VIII
Il regista delle «cantate»
PM SABELLA: E allora quel Riina di Partinico, detto Mortadella?
G. BRUSCA: Un piccolo imprenditore.
PM SABELLA: Un piccolo imprenditore, che è stato ucciso fuori...
G. BRUSCA: Sì, perfetto, che io l'ho sempre inquadrato da parte...
PM SABELLA: Era socio di Mommo Salvia?
G. BRUSCA: Socio o prestanome per conto di Mommo Salvia, cioè i lavori che si appaltava questo nel 1994-95 erano per conto di Brugnano e di Mommo Salvia. Ha capito ora?
PM SABELLA: Ho capito, ma ho capito troppo però.
G. BRUSCA: A me mi fa piacere quando lei capisce troppo.
«E io, in verità, non ci ho capito niente! Ti ricordi di cosa si tratta?» È una telefonata del maggio 2007. All'altro capo dell'apparecchio c'è una collega di Palermo che mi legge la trascrizione testuale di un mio interrogatorio di Giovanni Brusca del 1999 e, giustamente, mi chiede spiegazioni.
Adesso faccio il giudice al tribunale di Roma, non proprio per mia libera scelta, ma così sono andate le cose. Non mi occupo più di mafia. Sul mio tavolo fascicoli di reati edilizi, fallimenti, ricettazioni di motorini.
La collega ha ripreso le indagini sull'omicidio di Francesco Brugnano, confidente del maresciallo Antonino Lombardo di Terrasini e ucciso nel 1995, e vuole utilizzare quelle dichiarazioni. Cosa voleva dire il boss di San Giuseppe Jato? E soprattutto cosa ci avevo capito io?
Ci metto una ventina di minuti per spiegarle quello che Giovanni Brusca mi voleva far intendere, e quel «troppo» che avevo capito e che non posso rivelare pubblicamente.
Il mio rapporto con Brusca, da collaboratore di giustizia, era così. Un dialogo tra siciliani dove, più che le parole dette, contavano i gesti, le espressioni del viso, le pause, le interruzioni di frasi al momento giusto, il nome buttato lì, quasi per caso, ma che ha un significato inequivocabile per entrambi. Sono stato spesso rimproverato da Gian Carlo Caselli, che, da piemontese concreto e razionale, voleva vedere nero su bianco dichiarazioni chiare e comprensibili a tutti. Anche a distanza di anni. E aveva indubbiamente ragione, come quest'episodio dimostra chiaramente.
Purtroppo con Giovanni Brusca non riuscivo a comportarmi diversamente. Se forzavo troppo la mano, se tentavo di costringerlo a esprimersi apertamente, senza perifrasi, senza sottintesi, si irrigidiva e diventava estremamente evasivo. E poi ero perfettamente consapevole che l'ex boss di San Giuseppe Jato non intendeva affrontare certi argomenti particolarmente spinosi. Riteneva, e forse a ragione, che non ci fossero le condizioni per far piena luce su alcune vicende politico-giudiziarie degli anni Ottanta e Novanta.
«Dotto', non mi posso mettere contro a tutti» mi dice alla fine di un interrogatorio, notando la mia faccia delusa, mentre lo saluto nel carcere romano di Rebibbia.
Ormai è irriconoscibile. Ha perso almeno una quindicina di chili. Quella pancia enorme e quella barba lunga e incolta, che avevano fatto il giro delle televisioni di mezzo mondo al momento del suo arresto e che erano state pubblicate in prima pagina persino dal «Times», sono uno sbiadito ricordo. Occhialini da intellettuale, capelli corti e ordinati, fisico asciutto. Sembra un tranquillo e educato ragioniere di mezz'età. Solo che i conti li facciamo sugli omicidi che aveva commesso o ordinato. Non se li ricorda nemmeno tutti, tanto che sono costretto a procurarmi un elenco dei morti ammazzati e delle scomparse in Sicilia occidentale negli ultimi vent'anni.
E, con lui, a spuntare la lista: «Questo omicidio l'ho fatto io; di quest'altro non so nulla; di questo conosco il movente; questo dovrebbe averlo deliberato Tizio; questo tipo l'hanno fatto sparire Caio e Sempronio su ordine mio...».
