XIV
Un gioco troppo grande
In vita mia non ho mai visto tante telecamere tutte insieme. Evidentemente non ci sono notizie particolarmente interessanti e così gli occhi di mezzo mondo sono puntati su Palermo, sul vecchio carcere dell'Ucciardone, in via Enrico Albanese numero 3.
La mia Croma blindata riesce a farsi largo a fatica tra teleobiettivi e macchine fotografiche. Non è per niente facile riuscire a richiudersi alle spalle il portone del penitenziario senza investire cameraman e giornalisti. Con Guido Lo Forte sto andando a interrogare 'U signurinu, a ventiquattr'ore esatte dalla sua cattura.
Lo troviamo già nella sala magistrati, in piedi e con le manette. Un mio cenno con il capo e l'ispettore della penitenziaria che lo ha portato lì gliele toglie con uno scatto secco.
«Buongiorno, signor Aglieri. Sono Guido Lo Forte, il procuratore aggiunto di Palermo, e con me c'è il dottor Sabella. Si sieda pure.»
Indossa gli stessi vestiti del giorno prima: un paio di pantaloni di tela e una polo blu scuro. Evidentemente la direzione del carcere non gli ha ancora fatto avere la biancheria pulita che i suoi familiari gli hanno sicuramente già portato. Un boss del suo calibro non può certo indossare la tuta color camoscio che l'amministrazione penitenziaria fornisce ai detenuti.
Non ha più la vistosa croce di legno che portava al collo al momento dell'arresto. Le rigide regole penitenziarie non gli consentono di tenere in cella il cordino di cuoio che la sosteneva.
Rosalba Di Gregorio, la vulcanica avvocatessa del boss, non è ancora arrivata. È rimasta bloccata davanti al carcere da quella selva di cronisti che le chiedono notizie.
Sono molto fiducioso: l'altare, i libri di teologia, i suoi incontri con religiosi mi fanno pensare che il boss possa «saltare il fosso» e passare dalla nostra parte. In quel momento potrebbe essere decisivo aprire una breccia di quella portata tra gli uomini legati a Provenzano.
Senza tanti giri di parole gli chiedo se è disponibile a collaborare con la giustizia, ma Aglieri mi gela: «Vede, dottore. Quando voi venite nelle nostre scuole» dice proprio così, nostre scuole, «a parlare di legalità, di giustizia, di rispetto delle regole, di civile convivenza, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. E, magari, tornano a casa a riferire ai genitori quelle belle parole che hanno sentito. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi? Dottore, trovano a noi. E solo a noi. Lei è siciliano e lo sa bene che è così. Cosa collaboro a fare, allora? Solo per farvi arrestare qualche altra decina di padri di famiglia o per farvi trovare qualche pistola arrugginita? Cosa potrebbe cambiare se vi dicessi quello che volete sapere da me?».
Non so cosa replicare. Ha ragione. Da vendere. Negli anni precedenti l'azione delle istituzioni a Palermo si era limitata, praticamente, alla repressione. Magistratura e forze di polizia avevano tagliato e, in qualche zona, sradicato le «male erbe», ma nessuno aveva piantato qualcosa al loro posto. Lo Stato non era riuscito a riappropriarsi del suo territorio e, per esempio, le scuole erano ancora le «loro», come «loro» era la sanità, l'assistenza sociale, l'attività commerciale e produttiva.
Cerco di metterla sul piano etico e gli ricordo che si presenta come un credente; e un buon cristiano ha anche il dovere di essere un buon cittadino: «Date a Cesare quel che è di Cesare». E poi un uomo di fede ha anche il dovere di riconoscere i propri errori e fare qualcosa per rimediarvi. Un sacramento come la confessione serve a poco se non è accompagnato da un sincero e costruttivo pentimento.
Grave errore dialettico da parte mia. Mi sono messo in un terreno scivoloso e sicuramente a lui più congeniale. All'Università Cattolica di Milano avevo sostenuto frettolosamente tre esami di Teologia ma era passato troppo tempo ed era ben poca cosa rispetto alla sua cultura in materia.
«Il pentimento davanti a Dio è ben diverso di quello davanti agli uomini. Il primo mira alla conversione e passa attraverso l'odio per il peccato e il dolore per il peccato. Non dall'accusa di altri uomini.»
