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Palme e banani
Una giornata come le altre. La mia solita frenetica attività mattutina tra un'udienza al Tribunale della libertà, la preparazione di qualche processo in Corte d'Assise, l'organizzazione di interrogatori di pentiti e testimoni. Il mio ufficio è, come si suol dire, un porto di mare: l'interminabile fila di poliziotti e carabinieri che mi informano sugli sviluppi delle varie indagini, il viavai del personale dell'ufficio intercettazioni della procura che mi fa firmare proroghe, decreti e comunicazioni varie alla Telecom, i quattro telefoni (tra fissi e cellulari) di cui dispongo che squillano in continuazione.
Ancora uno squillo. Questa volta è il citofono interno. È Carlo Maiorca, lo scrupoloso segretario personale del procuratore Caselli.
«Buongiornissimo» è il suo modo di salutarmi affettuosamente. «Il Capo le vuole parlare. Ha un minuto?»
La maiuscola di Capo, ovviamente, Maiorca non la pronuncia, ma dal modo di articolare la parola affiora con chiarezza, inequivocabilmente. La stima, il rispetto e, soprattutto, l'attaccamento del segretario particolare per questo piemontese dai modi gentili e dal carattere di ferro sono noti a tutti.
Trovo Maiorca ad aspettarmi nell'anticamera dell'ufficio di Caselli. Mi apre la porta e la richiude delicatamente alle mie spalle. Sulla poltrona di pelle nera, davanti alla finestra, c'è Nello Rovello, il procuratore generale di Palermo; un vero galantuomo, un magistrato d'altri tempi ma con vedute straordinariamente moderne, letteralmente patito dell'automazione e convinto della necessità di informatizzare l'attività delle procure per consentire lo snellimento delle procedure e, soprattutto, la circolazione delle informazioni.
Erano anni che Palermo non aveva un capo alla procura generale. Per una serie di intoppi burocratici e, purtroppo, politici quel posto era rimasto vacante per lungo tempo. Un magistrato come Rovello, anche per noi sostituti della procura della Repubblica, è finalmente una garanzia in più, un ulteriore e sicuro punto di riferimento. Sono finiti i tempi bui delle avocazioni, delle azioni disciplinari, del ridimensionamento dei processi in appello.
«I miei ossequi, eccellenza». Lo saluto con la mia usuale allegra ironia, sottolineando con il tono della voce il termine, ormai obsoleto, con cui in passato era obbligatorio rivolgersi agli alti magistrati.
Rovello però non ha voglia di scherzare.
Prima, abbagliato dalla luce del sole primaverile che attraversa la grande vetrata alle spalle del procuratore generale, non avevo notato il suo volto. Non avevo nemmeno fatto caso alla circostanza che, contrariamente all'etichetta, è il procuratore generale che è andato a trovare il procuratore della Repubblica e non viceversa.
Il viso di Rovello porta i segni di una notte insonne e i suoi lineamenti lasciano trasparire una profonda amarezza. Oggi, a onta del suo solito aspetto giovanile, dimostra più dei suoi settant'anni.
Sul tavolino davanti al divano ci sono, aperti, una decina di quotidiani: Fuga di Pasquale Cuntrera - La procura generale di Palermo sotto accusa; Il re del narcotraffico è irreperibile - Chieste le dimissioni del ministro Flick; Aperta un'inchiesta sulle disfunzioni della procura generale; Ispezione del ministero di Grazia e Giustizia a Palermo e via dicendo.
«Hai qualche notizia di Cuntrera?» mi chiede Caselli.
Non so cosa rispondere. Mi ero occupato di Pasquale Cuntrera solo casualmente quattro anni prima, nel 1994, quando ero andato a sostituire un collega a Chicago per una rogatoria nell'ambito del processo Cuntrera-Caruana, le due famiglie mafiose originarie dell'Agrigentino che, dal Sudamerica, gestivano per conto di Cosa nostra il traffico internazionale di stupefacenti.
