebbe restato con lei com’era restato con sua zia, a osservarla mentre continuava a deperire sempre più, finché non sarebbe morta e avrebbe espulso il fardello vivente che lui le aveva inoculato. 

— Non sentirai niente — le disse.