In mio soccorso interviene Guido Lo Forte. La discussione prosegue tra loro due e io non sono più in grado di parteciparvi. Troppo colta per me che, malgrado i miei studi classici, non ho mai amato la filosofia. Guido e il boss della Guadagna cominciano a parlare animatamente e appassionatamente di teoretica, metafisica ed escatologia, con citazioni a memoria di sant'Agostino, Kant, Cartesio, Kierkegaard, Campanella.
Si accalorano talmente che non alzano nemmeno gli occhi quando entra nella stanza Rosalba Di Gregorio. Facendo appena il cenno di sollevarsi dalle sedie, la salutano velocemente e continuano a dibattere e dissertare.
L'avvocatessa del boss mi guarda perplessa e con il solo movimento dei muscoli facciali e delle spalle ci diciamo tutto: non fanno per noi quelle discussioni così impegnate e siamo entrambi stupiti della padronanza in materia dei due. Sembra la disputa tra francescani e delegati papali nel Nome della rosa.
Finalmente riusciamo a cominciare quell'interrogatorio, ma si tratta di pochissime battute: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere ma voglio farvi presente che non ho mai ammazzato donne, bambini e magistrati». Letto, confermato e sottoscritto.
Chiarissimi i riferimenti di Pietro Aglieri. La donna è la moglie di Giovanni Bontade, uccisa insieme al marito e per il cui omicidio è stato però già condannato all'ergastolo; il bambino è il piccolo Di Matteo, al cui sequestro 'U signurinu è effettivamente estraneo; il magistrato è Paolo Borsellino e Aglieri è imputato anche come uno degli organizzatori materiali dell'agguato.
'U signurinu sarà poi definitivamente condannato per la strage di via d'Amelio, ma la ricostruzione della vicenda, pur consacrata dalla Cassazione, in verità non mi ha mai convinto fino in fondo e ritengo che il commando di morte non fosse quello di Santa Maria di Gesù agli ordini di Aglieri. Penso che, invece, si trattasse degli uomini di Brancaccio. Ma è solo una mia opinione.
Mentre ci diamo la mano per salutarci Aglieri mi guarda dritto negli occhi: «La repressione e i pentiti non portano da nessuna parte. Non è questa la strada per ridare onore alla Sicilia».
Non replico ma qualcosa mi dice che non è finita lì, che sentirò ancora parlare di lui.
Tre anni dopo, nel maggio del 2000, sono a Roma, nel mio nuovo ufficio. Una graziosa segretaria entra nella mia stanza: «Buongiorno, consigliere» adesso mi chiamano così. «Il presidente le vuole parlare.»
Il «presidente» è sempre lui, è sempre Gian Carlo Caselli, il mio ex capo di Palermo che adesso è il direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il Dap, dove svolgo le funzioni di capo dell'ufficio ispettorato.
Ero stato in qualche modo costretto ad andar via da Palermo ed ero finito a Roma, al ministero della Giustizia quale magistrato di collegamento con la Commissione antimafia. Poi Caselli, che aveva pure lasciato la procura palermitana, mi aveva chiesto di dargli una mano al Dap e io ovviamente avevo accettato, entusiasmato dall'idea di poter continuare a lavorare con lui.
Gian Carlo mi mette in mano una lettera. L'intestazione è dell'ufficio di gabinetto del ministero della Giustizia. Il testo è più o meno il seguente: «Il procuratore nazionale antimafia, dottor Pierluigi Vigna, ha comunicato per iscritto di aver intrattenuto alcuni colloqui investigativi con i capi di Cosa nostra detenuti: Pietro Aglieri, Piddu Madonia, Salvatore Buscemi e Giuseppe Farinella. I quattro avrebbero dato una disponibilità di massima a dissociarsi dal sodalizio mafioso e ad ammettere le loro responsabilità pur senza accusare altre persone. Prima di fare il passo di abbandonare pubblicamente Cosa nostra, Aglieri, anche a nome e per conto degli altri tre, ha chiesto al dottor Vigna di poter incontrare altri quattro detenuti, Nitto Santapaola, Salvo Madonia, Carlo Greco e Pippo Calò, che sarebbero pure disponibili a "deporre le armi" e a rinnegare l'associazione. Il procuratore nazionale antimafia, tenuto conto delle implicazioni politiche della relativa decisione, ha rimesso la questione al ministero della Giustizia. Prima di assumere qualsiasi determinazione in merito il Dap vorrà verificare se e come sia possibile fare incontrare gli otto detenuti». Firmato: Piero Fassino, ministro della Giustizia.