La morfina base la fornivano le «famiglie» americane. In Sicilia veniva raffinata e poi rispedita oltreoceano o destinata al mercato nazionale ed europeo. C'erano raffinerie ad Alcamo, a Caccamo, a Trabia, realizzate alla meno peggio in vecchi edifici abbandonati o in stalle maleodoranti. Il re della raffinazione, il «chimico» della mafia, era quel Francesco Marino Mannoia che, qualche anno dopo, diventerà uno dei collaboratori più scrupolosi e credibili della storia di Cosa nostra.
Nella sede del tribunale federale dell'Illinois avevamo sentito due agenti della Dea, l'agenzia statunitense che si occupa della lotta al narcotraffico, che si erano infiltrati nell'organizzazione criminale siculo-americana.
Il processo, per volere del rappresentante del dipartimento della Giustizia, si era svolto con il rito americano. Non avevo studiato la procedura penale statunitense e non conoscevo la giurisprudenza della Corte federale dell'Illinois. Insomma, non sapevo che pesci pigliare. Un bravissimo avvocato canadese che assisteva uno dei Caruana mi aveva fatto diventare matto con una serie di eccezioni sul rito e citazioni di decisioni della Corte suprema degli Stati Uniti che mi avevano spiazzato. Alla fine, grazie anche ai libri di John Grisham che avevo letto e alla mia passione giovanile per i telefilm di Perry Mason, ero riuscito a cavarmela discretamente e i due agenti avevano raccontato quello che sapevano sui terminali americani di Cosa nostra per il traffico di cocaina ed eroina. Ma che fatica!
«Di Pasquale Cuntrera non so nulla di nuovo» rispondo, quindi, a Caselli. È evidente la delusione di Rovello, che probabilmente spera in qualche informazione più fresca.
Ma chi le ha le notizie aggiornate? Pasquale Cuntrera, sessantatré anni, originario di Siculiana in provincia di Agrigento, era in carcere in Italia dal 1992, quando era stato estradato dal Venezuela in esecuzione di un mandato di cattura firmato otto anni prima da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Imputato, ovviamente, di partecipazione ad associazione mafiosa e traffico internazionale di stupefacenti, era stato condannato a ventun anni di carcere in primo grado e in appello. La sentenza definitiva della Cassazione non arriva però nei tempi stabiliti dal codice e il 6 maggio 1998 viene ordinata la sua scarcerazione.
La procura generale di Palermo ha la possibilità di impedire che il boss lasci il carcere di Parma dov'è detenuto, ma la comunicazione della Cassazione inviata nei tempi giusti si perde tra i meandri del palazzo di Giustizia e arriva dopo un paio di giorni sul tavolo del magistrato competente. Troppo tardi. Cuntrera lascia la casa circondariale emiliana e si rende subito irreperibile.
Il nuovo ordine di arresto emesso l'11 maggio resta ineseguito. Scoppia il finimondo. A tanti non pare vero di poter lanciare ulteriori strali sulla magistratura palermitana e sui suoi vertici. Polemiche a non finire, interrogazioni parlamentari, richieste di dimissioni del ministro di Grazia e Giustizia. E tutto, si dice, per colpa della procura generale di Palermo.
Rovello mi chiede aiuto. Quando avevamo arrestato Brusca aveva inviato a Caselli una lettera con cui si complimentava anche con me per la cattura del boss. Aveva sempre seguito con attenzione le mie indagini sulle ricerche dei latitanti e mi era stato vicino anche quando gli esiti non erano stati positivi. Per questo, in un momento così delicato per lui e per l'ufficio che dirige, si rivolge a me.
Gli assicuro che farò di tutto e Gian Carlo mi affida formalmente l'inchiesta.
Non so da dove e da cosa cominciare. Nei cinque anni precedenti passati alla procura di Palermo mi ero occupato della cosiddetta «bassa macelleria», di omicidi, occultamenti di cadaveri, depositi di armi e, ovviamente, ricerca di latitanti. Le «raffinate» indagini sul narcotraffico, il riciclaggio internazionale e i paradisi fiscali di Panama e delle Isole Vergini non erano certo la mia specialità. Mi autodefinivo «un pm da marciapiede» (il copyright dell'espressione va, però, al suo inventore, il mio collega Ignazio De Francisci).