Le remore morali nei confronti dei suoi amici ed ex amici paiono scomparse. Elenca con precisione fatti, nomi e circostanze. Adesso sembra aver chiuso definitivamente con il suo passato di mafioso di prim'ordine.
Le prime fasi della collaborazione di Giovanni Brusca erano rimaste coperte da strettissimo riserbo anche nell'ambiente giudiziario. Oltre a Gian Carlo Caselli, che aveva informato i procuratori aggiunti, solo Franco Lo Voi e io ne eravamo a conoscenza.
Il boss di San Giuseppe Jato aveva manifestato la sua volontà di collaborare con lo Stato, guarda caso, proprio alle cinque di pomeriggio del 23 maggio 1996, a distanza di quattro anni esatti dal momento in cui aveva azionato il telecomando utilizzato per la strage di Capaci.
«Il bambino ha bisogno di affetto» mi dicono con quella telefonata dall'Ucciardone. Ma noi vogliamo veramente darglielo, quell'affetto?
Non avverto subito Caselli. Mi voglio prendere qualche minuto di riflessione. In fondo si tratta del boia di Falcone, dell'uomo che ha fatto strangolare e disciogliere nell'acido un ragazzino di quattordici anni dopo averlo tenuto sequestrato per ventisei mesi, dello spietato killer che ha ammazzato decine, forse centinaia, di persone. Ci ha fatto impazzire per catturarlo e adesso, tre giorni dopo il suo arresto, si arrende e ci chiede i benefici previsti per i collaboratori di giustizia. Troppo comodo. «Troppo comodo e troppo facile. Troppo comodo, troppo facile e troppo semplice» avrebbe detto il padre della Sedotta e abbandonata del film di Pietro Germi. E noi cosa diremo ai familiari delle sue vittime? Uno come Brusca non dovrebbe marcire, morire all'ergastolo? Non è giusto che il Paese si prenda la sua «vendetta» fino in fondo?
Domande legittime, ma domande da cittadino qualunque. Domande etiche - mi dico - e un magistrato ha il dovere di essere laico. E poi esiste una legge dello Stato. Perché non si deve applicare anche per Giovanni Brusca? Solo perché è 'U verru, il maiale? Il suo aiuto può essere veramente importante. Può consentirci di leggere dall'interno, ai massimi livelli, la storia di Cosa nostra degli ultimi vent'anni. Come si può rinunciare a un patrimonio di conoscenze così ricco e che può servire a salvare tante vite umane?
«Ma riuscirò a stringergli la mano quando lo dovrò interrogare?» Fa brutti scherzi il cervello in certe situazioni. Tra tutte le innumerevoli, e decisamente molto più delicate, questioni che avrebbe comportato una collaborazione di Brusca, il problema che mi assilla più di ogni altro è quello del mio eventuale contatto fisico con le mani che hanno versato il sangue di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo.
Forse è per questo motivo che decido di parlare subito con Franco Lo Voi, che di Falcone e della moglie era veramente amico.
«Cosa farebbe Giovanni al nostro posto? Questa è l'unica domanda che dobbiamo porci. E la risposta è scontata. Dobbiamo andare avanti!»
La stessa sera richiediamo e otteniamo dal ministro della Giustizia l'autorizzazione al colloquio investigativo. Luigi Savina e Claudio Sanfilippo, nascosti nel cofano di una macchina, entrano nell'area riservata del carcere dell'Ucciardone. E incontrano Brusca.
I due poliziotti ritornano con una marea di informazioni sui possibili rifugi di vari latitanti. Ci accorgiamo, però, che si tratta solo di gente strettamente legata a Bernardo Provenzano: Carlo Greco, Pietro Aglieri, Salvatore Di Gangi, Nino Giuffrè. Nulla su Matteo Messina Denaro, nulla su Vito Vitale, nulla su Gaspare Spatuzza.
Per sfruttare al massimo quelle indicazioni ed evitare che possano trapelare indiscrezioni, decidiamo di non andarlo a interrogare.
Brusca fa il mafioso a tutti gli effetti. Partecipa ai processi, inveisce contro gli «infami pentiti» che lo chiamano in causa, scambia occhiate e cenni d'intesa con gli altri boss che, come lui, occupano le gabbie delle aule bunker di mezza Italia.