«Cosa ne pensi?» mi chiede Gian Carlo quando si accorge che ho finito di leggere la lettera.
«Tutto il male possibile» gli rispondo di getto. «Dammi cinque minuti.»
Torno nella mia stanza e cerco tra le directory del mio computer: «Documenti», «Palermo», «Santa Maria di Gesù», «Greco», «Ambientali», «Trascrizione 18 luglio 1996 - dissociazione», «Apri», «Stampa».
Ora sono io a dare dei fogli a Caselli: «È proprio uno di loro, è Carlo Greco che, ancora latitante, parla con suo fratello Giuseppe e con suo cognato Salvatore Adelfio. Leggi!».
SALVATORE: Scusami, ma è meglio pentito o meglio dissociato? È la stessa cosa, la stessa cosa tra farsi pentito e dissociarsi non rovinando nessuno e dire: «Sì vero è!». Ma dissociandosi, automaticamente, dice che c'è una certa cosa, che quella cosa è vera.
GIUSEPPE: Io sono stato sempre estraneo a queste cose. Che minchia mi interessano a me!
CARLO: Io sono d'accordo, meglio questo che quello.
SALVATORE: No, dissociarsi significa dire: «È vero che sono un uomo d'onore, ma mi dissocio da quell'ambiente, non voglio più sentirne parlare». E così però si autoaccusa. Si autoaccusa: «Sì questi omicidi li ho fatti io, li ho fatti io. Io c'ero, lui non lo so». Questa è una cosa brutta, scusa. Non mi posso autoaccusare. Perché, dissociandosi da quella cosa, automaticamente gli altri diventano colpevoli.
CARLO: No! Saranno assolti.
GIUSEPPE: Certo! Prima o poi saremo tutti assolti.
CARLO: Ti sei dissociato? Allora gli puoi dire: mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma mi dissocio. Sì, vero è: facevo parte di questi membri, di queste cose, però, non lo voglio fare più. Ho le mie responsabilità. E intanto mi guadagno uno sconto di pena e mi levano il 41 bis.
GIUSEPPE: Sta a vedere...
CARLO: Perlomeno dieci anni in meno, per queste cose! Minchia, stupido ti pare? Comunque ancora non l'hanno messa questa legge della dissociazione. Ma appena entrerà in atto...
GIUSEPPE: Come per i terroristi.
CARLO: Saranno pochi quelli che fra pentito e dissociato faranno il pentito. E se metteranno la dissociazione è buono, perché verranno 80 per cento di pentiti in meno e, invece, se non la mettono ci saranno un altro 80 per cento di pentiti. Perciò c'è da scegliere: quale vuole lei?
«E tieni presente» dico a Caselli «che, tranne Salvo Madonia e Peppino Farinella, sono tutti dell'area di Provenzano. Ma il primo ha interesse a dissociarsi per salvare il fratello Alduccio da vent'anni di carcere per traffico di stupefacenti autoaccusandosi di aver organizzato l'importazione di qualche centinaio di chili di cocaina dalla Colombia. Il secondo, don Peppino, è profondamente deluso da Riina e, dissociandosi, potrebbe pure "accollarsi" la responsabilità diretta di alcuni omicidi, salvando così dall'ergastolo il figlio Mico.»
Come accadeva quasi sempre ci troviamo subito d'accordo: «Lasciamo morire questa storia. Anche il ministro mi ha detto che, istintivamente, la cosa non lo convince per niente» dispone Gian Carlo.
«E poi Nitto Santapaola per adesso è al centro clinico di Pisa e quindi... niente Cupole di Cosa nostra in carcere» concludo io.
Per noi era chiarissimo. I boss detenuti stavano cercando una soluzione politica ai loro principali problemi: l'ergastolo e il carcere duro. Questo non lo avevano messo in bilancio. Come diceva Riina, «cinque o sei anni di branda ce li dobbiamo fare tutti». Ma l'ergastolo no. E men che meno una condanna a vita da scontare con quel regime penitenziario: con pochi colloqui con i familiari, senza pacchi di viveri pregiati, senza possibilità di permessi, di sconti di pena.