E poi, negli anni in cui ero a Palermo, Cosa nostra era obiettivamente fuori dal grande giro degli stupefacenti. Aveva importato qualche quintale di hashish di scarsa qualità dal Marocco e pochi chili di cocaina dalla Spagna e dai Paesi Bassi. Degli ultimi due anni dell'attività criminale di Bagarella, grazie a Calvaruso, conoscevo vita, morte e miracoli, ma di droga, appena l'ombra. Un solo chilo di cocaina smerciato tra medici e architetti della «Palermo bene». Troppo poco.
Mi metto ugualmente al lavoro. Recupero i processi più o meno recenti sul traffico internazionale di droga e comincio a studiare centinaia di atti processuali, migliaia di carte ingiallite dal tempo. Mi convinco che tutto è cominciato con l'affare Big John. Seicento chili di cocaina purissima acquistati da Cosa nostra direttamente dai narcos e sbarcati nel 1989 in provincia di Trapani, a Castellammare del Golfo, da un velocissimo mercantile, il Big John appunto.
Con quell'operazione i mafiosi siciliani volevano avviare contatti diretti con i produttori colombiani lasciando fuori dalla spartizione della torta Cosa nostra americana che, fino a quel momento, aveva sempre fatto da intermediaria. In cambio, ovviamente, di una consistente quota dei profitti.
La droga arriva in Sicilia, ma uno dei trafficanti, l'italo-americano Joe Cuffaro, viene individuato dalla Dea e decide di collaborare con Giovanni Falcone. L'operazione diventa così di pubblico dominio e gli uomini d'onore statunitensi vengono a conoscenza del fatto che i loro «colleghi» siciliani hanno cercato di fregarli.
Fine dei giochi. Gli americani chiudono i rubinetti della droga, cocaina già raffinata o morfina base che sia. Cosa nostra è ai margini del giro internazionale di stupefacenti. Il suo ruolo, qualche tempo dopo, sarà preso dalla 'Ndrangheta calabrese, grazie ai buoni rapporti delle sue 'ndrine canadesi con Cosa nostra americana.
Leggo e rileggo quegli atti e mi tornano in mente le poche investigazioni sul narcotraffico che avevo seguito. Fatta eccezione per la vicenda svizzera di Cancemi, si trattava di roba di poco conto ma che, talvolta, mi fa anche sorridere e mi aiuta a non pensare per qualche istante alla difficile impresa in cui mi sono infilato: riportare in carcere, immediatamente, Pasquale Cuntrera. L'indagine più articolata e complessa che avevo coordinato per fatti di droga, quasi paradossalmente, risaliva ai tempi in cui facevo il pubblico ministero a Termini Imerese. Ma si trattava di un «pesce» piccolo, anzi piccolissimo.
Tale Basilio Scarcipino Pattarello, si chiama proprio così, all'epoca il più noto spacciatore del Termitano. Vendeva in continuazione roba di infima qualità. Si era già verificato qualche caso di overdose e fermarlo per noi era una priorità.
Ma ci fregava sempre. Non c'era verso di trovargli addosso un grammo di eroina. Se era per strada la ingoiava o la buttava nei tombini. Se andavamo a casa sua, dove c'era un continuo andirivieni di tossicodipendenti, la madre e le due sorelle che vivevano con lui si avventavano addosso a poliziotti e carabinieri per rallentarne l'ingresso nell'abitazione. Basilio aveva così tutto il tempo di buttare la droga nel water e tirare lo sciacquone: ennesima vana perquisizione. Ci aveva sempre gabbato in questo modo.
Gli Scarcipino Pattarello vivevano in una vecchia casa del centro storico di Termini Imerese, una di quelle senza facciata, restaurata in qualche modo un paio di decenni prima. Una di quelle case in cui i bagni sono stati realizzati successivamente all'originaria costruzione e, quindi, sono caratterizzati da grossi tubi, normalmente di un terribile colore arancione, fissati alle mura esterne e che, dalle grondaie e dai servizi, scaricano nelle fogne.
Mi viene un'idea. Firmo l'ennesimo decreto di perquisizione, ma prima di farlo eseguire mando i carabinieri a individuare il tubo di scarico della casa di Basilio. Lo rompono vicino alla base, mettono un secchio sotto e fanno l'irruzione.