Nel frattempo cominciamo a sviluppare le sue informazioni. Troviamo il covo di Salvatore Di Gangi, il boss di Sciacca, che però ci sfugge per un soffio. Piazziamo microspie nei posti dove potrebbe rifugiarsi Provenzano anche se capiamo subito che le informazioni di Brusca, che erano sicuramente buone, sono ormai vecchie e superate. L'anziano e accorto capomafia corleonese - preoccupato dalla collaborazione di Monticciolo e temendo che Brusca potesse avergli rivelato le notizie che conosceva sulla sua latitanza - aveva già tagliato tutti i vecchi contatti.
Dà invece esito positivo l'indagine su Carlo Greco, numero due del mandamento mafioso di Santa Maria di Gesù, che catturiamo il 25 luglio 1996.
Per evitare che l'arresto di Greco possa essere messo in relazione con Giovanni Brusca, io e Franco Lo Voi, che eravamo notoriamente i magistrati che avevano coordinato le indagini per la cattura del boss di San Giuseppe Jato, non partecipiamo alla conferenza stampa di rito. Addirittura evitiamo di firmare le richieste di convalida degli arresti dei favoreggiatori di Greco chiedendo al collega Antonio Ingroia la cortesia di farlo al nostro posto.
Ma non servirà a molto. Già lo stesso giorno della cattura di Carlo Greco qualche giornalista comincia a farci domande sulla sorte dell'assassino di Falcone: «Dov'è? Cosa fa? Quante volte lo avete interrogato? Come mai sua moglie non è a San Giuseppe Jato? È vero che si è pentito? E l'arresto di Carlo Greco?».
Non possiamo più procrastinare l'incontro con Brusca. Gli faccio notificare un avviso di garanzia per un omicidio «qualsiasi», quello di Massimo Capomaccio. In questo modo posso nominargli un difensore d'ufficio diverso dall'avvocato Vito Ganci, suo legale di fiducia in altri processi. E andiamo a interrogarlo. In gran segreto.
La riservatezza assoluta è il nostro assillo: per sentirlo utilizziamo un ufficio dell'amministrazione postale di Palermo. Con me, tra sacchi di lettere e raccomandate, ci sono Gian Carlo Caselli, Guido Lo Forte, Arnaldo La Barbera, Luigi Savina, Claudio Sanfilippo. L'avvocato d'ufficio, regolarmente avvisato, non è venuto e Brusca non ha voluto nominarne uno di fiducia.
È il 27 luglio. Il boss di San Giuseppe Jato non è diverso da come lo avevamo visto il giorno della cattura. Si è solo sfoltito un po' barba e capelli e si è cambiato d'abito. Peraltro il viaggio nell'angusto cellulare completamente schermato alle quattro di quel pomeriggio estivo lo ha fatto sudare. Previdente, si è portato una camicia di ricambio che ha indossato prima di entrare nell'ufficio dove lo aspettiamo.
E dove tutti gli stringiamo la mano.
C'è qualcosa di strano, però, e non si tratta di quell'iniziale imbarazzo assolutamente normale in questi casi. Mi colpisce il suo anomalo atteggiamento, supponente e arrogante. Come se fosse lì a farci una cortesia, suo malgrado.
Comincia l'interrogatorio e, fin dalle prime battute, Giovanni Brusca fa di tutto per parlare di Giulio Andreotti, il senatore a vita più volte presidente del Consiglio in quel momento sotto processo a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa.
No, non era certo quella la nostra priorità. Nessuno gli aveva rivolto domande al riguardo. Come per ogni collaboratore i primi interrogatori erano destinati alle emergenze: progetti di omicidi da evitare, latitanti da catturare, armi da sequestrare, «talpe» da rendere innocue.
Con Brusca questo non è possibile. Ha stabilito che ci deve parlare di quello che vuole lui. Sposta sempre il discorso sulla collaborazione di Balduccio Di Maggio, il «pentito del bacio», una delle principali fonti di accusa nel processo Andreotti. Lo accusa di aver detto una serie di bugie. Evidentemente lo vuole delegittimare, operazione che subito dopo tenta di fare anche con Monticciolo: «Non c'era Vito Vitale a sparare ai Giammona ma mio fratello Enzo. Giovanni Riina non c'entra con lo strangolamento di Antonio Di Caro. Monticciolo vi ha mentito. E con lui Chiodo, il custode di Giambascio».