Dissociandosi i boss non avrebbero accusato nessuno ma sarebbe venuta meno la loro pericolosità presunta. «Inginocchiandosi» formalmente davanti allo Stato e deponendo simbolicamente le armi sarebbero usciti dal circuito dell'alta sicurezza. Così si sarebbero guadagnati i benefici penitenziari e avrebbero addirittura avuto la possibilità di andare fuori dal carcere. In permesso premio.
In prospettiva, poi, non ci sarebbero stati più ostacoli a estendere la normativa della dissociazione, già prevista per i terroristi, anche ai mafiosi, che così avrebbero avuto consistenti sconti di pena. A cominciare dai tre mesi di liberazione anticipata per ogni anno di carcere già previsti per i detenuti comuni, per finire con la sostituzione dell'ergastolo con trent'anni di reclusione e con diminuzioni secche da un terzo alla metà delle altre pene. Una vera e propria manna per Cosa nostra.
E non solo per i mafiosi che già si trovavano in carcere.
Anche Bernardo Provenzano avrebbe così trovato una soluzione al suo problema maggiore. Dopo la cattura di Vito Vitale e dei suoi uomini, 'U zu Binu non aveva più questioni significative di conflittualità interna ma non poteva ignorare che dietro le sbarre si trovava mezza Cosa nostra e che, per lo più, si trattava di uomini riconducibili all'anima stragista del sodalizio, a Riina, a Bagarella, a Graviano, a Matteo Messina Denaro, l'unico ancora latitante del gruppo. E quasi tutti relativamente giovani e con poca voglia di morire in carcere.
Non poteva certo lasciarli al loro destino, come pure gli consigliava di fare qualcuno dei suoi. Si trattava di mafiosi che ancora avevano i loro riferimenti sul territorio e che, se si fossero sentiti abbandonati, avrebbero potuto riprendere il conflitto armato con lo Stato secondo la logica suicida: «Muoia Sansone e tutti i Filistei».
Sarebbe bastato un attentato qualunque contro un esponente delle istituzioni o della società civile per vanificare la raffinata strategia della sommersione di Cosa nostra adottata da Provenzano da alcuni anni. Una strategia che si era rivelata vincente, che aveva fatto dimenticare al Paese che la mafia esisteva ancora e che aveva consentito ai suoi uomini di riprendersi il controllo del territorio e di ingrassarsi con gli appalti pubblici e le estorsioni.
L'approvazione di una normativa premiale sulla dissociazione avrebbe risolto alla radice il problema dell'anziano boss corleonese. Forse era proprio per questa ragione che i primi a farsi avanti fossero i suoi pochi uomini che erano in carcere.
Ma quale vantaggio concreto avrebbe avuto il Paese? Alla base delle attività criminali dei mafiosi non c'è alcuna componente ideologica. Li muove solo la sete per il potere e il denaro. E nient'altro. Con buona pace dei fautori di qualsivoglia movente etico di Cosa nostra.
Anche se i capimafia detenuti fossero stati realmente sinceri nella loro scelta di «inginocchiarsi» davanti alle istituzioni, questo non avrebbe avuto alcun effetto fuori del carcere.
Non si trattava certo di presunti «padri nobili» di un'ideologia che ne ammettevano il fallimento come, per esempio, era avvenuto per i terroristi. Il loro posto era già stato preso da altri che, adesso, indubbiamente, non avevano alcuna voglia di rinunciare alle loro posizioni di potere solo perché i loro predecessori dichiaravano di non voler più avere a che fare con la mafia.
Certo, aveva fatto benissimo il procuratore nazionale a svolgere quei colloqui e a verificare fino in fondo le intenzioni di quei mafiosi, e altrettanto bene aveva fatto quando aveva rimesso la questione all'autorità politica. Allo stesso modo corretta era stata la scelta del ministro di istruire comunque la questione e verificarne pro e contro e fattibilità in concreto.
Ma noi non abbiamo alcun dubbio e non abbiamo bisogno di alcun ulteriore elemento di conoscenza. Dalla dissociazione dei boss non poteva venire alcuna utilità pratica per lo Stato e l'unico risultato concreto sarebbe stato il crollo delle collaborazioni con la giustizia e la possibilità per diversi boss di uscire dal carcere prima del tempo: «Minchia, stupido ti pare?» aveva detto Carlo Greco quattro anni prima.
Caselli mi assegna formalmente l'istruzione della pratica e io, dopo un paio di giorni, predispongo una risposta burocratica in cui rappresento un milione di difficoltà pratiche che rendono impossibile procedere.