Le due sorelle e la madre si producono nell'usuale sceneggiata. Solito muro umano: il ragazzo come sempre va nel bagno, butta la roba nel water e tira la catena. Ma stavolta la droga, una cinquantina di bustine di brown sugar già predisposte per la vendita al dettaglio, va a finire nel recipiente che abbiamo messo sotto. Così, finalmente, in flagranza di reato, arrestiamo Basilio e tutta la sua famiglia.
Cuntrera era decisamente un'altra cosa. Mi dovevo mettere sulle tracce di uno dei più grossi narcotrafficanti a livello mondiale di cui non conoscevo territorio, ambiente di riferimento, abitudini. E dovevo fare in fretta per far cessare le polemiche, obiettivamente ingiuste, su Rovello.
Comincio a muovermi in tutte le direzioni. Dopo un'infruttuosa ricerca nelle nostre banche dati, faccio il giro dei colleghi della procura e raccatto quello che sanno su Cuntrera. Così ho, perlomeno, un quadro di riferimento sul personaggio, anche se gli elementi che mi vengono forniti non sono per niente utili ai fini della ricerca del narcotrafficante.
Esiti ugualmente scoraggianti danno le mie richieste alle forze di polizia su eventuali notizie in loro possesso provenienti da fonti confidenziali o investigazioni sul territorio. Niente da fare. Cuntrera è roba vecchia e poi ha operato per lo più all'estero; in Italia sono in pochi a conoscerlo.
Provo persino a chiamare alcuni avvocati che assistevano i più aggiornati collaboratori di giustizia per sapere se, nel corso di qualche interrogatorio reso anche a procure diverse da quella di Palermo, qualcuno dei loro clienti avesse mai riferito informazioni sul boss, ma anche questo tentativo risulta inefficace.
Non ho nessuno spunto investigativo, devo procedere letteralmente a tentoni. L'unica cosa che riesco a sapere dal carcere di Parma è che, al momento della scarcerazione, per le eventuali notifiche successive, Pasquale Cuntrera ha indicato un indirizzo di Ostia, comune di Roma.
Penso di spostarmi per due o tre giorni nella capitale e convocare qualche decina di «pentiti» per vedere se hanno notizie su Cuntrera, ma, se non voglio lasciare niente di intentato, si tratta di un lavoro lungo e non esauribile in pochi giorni. Non posso certo chiedere al Servizio centrale di protezione di portarmi contemporaneamente a Roma trenta o quaranta collaboratori che vivono, sparsi per tutta Italia, in località segrete.
E poi si rischiano problemi enormi di incompatibilità tra gli stessi pentiti. Ricordo una collega di una procura del Nord Italia che aveva convocato, nel medesimo giorno, nello stesso posto, a distanza di dieci minuti l'uno dall'altro, Santino Di Matteo insieme a Monticciolo e Chiodo, le persone che gli avevano strangolato il figlio e ne avevano dissolto il cadavere nell'acido. Imprevedibile quello che sarebbe potuto succedere se si fossero casualmente incontrati.
Al di là di quello che solitamente si pensa, io, come credo tutti gli altri colleghi della procura di Palermo, non avevo i numeri di telefono dei collaboratori di giustizia, né avevo idea di dove si trovassero. Nessuno di noi voleva quelle notizie. Troppo rischioso, per loro e per noi stessi. Per un magistrato l'unico modo per ottenere informazioni da un collaboratore è procedere al suo interrogatorio. Regolarmente fissato, verbalizzato e registrato.
Occorre quindi fare prima una cernita. Tramite il Servizio centrale di protezione faccio chiedere ai collaboratori di giustizia che avevano «lavorato» con gli stupefacenti, se qualcuno di loro avesse notizie, anche generiche, su Cuntrera.
Passano un paio di giorni e il capo della squadra mobile di Palermo, Guido Marino, si presenta nel mio ufficio e mi dice che forse Giovanni Garofalo potrebbe esserci utile.
Giovanni Garofalo, Culo di paglia. La sua carriera criminale era cominciata nel quartiere palermitano di Brancaccio con il contrabbando dei «tabacchi lavorati esteri», le sigarette americane. Poi si era specializzato nello spaccio di droga. Ma non a bassi livelli. Tutt'altro.