Lasciamo Brusca con una sensazione di disagio. Sarà difficile avere una collaborazione sincera, attendibile da lui.
Le cose addirittura peggiorano nel secondo incontro. Siamo in una cella di Rebibbia adesso. Con me, che mi limito a svolgere il lavoro materiale di registrazione e verbalizzazione, ci sono i procuratori di Palermo, Firenze e Caltanissetta.
«I tre tenori», li avevo definiti scherzosamente per l'occasione, con riferimento al famoso concerto alle Terme di Caracalla di Pavarotti, Domingo e Carreras. Solo che Brusca vuole fare lo Zubin Metha della situazione, vuole essere ancora lui il regista delle «cantate». E, di fatto, ci riesce.
Evasivo sulle domande specifiche che gli si pongono, batte sempre sullo stesso chiodo: Andreotti, Di Maggio e Monticciolo.
I numerosi «esami» successivi cui viene sottoposto durante un agosto caldissimo, passato da me e da tanti altri colleghi interessati alle rivelazioni dell'uomo di Capaci in una cella rovente del carcere romano, danno i medesimi risultati.
«Senta Brusca, guardi che Di Maggio ha escluso di aver partecipato, come dice lei, alla strage Chinnici e ha detto che l'omicidio Filippi è stato commesso materialmente da suo fratello Enzo.» «Francesco Di Piazza ci risulta essere uomo d'onore e proprio nella sua stalla dovrebbe essere stato ucciso Antonio Di Caro.» «Dalle dichiarazioni di Monticciolo e dai rapporti della Dia emerge che suo cugino Stefano Bommarito e Romualdo Agrigento hanno custodito il piccolo Di Matteo...»
«È tutto falso,» era la monotona risposta di Giovanni Brusca «Di Maggio e Monticciolo non dicono la verità.»
Ricordo, a settembre, una riunione di coordinamento presieduta da Bruno Siclari, l'allora procuratore nazionale antimafia, con la partecipazione dei rappresentanti delle tre procure interessate.
Noi, d'intesa con i colleghi di Firenze, volevamo sospendere gli interrogatori di Brusca: lo ritenevamo inattendibile e gli volevamo mandare un chiaro segnale di disinteresse rispetto alle sue rivelazioni inquinate e inquinanti. La procura di Caltanissetta, invece, voleva andare avanti.
Durante l'accesa discussione, il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra tira fuori l'asso dalla manica, l'argomento, secondo lui, vincente: «Diamo tempo a Brusca, è da meno di un mese che lo interroghiamo. Non possiamo interrompere un rapporto appena nato».
La brillante replica di Roberto Scarpinato, magistrato di Palermo, fa ormai parte della tradizione orale della procura: «Un rapporto si nutre di presenze, ma anche dello splendore fittizio dell'assenza!». E ci aggiudichiamo la partita «congelando» Brusca.
La tattica attendista dà i suoi frutti. Giovanni Brusca corre ai ripari e, non so come, riesce a comunicare al fratello che è detenuto all'Ucciardone di farsi avanti. Enzo deve semplicemente far finta di collaborare e confermare le fandonie che ci aveva raccontato Giovanni.
La solita Armida Miserere, che ancora dirigeva il carcere palermitano, ci avvisa immediatamente dell'intenzione del più piccolo dei Brusca. Da donna intelligente e intuitiva qual era, capisce subito che c'è sotto qualcosa di strano e ci illustra le sue perplessità.
Decidiamo allora di sondare il terreno e, invece di sentire formalmente Enzo, gli mandiamo i poliziotti della mobile per un colloquio investigativo. L'esito è proprio quello che ci aspettavamo: piena conferma delle dichiarazioni del fratello. Addirittura Enzo Brusca si assume la responsabilità di un duplice omicidio a Corleone per il quale in realtà era innocente e che aveva commesso Vito Vitale, il boss di Partinico, amico fidato di suo fratello Giovanni.