Naturalmente non poteva finire così. Curiosamente, qualche giorno dopo, il dibattito politico si accende proprio sul tema della dissociazione. È l'avvocato Carlo Taormina a lanciare l'argomento di discussione dalle pagine del «Giornale» e subito parte una serie infinita di proteste dai familiari delle vittime di Cosa nostra, le sorelle dei magistrati uccisi nel 1992, Maria Falcone e Rita Borsellino, in testa.
Guarda caso, giusto il giorno prima, due giornalisti mi avevano contattato e mi avevano chiesto conferma della lettera di Vigna al ministro, notizia che, evidentemente, cominciava a girare per le redazioni dei quotidiani. Ovviamente avevo negato di esserne a conoscenza e, addirittura, ne avevo escluso l'esistenza. Ma i due sono cronisti in gamba e l'indomani, dopo la pubblicazione dell'intervista a Taormina, tornano alla carica. Per farmi «confessare», mi fanno persino quattro degli otto nomi dei mafiosi riportati nella lettera, tra cui anche quello di Pietro Aglieri, da cui l'iniziativa era partita. Continuo a negare, ma capisco che c'è poco da fare. Non posso nascondere il sole con il colino, come si dice dalle mie parti.
Avviso ovviamente sia Caselli sia Vigna, ma tre giorni dopo «La Stampa» e «il manifesto» pubblicano la notizia.
Ennesima marea di proteste ma qualche opinione favorevole o possibilista si aggiunge a quella di Taormina, e, come accade normalmente in questi casi, si tratta di voci provenienti da diversi schieramenti politici.
Segue una riunione nell'ufficio di gabinetto del guardasigilli, cui partecipo con Caselli e Vigna. La linea politica dettata dal ministro Fassino è chiara e inequivocabile: la dissociazione non ci serve e non si tratta con i mafiosi. Punto e basta.
Cosa nostra non si rassegna però e, all'inizio del 2001, filtra un'altra indiscrezione. Stavolta è «la Repubblica» a pubblicarla il 6 febbraio. Tutte le associazioni criminali di tipo mafioso, Cosa nostra, 'Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona, vogliono una normativa sulla dissociazione e per «trattare» con le istituzioni è stato individuato, quale portavoce, Salvatore Biondino, noto ai più come l'autista di Riina, l'uomo che guidava la macchina su cui si trovava il «capo dei capi» al momento della sua cattura.
Salvatore Biondino, però, non era un semplice chauffeur. Era il potentissimo capo del mandamento mafioso di San Lorenzo, dell'intera zona ovest di Palermo, uno dei più influenti componenti della Commissione di Cosa nostra. Un pezzo da novanta, insomma; e pure legatissimo a Riina. Proprio la persona adatta a svolgere quel ruolo di ambasciatore presso lo Stato che le associazioni criminali di tipo mafioso gli avrebbero attribuito.
Altre polemiche, altre prese di posizione fortissime: «Non si tratta con la mafia, non si scende a patti con chi ha versato il sangue di centinaia di persone innocenti». Ma, come accade spesso in Italia, contestualmente si allarga il fronte dei possibilisti: «Se la mafia si arrende, si inginocchia, perché non accettare?», «In fondo si tratta di qualche sconto di pena e qualche beneficio penitenziario», «Non è stato lo stesso con i terroristi? E non è stata questa l'arma vincente delle istituzioni democratiche?».
La pubblicazione della notizia però, com'è ovvio, blocca l'iniziativa e non si sente più parlare di dissociazione per diversi mesi.
A ottobre 2001 sono ancora al Dap. Capo dell'amministrazione penitenziaria adesso è Giovanni Tinebra, l'ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta che il nuovo ministro della Giustizia, il senatore Roberto Castelli, ha messo al posto di Gian Carlo Caselli.
Mi giunge una telefonata da Palermo. È mia sorella Marzia, anche lei magistrato, anche lei da poco tempo alla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano dopo aver passato anni, per lei terribili, a indagare su pedofilia e pornografia infantile. Con esiti straordinari. Così come straordinari saranno i risultati che otterrà nella sua attività di contrasto a Cosa nostra. Sarà proprio lei infatti, cinque anni dopo, nel 2006, a coordinare, insieme a un altro collega, le indagini che porteranno alla cattura di Provenzano. Prima e, finora, unica donna a raggiungere obiettivi di così grande rilievo in tema di mafia.