Non era il classico pusher da angolo di strada. Giovanni Garofalo vendeva riservatamente, molto riservatamente, cocaina alla Palermo che conta: professionisti, manager, uomini politici anche di livello nazionale. E a furia di frequentare quegli ambienti aveva imparato a comportarsi adeguatamente, a vestire in modo ricercato, a parlare in un italiano più che accettabile.
Soprattutto aveva fatto tante conoscenze influenti, conoscenze che si aggiungevano a quelle acquisite come contrabbandiere, quando aveva distribuito qualche mazzetta a doganieri, finanzieri e capitani di lungo corso. Conoscenze che a Cosa nostra non potevano non interessare.
Così era finito nel giro di Nino Mangano e Leoluca Bagarella. Nel libro mastro di Mangano c'era un'intera pagina dedicata a Culo di paglia. Incarichi diversi e un po' più delicati rispetto a quelli degli altri componenti del gruppo: contattare l'avvocato Tizio, parlare con il medico Caio, mettere a posto (stabilire l'importo del pizzo) l'imprenditore Sempronio...
Capelli biondi, a caschetto, con la riga in mezzo, viso rotondo, aria cordiale, statura media, un po' robusto. Con una particolarità fisica che, però, salta subito agli occhi: un fondoschiena che effettivamente ricorda quello degli spaventapasseri costruiti imbottendo di paglia fino all'inverosimile vecchi pantaloni. Da qui il suo soprannome.
Lo convoco immediatamente a Palermo. Avviso telefonicamente il suo avvocato e fisso un interrogatorio in questura. È il 21 maggio 1998.
«Dottore, non so se le può interessare, ma un paio d'anni fa Gaspare Spatuzza si era recato a Roma per recuperare 350 milioni di lire che certi fratelli Treassi, o Triassi, di Ostia dovevano far avere a un suo amico in pagamento di una partita di hashish. Prima di partire Spatuzza mi disse che, se non gli versavano i soldi, ci dovevamo organizzare per ucciderli, ma quando tornò mi riferì che non solo i Triassi erano persone a posto e avevano Ostia "nelle mani", ma che erano legatissimi ai Cuntrera.»
I fratelli Vito e Vincenzo Triassi, anche loro agrigentini, erano emigrati da tempo sul litorale romano, a Ostia, proprio dove, guarda caso, ha eletto domicilio il narcotrafficante in fuga. Non li avevo mai sentiti nominare. Un giro di rapide telefonate e apprendo che si tratta di persone senza precedenti penali che gestiscono palestre e supermercati, ma sospettate di avere avuto rapporti anche con esponenti della Banda della Magliana.
Già, la Banda della Magliana. Mi vengono in mente, in rapida successione, mafiosi come Pippo Calò e Lorenzo Di Gesù, trafficanti e finanzieri come Flavio Carboni e Roberto Calvi, l'omicidio di Mino Pecorelli, la destra eversiva e poi l'ultimo capo della banda su cui avevo letto qualcosa, Enrico De Pedis, le cui «gesta» mi riportavano ancora alla zona di Ostia. Ma Cuntrera che c'entra con questi?
Forse poteva esserci qualche collegamento dei Triassi con la cattura di Melo Zanca, mafioso palermitano latitante dal 1982. Lo avevamo preso, con i carabinieri del comando provinciale di Palermo, tredici anni dopo, il 27 agosto 1995 a Torvajanica mentre prendeva il sole su una spiaggia affollata.
Bella indagine quella, soprattutto il blitz finale, con i carabinieri che si fingevano bagnanti nascondendo le mitragliette Beretta Pm 12 d'ordinanza sotto costumi sproporzionati, incredibilmente larghi, lunghi e colorati, obiettivamente fuori moda.
Ma c'erano rapporti tra i Triassi e i tre favoreggiatori di Zanca arrestati con lui? Quanto dista Ostia da Torvajanica? È sempre il litorale romano, no? Altro che conoscenza del territorio, conoscenza della preda, delle sue abitudini, del suo ambiente di riferimento. Ma almeno adesso ho un punto di partenza: i fratelli Triassi.