In queste condizioni non andiamo nemmeno a interrogarlo. Riteniamo sia opportuno «congelare» anche lui.
Enzo, evidentemente, prende atto della nostra indifferenza e pensa di cambiare obiettivo. Si mette a Modello tredici e chiede espressamente di parlare con il maresciallo Di Bella della Dia di Palermo. Antonino Di Bella, da sottufficiale dei carabinieri, aveva comandato a lungo la stazione di San Giuseppe Jato e di quel paese conosceva pure le pietre. Con il maresciallo Rosario Merenda, pure lui della Dia, costituiva la nostra memoria storica sui Brusca e il loro ambiente.
Quando si dice il caso! L'addetto all'ufficio matricola dell'Ucciardone non capisce bene e, ingannato dall'assonanza dei cognomi e dall'iniziale dei nomi di battesimo, invece di «A. Di Bella» trascrive sul modulo il mio nome: «A. Sabella».
L'istanza arriva così sul mio tavolo. È il 1° ottobre del 1996. Io e Lo Voi andiamo in carcere a incontrarlo.
Enzo Brusca è stupito di vederci. Si aspettava l'ex comandante dei carabinieri del suo paese. Non era per niente pronto a incontrare dei magistrati.
Comincia a dire di voler collaborare e cerca di raccontare i fatti secondo la versione del fratello. Ma non ha una grande stoffa da mafioso e non è in grado di sostenere un interrogatorio come si deve. Un paio di contestazioni da parte nostra ed Enzo cede. Ci accenna sommariamente a un piano di depistaggio elaborato da Giovanni e, stavolta, è lui a chiedere tempo.
Torniamo dopo qualche giorno ed Enzo vuota letteralmente il sacco e mette nero su bianco quello che noi già sospettavamo.
Con la sua collaborazione avvelenata il fratello Giovanni voleva «salvare» da conseguenze penali numerose persone a lui legate, tra cui Vito Vitale e Giovanni Riina. Aveva, soprattutto, intenzione di minare la credibilità di diversi collaboratori di giustizia: da Balduccio Di Maggio a Giuseppe Monticciolo. Giovanni, di fatto, si proponeva «di destabilizzare alcuni processi», parole testuali del fratello.
Voleva, insomma, inserire un vulnus nel nostro sistema giudiziario che, inevitabilmente, avrebbe portato a una rimodulazione della normativa in materia di collaborazione con la giustizia. Lo scopo finale era giungere alla revisione di diversi processi fondati principalmente sulle dichiarazioni dei «pentiti».
Un piano che i due fratelli avevano concepito nelle linee generali durante la latitanza. I dettagli, poi, li avevano messi a punto da dietro le sbarre, comunicando a gesti, durante le udienze del processo Agrigento + 61 che li vedeva entrambi imputati.
Non era servito a molto tenerli in celle lontane: per loro, non era necessario parlare. Come tra sordomuti. Bastava un cenno della mano per indicare un luogo o assumere una posa perché fosse chiaro il riferimento a una persona. Era sufficiente il lieve movimento di un braccio per richiamare un episodio del passato, mostrare qualche dito per suggerire una data. E si erano capiti perfettamente.
Il diabolico piano di Giovanni Brusca era fondato su un ragionamento semplice. Io sono un mafioso destinato a scontare una decina di ergastoli. Accuso qualcuno che è già ampiamente compromesso, faccio arrestare qualche latitante della «parrocchia» di Provenzano e salvo dal carcere a vita molti miei amici. Così evito anche l'ergastolo e, allo stesso tempo, faccio un favore grosso a tutta Cosa nostra distruggendo la credibilità dei più informati collaboratori di giustizia, con in testa il mio odiato nemico Balduccio Di Maggio, approfittando dell'importante platea costituita dal processo Andreotti.
Del resto Giovanni Brusca, già da mafioso latitante, si era in qualche modo specializzato nell'attività di inquinamento delle dichiarazioni dei pentiti.
Aveva cominciato dopo che Balduccio Di Maggio aveva accusato Enzo di aver partecipato allo strangolamento di un certo Filippi.