«Senti. Mi è arrivata da Rebibbia una richiesta di nulla osta per Salvatore Biondino. Dice che vuole fare lo scopino e il carcere sta chiedendo l'autorizzazione a tutte le autorità giudiziarie da cui dipende. Cosa ne pensi?»
Marzia, ancorché giovanissima, era perfettamente consapevole dello spessore criminale del cosiddetto autista di Riina e sapeva come me che Biondino aveva un patrimonio multimiliardario. Non ci voleva molto a chiedersi perché volesse svolgere un lavoro così umile e così poco remunerato: andare a spazzare le celle di persone che non erano nemmeno autorizzate a rivolgergli la parola. E tutto ciò, apparentemente, per guadagnare poche migliaia di lire a settimana, lui che disponeva di ricchezze inimmaginabili per una persona normale.
«Prenditi qualche giorno di tempo. Fammi capire cosa sta succedendo a Rebibbia e mandami via fax la nota del carcere.»
Sono ancora al vertice dell'ufficio ispettorato e attivo i miei canali informativi. Un colloquio con il mio collega Francesco Gianfrotta, capo dell'ufficio detenuti, una telefonata al direttore di Rebibbia, qualche battuta con il responsabile della polizia penitenziaria della Sezione di alta sicurezza e vengo a conoscenza che Biondino, se avesse svolto l'attività di scopino, avrebbe avuto accesso alle celle dove si trovavano, guarda caso, Pietro Aglieri, Salvatore Buscemi, Peppino Farinella e Piddu Madonia, proprio i quattro mafiosi che avevano dato il via all'iniziativa originaria.
Vengo anche a sapere che Biondino divide la sua cella a Rebibbia con un certo Antonino Imerti, personaggio di secondo piano della 'Ndrangheta, che giusto una settimana prima aveva ripetutamente chiesto di parlare con i magistrati di Reggio Calabria e con Gianfrotta, cui aveva manifestato proprio la volontà di dissociarsi.
E non è finita qui. Meno di un mese prima Pippo Calò, un altro degli otto «pionieri» della nota di Vigna, aveva inviato una lettera alla Corte di Assise di Caltanissetta dichiarando di volersi dissociare da Cosa nostra.
Chiamo subito Marzia e le riferisco tutto. Mia sorella immediatamente nega l'autorizzazione a Biondino a svolgere attività lavorativa in carcere. A questo punto anche se altri pubblici ministeri, tribunali o Corti di Assise avessero concesso il nulla osta, bastava il solo provvedimento negativo di Marzia per vanificare quelle autorizzazioni e impedire al capomandamento di San Lorenzo di incontrare in carcere altri boss del suo calibro.
Contemporaneamente comunico a Tinebra l'esito dei miei accertamenti e gli segnalo l'opportunità di allertare la polizia penitenziaria al fine di impedire contatti anche casuali tra i boss coinvolti nell'iniziativa.
La mia segnalazione reca la data di giovedì 29 novembre 2001 e finisce sul tavolo del capo del Dap l'indomani, venerdì, quando Tinebra è già andato in Sicilia, credo, per trascorrere il weekend con i suoi familiari.
Giovanni Tinebra legge così la mia nota lunedì 3 dicembre e lo stesso giorno convoca Gianfrotta (e non me) per chiedergli spiegazioni. Francesco gli dice di condividere appieno le mie preoccupazioni e, forse capendo che c'è qualcosa che non va, decide di mettere per iscritto le sue osservazioni in merito. Cosa che fa l'indomani con una relazione datata 4 dicembre.
Il 5 dicembre Tinebra, con un provvedimento, a mio avviso, palesemente illegittimo (lo poteva adottare solo il ministro della Giustizia), sopprime il mio ufficio e mi revoca ogni attribuzione.
Quando vengo a conoscenza dell'accaduto, cerco di capirci qualcosa di più e scopro che, poco più di due mesi prima, il 24 settembre, quando a Caltanissetta era giunta la lettera di Calò, Giovanni Tinebra, che giusto quel giorno stava lasciando la procura nissena per trasferirsi al Dap, aveva dichiarato ai cronisti dell'Ansa che la scelta di dissociarsi dell'ex capomandamento di Porta Nuova era, secondo lui, «veramente interessante».