Con Antonio Manganelli, allora questore di Palermo, chiamiamo l'ufficio competente, la Criminalpol di Roma. All'altro capo del telefono c'è Nicola Calipari. Sì, proprio lui, l'uomo che sacrificherà la sua vita in Iraq ucciso da fuoco «amico» americano mentre sta riportando a casa Giuliana Sgrena, la reporter del «Manifesto» rimasta per un mese prigioniera di una banda di sequestratori. Con Calipari c'è un'intesa immediata.
Concordiamo di lavorare insieme. Non avevo ancora avuto modo di incontrarlo personalmente ma me lo avevano descritto come un ottimo funzionario di polizia. E poi è lui che conosce il territorio.
Subito gli accertamenti di routine e in serata abbiamo anche i tabulati telefonici dei Triassi e quelli dei loro familiari. Capiamo che la dritta di Garofalo è quella giusta.
Proprio il giorno della scarcerazione di Cuntrera, da una cabina telefonica appena fuori del carcere di Parma, parte una telefonata per una delle utenze di casa Triassi. Ma c'è di più. C'è un telefono cellulare in uso a una delle loro donne che, via via, aggancia le celle di Parma, Roncobilaccio, Barberino del Mugello, Arezzo, Orte... Insomma la A1, l'Autostrada del Sole in direzione sud. Dall'Emilia fino a Roma.
È la prova che proprio i Triassi sono andati a prendere Cuntrera a Parma e, in auto, l'hanno portato verso la capitale. Ma adesso dov'è finito?
Dai tabulati telefonici che abbiamo in mano saltano subito all'occhio alcune telefonate provenienti dall'estero, prefisso internazionale 0034, la Spagna. A seguire c'è quello nazionale, 952. Lo digitiamo in Internet (quando si dice i potenti mezzi della magistratura!) e viene fuori la provincia di Malaga, in Andalusia.
Contattiamo immediatamente l'Interpol e scopriamo che quei numeri corrispondono a quattro cabine telefoniche di Fuengirola, una località turistica a una ventina di chilometri da Torremolinos.
In quella zona, nella Costa del Sol, c'ero stato da studente universitario. Era l'estate del 1982, l'anno del trionfo azzurro ai mondiali di Spagna. Che magnifico posto. Chilometri di costa quasi incontaminata, qualche villaggio di pescatori, casette colorate, spiagge splendide di sabbia fine, gente affabile e ospitale.
C'ero tornato sette anni dopo, nel 1989. Incredibile la trasformazione. Il mare era diventato di cemento e mattoni. Alberghi più o meno lussuosi erano sorti come funghi, enormi alveari di villette tri, quadri, addirittura, pentafamiliari si estendevano sul litorale. E c'erano ancora ruspe, gru e betoniere dappertutto a costruire l'ennesimo supermercato o un'altra discoteca à la page. A ogni incrocio c'erano spacciatori di hashish che attiravano la mia attenzione gridando: «Italiano, cioccolato?». Partiti da Milano con una eroica Panda 30, ci eravamo dovuti spingere fino a Tarifa, alla punta più a sud d'Europa, per riuscire a vedere il mare.
Fuengirola adesso ha la fama di un posto di villeggiatura di massa, una delle tante Rimini spagnole, con file di palazzi costruiti di fronte alla spiaggia a soffocare le poche casette rimaste del vecchio borgo marinaro e il classico lungomare caratterizzato da splendidi palmizi.
Un buon posto dove una persona non più giovane possa passare inosservata, possa mischiarsi, in primavera inoltrata, ai pensionati in cerca di sana aria di mare, al riparo dalla rumorosa folla di bagnanti che da lì a poco invaderà quelle spiagge.
Questa riflessione ci induce ad accelerare i tempi e Nicola Calipari mi dice che può mandare subito in Costa del Sol un suo uomo, uno che conosce fisicamente Cuntrera. L'uomo giusto è il dottor Rosati del Servizio centrale operativo della polizia di Stato. Non si tratta di un funzionario qualsiasi, ma di uno di quelli che aveva personalmente partecipato all'estradizione dal Venezuela del narcotrafficante di Siculiana.