Giovanni Brusca aveva costruito ex novo un falso alibi di prim'ordine per il fratello: proprio il 14 novembre 1989, il giorno di quell'omicidio, Enzo Brusca era stato operato di ernia inguinale a Palermo e, dunque, si trovava in un letto d'ospedale e non certo a San Giuseppe Jato, in contrada Dammusi, a tirare il cappio messo al collo del povero Filippi, così come aveva dettagliatamente riferito Di Maggio.
Era tutto a posto. C'era una regolare cartella clinica a nome di Enzo Salvatore Brusca, con corrette date di ingresso, operazione e dimissione. Il suo nome risultava annotato, alla pagina 163, nell'elenco dei ricoverati della Terza Chirurgia dell'Ospedale Civico di Palermo e nel registro delle persone dimesse qualche giorno dopo. Persino in una cartella successivamente rilasciata a Enzo era riportato il precedente intervento di ernia inguinale eseguito il giorno dell'omicidio.
Agevole quindi la tesi difensiva dell'avvocato Vito Ganci: «Di Maggio si è indubbiamente sbagliato. E così come si è sbagliato con Enzo Salvatore Brusca potrebbe essersi sbagliato con tanti altri innocenti padri di famiglia che ha coinvolto con le sue dichiarazioni. L'uomo che, si dice, ha contribuito alla cattura di Salvatore Riina deve essere ritenuto inattendibile».
Peccato che fosse tutto falso. Nessuna traccia della scheda anestesiologica di Enzo Brusca. Il registro della sala operatoria di quel giorno risultava, guarda caso, introvabile. Soprattutto le pagine dei libri dell'ospedale con il nome di Brusca erano «troppo nuove» e non c'era più indicato tale Alessandro Scalea, effettivamente operato di ernia inguinale quel giorno: quel nome, opportunamente, era stato sostituito con quello di Enzo Brusca. Aveva fatto tutto il dottor Salvatore Aragona, medico dell'ospedale palermitano e amico personale di Giovanni. Si era perfino occupato di far rilegare in una tipografia i registri artefatti.
La brillantissima indagine condotta dai miei colleghi che si occupavano di Di Maggio consente di smascherare il tentativo di Brusca di minare l'attendibilità del collaboratore ed Enzo non solo è costretto a rimanere latitante, ma deve anche farsi operare. E stavolta davvero.
Teme infatti che, in caso di arresto, gli inquirenti si accorgano che sul suo corpo non c'è traccia di cicatrici compatibili con l'operazione di ernia. Il dottor Salvatore Aragona si presenta allora, con bisturi e tamponi, in un casolare dove Enzo passa la sua latitanza. In una normale camera da letto ben diversa da una sterile sala operatoria e con l'assistenza di Giuseppe Monticciolo - che tutto poteva fare in vita sua meno che l'infermiere - il medico pratica al paziente una blanda anestesia locale. Gli incide in profondità l'inguine, ledendogli accidentalmente anche un nervo e provocandogli fortissimi dolori; quindi sutura la ferita.
Con il famoso senno di poi - mi dice Enzo Brusca quando mi parla del drammatico intervento chirurgico cui si era sottoposto e della quantità massiccia di antibiotici che aveva dovuto assumere per scongiurare probabili infezioni - mai e poi mai si sarebbe fatto operare in quelle condizioni.
A saperlo avrebbe scelto un alibi diverso. Magari come quello che gli stessi Brusca erano riusciti a fornire a un loro uomo, Michelino Traina, l'esecutore materiale dell'omicidio Capomaccio, sospettato, a ragione, di aver preso parte a una sanguinosa rapina all'ufficio postale di Altofonte con morti e feriti.
In quel caso avevano dato fondo alla fantasia e avevano, addirittura, replicato una cerimonia di nozze. Approfittando di un matrimonio di gente del luogo che si era svolto proprio il giorno della rapina, avevano fatto indossare nuovamente agli sposi gli abiti nuziali. Un fotografo compiacente aveva scattato nuove foto del finto matrimonio. Nella scena ricostruita, in mezzo ad alcuni degli invitati, costretti a rimettersi, per l'occasione, i vestiti della festa, faceva capolino la faccia sorridente di Michele Traina. In giacca e cravatta e con un bel garofano bianco all'occhiello.
