Cacciatore
solitario
di James
Gunn
Titolo originale: If I Forget Thee
Traduzione di Beata della Frattina
©1978 James Gunn
Apparso sul n. 812 di Urania (2 dicembre 1979)
«Le acque ricche di proteine e aminoacidi si frangevano contro la bollente roccia vulcanica, sollevando colonne di vapore, ricadendo, e così per secoli e millenni finché una catena di proteine formatasi per caso non conquistò la facoltà di riprodursi e cominciò a nutrirsi e a crescere e a dividersi e a nutrirsi e a crescere e a dividersi, a mutare a differenziarsi a lottare... e finalmente apparve la coscienza.»
L’Uomo-Che-Caccia-Solo tornava attraverso la foresta portando sulle spalle un daino, le cui zampe gli ciondolavano sul petto ai lati del collo vigoroso. Sentiva il morbido fianco del giovane animale premergli le spalle e la testa sbattere contro la schiena mentre camminava sulla pista accidentata. Percepiva gli odori della decomposizione che cominciava lentamente a formarsi nella preda e il sentore forte del sangue fresco non ancora rappreso. Sentiva scricchiolare le foglie sotto i piedi, un rumore appena percettibile.
L’Uomo-Che-Caccia-Solo raggiunse la radura. Si fermò sul limitare della foresta con la prudenza nata da una lunga abitudine ai pericoli incombenti ovunque. Sul lato opposto della radura, come un’ombra sulla faccia del dirupo boscoso, si apriva l’imbocco della caverna. La radura pareva in tutto e per tutto identica a come l’aveva lasciata il giorno prima, ma era silenziosa... nessuna voce, nessun movimento. Ne fece il giro completo tenendosi fuori vista in mezzo agli alberi, ma non scoprì niente, né tracce né intrusi. Dal punto più vicino poteva vedere a pochi passi la bocca nera della caverna. Nessun movimento.
Depose senza far rumore la carcassa del daino e si diresse verso il costone boscoso. Dopo essersi guardato in giro per l’ultima volta entrò svelto e silenzioso nella caverna per fermarsi dove cominciava la zona d’ombra. Tutto era buio e silenzioso là dentro, e aveva i buoni odori familiari di fumo; di carne e di orina. Nel giro di pochi secondi la sua vista si adattò alla penombra e scorse i suoi due bambini, un maschio e una femmina, sdraiati accanto ai resti anneriti di un fuoco spento da tempo.
Avevano la gola squarciata come se fossero dei maialetti. L’odore del sangue impregnava l’aria. I corpicini erano piccoli e fragili, più piccoli del daino che lui aveva portato per sfamarli, ed erano morti. Il dolore lo colpì come un pugno gelido alla gola. La donna era scomparsa.
Il cacciatore si voltò, lasciandosi dietro quei piccoli morti e si mise alla ricerca di quelli che erano ancora vivi, che potevano ancora sentire gioia e dolore. Cercò la pista che la donna doveva aver lasciato, la donna che non andava a caccia e non possedeva l’abilità dei cacciatori, che avrebbe lasciato una traccia da seguire, perché non era morta coi figli che aveva generato.
E finalmente la trovò: un ramo spezzato in un basso cespuglio, ancora umido di linfa e poco oltre l’orma di un piede femminile nel terreno molle vicino al torrente. Risalì il corso d’acqua finché non trovò un’altra orma dove la donna era uscita dall’acqua gelida. Un’ora dopo scoprì un indizio che lo informò che probabilmente non se n’era andata da sola: l’impronta, nella polvere, di un grosso alluce.
La pista proseguiva lungo le valli allontanandosi dalle colline.
Li raggiunse la sera del terzo giorno. Non poteva seguire la pista dopo il calar del sole, ma neppure loro potevano viaggiare di notte senza lasciare tracce troppo evidenti, e la donna impediva all’altro di proseguire veloce. Aveva bisogno di nutrirsi spesso, e per questo erano costretti a fermarsi a mangiare. Il cacciatore aveva trovato delle ossa che per trascuratezza non avevano seppellito e, poco distante, alcuni noccioli di frutti. L’Uomo-Che-Caccia-Solo aveva mangiato senza fermarsi, strappando a morsi la carne cruda di un coniglio in cui si era inaspettatamente imbattuto o cogliendo bacche dai cespugli.
Si avvicinò con cautela. Giacevano sotto un cespuglio, un cacciatore sconosciuto e la donna dai capelli neri e gli occhi azzurri che lui si era portato nella caverna dopo averla rubata a una famiglia che viveva a parecchi giorni di marcia verso sud. Non erano riusciti a resistere: stavano accoppiandosi con la frenesia di animali in calore. Sentiva l’odore di sudore dei loro corpi e l’odore d’amore della donna. Erano avvinti, lo snello corpo di lei contro i grossi fianchi e le cosce dell’uomo, e sentiva il fruscio della carne contro la carne e lo scricchiolio delle foglie sotto di loro.
Il cacciatore trovò sul bordo della pista una pietra grossa come il suo pugno e colpì l’uomo alla nuca prima ancora che i due si accorgessero della sua presenza. Poi, rapido, gli recise i tendini sopra il tallone, e quindi non pensò più all’uomo. Si sarebbe svegliato ma non sarebbe arrivato lontano, strisciando carponi. Quando fece rotolar via il corpo dell’uomo la donna lo guardò coi suoi occhi azzurri, guardò il coltello insanguinato e tornò a guardarlo in faccia.
— Mi ha assalito senza che me ne accorgessi — disse. — Mi ha costretto a guardare mentre uccideva i bambini e mi ha minacciata col coltello se non facevo tutto quello che diceva.
— Lo hai seguito.
— Solo perché avevo paura — disse lei. Aveva il corpo ancora madido e arrossato e giaceva tra le foglie e la polvere senza coprirsi, mentre gli mentiva.
— Lo hai assecondato.
— No.
— Ti piaceva.
— Ero folle di paura.
— Sei stata tu a uccidere i bambini. Sono morti in un modo troppo rapido e pulito perché li abbia uccisi lui. Sei stata tu a dirgli di portarti via. Tu.
— Sì — disse lei quando capì che non c’era più speranza. — Ti odiavo. Ti ho sempre odiato. Tu non sai quanto ti odiavo. Odiavo i tuoi figli. Alla prima occasione me ne sono andata. Ti odio, ti odio, ti odio...
Lo odiò mentre lui cominciava a torturarla col coltello. Dopo un’ora cominciò a gridare e ogni suo grido lo faceva fremere di piacere. Era una donna robusta e visse ancora due giorni.