Mi sembra un'ottima idea. Se non ci siamo sbagliati, Cuntrera dovrebbe essere proprio a Fuengirola e dovrebbe utilizzare quotidianamente una di quelle quattro cabine telefoniche. Lì, prima o poi, deve farsi vedere. Rosati prende il primo volo utile e arriva in Spagna. Atterra a Malaga e raggiunge in macchina il centro turistico.
Ma dobbiamo anche intercettare quei telefoni. Dobbiamo scoprire se è proprio Cuntrera che da quelle cabine chiama i Triassi tutte le sere da quando ha lasciato il carcere di Parma. Occorre procedere con la rogatoria internazionale.
«Palermo, 23 maggio 1998 - Alla competente Autorità Giudiziaria del Regno di Spagna.» È diventato tutto semplice dopo la sottoscrizione degli accordi di Schengen. Si scrive direttamente al magistrato del luogo senza inutili lungaggini diplomatiche. La richiesta di rogatoria viene trasmessa all'Interpol che individua il giudice competente e, in uno o due giorni al massimo, gli trasmette l'istanza. Al ministero si invia solo una comunicazione, per conoscenza.
Una prima risposta dall'Interpol arriva il giorno stesso, dopo un paio d'ore. E questa proprio non ce l'aspettavamo: dei quattro telefoni pubblici che volevamo intercettare due erano già sotto controllo. Ufficialmente da parte della guardia civil, i carabinieri spagnoli per intendersi.
Ma i militari iberici della llamada benemérita hanno solo una vaga idea del perché stanno ascoltando quelle conversazioni. Hanno ottenuto l'autorizzazione dal tribunale di Malaga su richiesta del «collaterale organo italiano», l'Arma appunto, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri di Roma.
Ci metto un po' prima di capire cosa sta succedendo. In questi casi scattano forme di naturale gelosia investigativa tra magistrati e forze di polizia. Silenzi, risposte evasive, protocolli burocratici, anche se, alla fine per fortuna il buon senso ha quasi sempre la meglio.
I carabinieri del Ros, su delega del collega Andrea De Gasperis della procura di Roma, in quel periodo stanno indagando proprio sui Triassi, sospettati di costituire i terminali di alcuni traffici internazionali di stupefacenti. Tengono sotto controllo alcune loro utenze telefoniche e, come noi, si incuriosiscono per quelle «telefonate spagnole».
Invece di procedere con la prevista rogatoria internazionale, grazie ai buoni rapporti con la guardia civil, ottengono che siano direttamente gli investigatori spagnoli a intercettare quei telefoni, come se fosse una loro indagine. E così accorciano i tempi.
Quando apprendo queste notizie penso che con il collega romano non ci saranno problemi a trovare un'intesa, mentre sarà molto più complicato coordinare Ros e Sco. La rivalità tra i due organi centrali investigativi di carabinieri e polizia è cosa nota. Ma non è sempre così deleteria, come infatti, e per fortuna, accade in questo caso.
Telefono a De Gasperis e mi dice che loro non stanno cercando Cuntrera. Stanno invece lavorando su una grossa partita di droga che sta per giungere in Italia. Per questo i carabinieri si erano spinti nella zona di Torremolinos e si erano imbattuti nelle tracce del narcotrafficante in fuga di cui, forse, avevano anche ascoltato la voce al telefono. Insomma un'indagine completamente diversa ma che, insieme alla mia, può aiutarci a raggiungere l'obiettivo.
Occorre fissare un incontro, una riunione di coordinamento con le procure di Roma e Palermo e i vertici di Ros e Sco. È necessario incontrarci, discutere, suddividere i compiti, evitare di danneggiarci a vicenda...
E dobbiamo anche fare in fretta. Il boss di Siculiana potrebbe partire per il Sudamerica da un giorno all'altro. I giornali italiani, del resto, lo danno già in Venezuela o in Ecuador a sorseggiare una batida gelata all'ombra di palme e banani. Alla faccia nostra. E del ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Maria Flick, che, tre giorni prima, il 20 maggio, attaccato anche da esponenti della sua maggioranza, si era assunto la responsabilità politica del fatto. Era perfino arrivato a presentare le dimissioni che, però, il presidente del Consiglio aveva respinto.