Del resto proprio Tinebra, l'8 giugno 2000, quando erano esplose le prime polemiche conseguenti alla lettera di Vigna al ministro Fassino, aveva rilasciato un'intervista al «Corriere della Sera» dal titolo inequivocabile: Dissociazione? Ero contrario, ora non più.
Non posso far altro che rivolgermi al ministro della Giustizia in carica e al Csm, mettendo nero su bianco l'accaduto.
Il guardasigilli Castelli, per nulla turbato del fatto che un suo «sottoposto» abbia autonomamente soppresso un ufficio centrale del suo ministero, mi mette alla porta. E lo stesso fa, praticamente, il Csm, forse in quel momento preoccupato dalla necessità «politica» di non spaccare l'unità delle correnti censurando l'operato di un esponente di spicco di una di queste, qual era Tinebra, per dar ragione a un semplice magistrato che, invece, proprio per tutelare al massimo la sua indipendenza, aveva sempre scelto di non aderire ad alcuna corrente della magistratura. Qual ero, e sono, io.
Sarò così trasferito d'ufficio a Firenze perché, almeno per me, non c'erano posti a Roma, dove mi ero stabilito con i miei familiari da quasi tre anni e dove avevo chiesto di rimanere. Proprio il giorno successivo alla mia assegnazione in Toscana, lo stesso Csm applicherà però due magistrati anche meno anziani di me alla procura della Repubblica della capitale, evidentemente bisognosa di altre risorse umane.
Appena un mese dopo Pietro Aglieri si rifarà vivo con una lettera al procuratore nazionale antimafia sollecitando una soluzione politica al problema dei detenuti mafiosi e, da quel momento, almeno fino alla cattura di Provenzano, la questione della dissociazione dei boss continuerà ciclicamente a interessare, con alterne fortune, il dibattito politico e sociale nel nostro Paese.
Forse avevo osato troppo e avrei dovuto capirlo prima.
Del resto era stato proprio Leoluca Bagarella a mettermi per tempo sull'avviso, ma avevo preferito ignorarlo.
Sì, giusto Bagarella, l'uomo dalla cui cattura hanno preso il via tutte le mie indagini più rilevanti a Palermo e da cui comincia questa storia.
Ero da alcuni mesi al Dap e Caselli mi aveva affidato il monitoraggio dei detenuti sottoposti al 41 bis. Vedere come erano distribuiti, come venivano tradotti e spostati, se avevano la possibilità effettiva di mantenere contatti con l'esterno...
In una delle mie visite ai penitenziari di massima sicurezza ero finito a L'Aquila, dove era rinchiuso don Luchino. Stavo attraversando il corridoio dell'area riservata, quando mi sento chiamare dalla sua cella.
«Dutturi Sabella, dutturi Sabella!»
«Buongiorno, signor Bagarella» saluto notando da dietro il cancello la figura del boss di Corleone.
«A chi canciò misteri? 'Un ci piaciva cchiù chiddu cafaciva 'm Paliemmu?» Ha deciso di cambiare mestiere? Non era contento di quello che faceva a Palermo?
Era stato chiarissimo don Luchino e io avevo deciso di sottovalutare il suo avvertimento.
Bagarella non poteva non sapere che ero andato via dalla procura di Palermo e che da diversi mesi ero al Dap. Era anche perfettamente consapevole dello scopo della mia visita nel «suo» carcere: «Ci hai catturato quando eravamo latitanti. Hai fatto parlare i nostri uomini. Ci hai fatto condannare all'ergastolo. Hai trovato le nostre armi e sequestrato i nostri beni. E adesso vieni ancora a romperci le scatole mentre ci stiamo facendo la nostra galera!».
«Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande» diceva Giovanni Falcone.
I tempi sono certamente cambiati. Nel mio caso è bastato isolarmi, fare un po' di terra bruciata intorno a me e quando, qualche anno dopo, si è presentata l'occasione favorevole, anche screditarmi, «mascariarmi» come si dice nella mia terra. Nell'indifferenza o, addirittura, con la complicità, spero inconsapevole, di molti miei colleghi.
Sono pur sempre nato e ho a lungo vissuto a poche decine di chilometri da contrada Kaos di Porto Empedocle, a meno di un'ora di macchina dal famoso pino di Luigi Pirandello e ho persino studiato in un liceo intitolato a lui.
E allora perché stupirsi dell'ennesimo controsenso siciliano. Siamo proprio sicuri che quello del predatore che diventa preda, del cacciatore... cacciato sia veramente un paradosso?