Insomma a Roma si discute; e mi tornano in mente le parole di Tito Livio, ricordate dal cardinale Pappalardo ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur, mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata.
Questa volta però, per fortuna, le cose vanno esattamente al contrario. Mentre proprio a Roma noi discutiamo su come e dove incontrarci per coordinare al meglio le rispettive attività d'indagine, mi chiama Calipari e mi comunica che Cuntrera è stato appena catturato. Lo hanno preso gli uomini del Ros e dello Sco. Insieme.
Impresa sorprendente, almeno per quel periodo: due giorni dopo il suo arrivo nella cittadina turistica iberica, Rosati, di mattina, con la coda dell'occhio sempre rivolta ai posti di telefono pubblico, incontra una persona che conosce bene. No, non si tratta del boss siciliano, ma del maggiore Laurenti dei carabinieri del Ros che è stato mandato in Costa del Sol per il medesimo motivo. L'ufficiale dei carabinieri ha in tasca l'ultima foto segnaletica di Cuntrera scattata nel carcere di Parma.
I due non possono far finta di non vedersi. Così fanno di necessità virtù e, mentre noi in Italia stiamo cercando un accordo, decidono di mettersi a lavorare insieme. Lealmente e fruttuosamente.
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno vedono una coppia di anziani che passeggia a braccetto sul lungomare di Fuengirola. L'uomo cammina aiutandosi con un bastone e porta un elegante panama bianco.
Rosati scambia un rapido cenno d'intesa con Laurenti e si avvicina ai due: «Salve, signor Cuntrera. Ho un ordine di cattura internazionale nei suoi confronti da eseguire».
«No hablo italiano; soy español y no lo sé. Se confunde», risponde l'uomo parlando in spagnolo e guardando di lato.
«No, non mi sbaglio, signor Cuntrera. Si ricorda di me? Eravamo insieme sull'aereo che l'ha portato in carcere in Italia dal Venezuela.»
Il boss agrigentino solleva appena la tesa del suo cappello, alza gli occhi e incontra quelli del funzionario dello Sco che gli sta davanti. Lo riconosce immediatamente e, a pochi passi da lui, nota anche l'altro uomo, pure questo con l'aria da sbirro. Capisce che non può più fare nulla, fine della fuga.
Una telefonata con il cellulare e pochi istanti dopo alcune camionette della guardia civil arrivano sul posto. Gli spagnoli prendono in consegna il narcotrafficante e lo portano via. Destinazione il carcere di Malaga da dove Cuntrera ripartirà il giorno dopo per quello di Madrid in attesa dell'ennesima estradizione in Italia.
È domenica 24 maggio 1998. Sono passate poco più di due settimane dalla scarcerazione di Cuntrera e appena quattro giorni dalla dritta di Culo di paglia. L'obiettivo numero uno di Falcone e Borsellino nel contrasto al narcotraffico internazionale è di nuovo nelle mani della giustizia.
Chiamo Rovello che avevo tenuto informato costantemente dello sviluppo delle indagini e che, grazie alla sua passata esperienza professionale presso gli uffici centrali del ministero, mi aveva fornito indicazioni preziose per acquisire rapidamente dalla Spagna le notizie che mi servivano.
L'anziano magistrato non mi nasconde la sua commozione e soddisfazione. Forse ora le critiche si attenueranno, forse si smetterà di sparare a zero sul suo ufficio, forse adesso qualcuno prenderà atto che il nostro Paese, quando vuole, è anche in grado di rimediare ai propri errori.
E forse va proprio così. Vengono varate nuove disposizioni regolamentari per rendere più efficaci le comunicazioni tra gli uffici giudiziari, l'estradizione di Cuntrera procede senza intoppi, le polemiche sulla procura generale di Palermo non trovano più spazio sugli organi di informazione. Il 29 maggio successivo, anche le mozioni di sfiducia presentate nei giorni della crisi nei confronti dei ministri dell'Interno e di Grazia e Giustizia vengono respinte dalla Camera dei deputati. A larghissima maggioranza.