Le testimonianze, false, degli sposi e il riscontro documentale delle fotografie avevano salvato Michelino da qualche decina di anni di carcere, mentre l'alibi di Enzo era miseramente naufragato.
Ma Giovanni Brusca insiste nella sua «crociata» contro gli odiati pentiti.
Il 25 novembre 1993 Gioacchino La Barbera, capofamiglia di Altofonte, detenuto da nove mesi, decide di collaborare e indica a magistrati e investigatori i luoghi dove sono sepolti i cadaveri di quattro persone uccise e un deposito di armi.
Il collaboratore, però, fornisce le relative indicazioni qualche giorno dopo il suo primo interrogatorio. Troppo tardi. E il piano di Brusca va, almeno in parte, a buon fine.
Il boss di San Giuseppe Jato, che ha saputo per tempo dai familiari di La Barbera della sua decisione di saltare il fosso, si attiva immediatamente. Fa subito spostare morti e armi in altri luoghi affinché le indicazioni del collaboratore risultino infondate. Sono Chiodo e Monticciolo che si disfano dei cadaveri, già in avanzato stato di decomposizione. Li distribuiscono nei cassonetti di vari paesi. Un'azione raccapricciante: corpi di esseri umani che finiranno come immondizia in qualche discarica dove non potremo più recuperarli.
Brusca non fa però in tempo a trasferire altri due cadaveri, quelli di Vincenzo Milazzo, capofamiglia di Alcamo, e della sua fidanzata uccisi dallo stesso boss di San Giuseppe Jato nel luglio 1992. La Barbera li ha interrati personalmente con una pala meccanica e riesce a condurre la Dia sul posto esatto, «salvando» così la sua attendibilità.
Paradossalmente i depistaggi e gli inquinamenti che riescono meglio a Brusca sono proprio quelli che, alla fine, non voleva portare avanti.
Il primo di questi riguarda un'indagine che era stata avviata nei confronti di don Mario Campisi, segretario particolare di monsignor Salvatore Cassisa, arcivescovo di Monreale.
Nel corso delle ricerche di don Luchino Bagarella, avevamo messo sotto controllo il telefono dei Marchese, i parenti della moglie, e, durante un'intercettazione, gli investigatori avevano sentito la voce del boss corleonese che parlava con il cognato Gregorio. Una conversazione su irrilevanti questioni familiari. Dal successivo controllo era emerso che la telefonata proveniva dal cellulare intestato a don Mario Campisi.
Il segretario dell'alto prelato di Monreale era un sacerdote molto attivo negli ambienti giovanili. Pur non venendo mai meno alla sua missione pastorale, partecipava con i ragazzi a feste, veglioni e mangiate collettive. Nel gruppo c'era anche un'amica, una mezza fidanzata di Giovanni Brusca. Insieme decidono di fare a don Mario, se così si può dire, uno scherzo da prete.
La ragazza sottrae il telefono al sacerdote per pochi istanti. Giusto il tempo di staccare la batteria e annotare il numero seriale dell'apparecchio che fa avere a Giovanni Brusca.
All'epoca, con il seriale e il numero di telefono, era estremamente semplice clonare un cellulare analogico e Brusca è particolarmente interessato ad ascoltare le conversazioni private del religioso, convinto che la sappia lunga in fatto di donne.
Quel cellulare, copia perfetta dell'apparecchio di don Mario, Brusca lo usa anche mentre svolge i suoi affari. Durante un summit di mafia, il boss curioso, annoiato dagli argomenti affrontati quel giorno, che non lo interessavano, si collega all'utenza del sacerdote per carpirne i dialoghi. Ma poi si dimentica di disconnettere l'apparecchio che lascia acceso sul tavolo. Bagarella, che ha bisogno di chiamare suo cognato Gregorio, usa il telefonino per la conversazione che poi verrà intercettata.
Così don Mario Campisi finisce nel registro degli indagati per favoreggiamento aggravato nei confronti di don Luchino Bagarella. L'ipotesi, all'epoca, non sembrava nemmeno tanto insensata poiché monsignor Cassisa, il suo diretto superiore, era rimasto coinvolto, insieme a qualche presunto mafioso, in una storia di appalti e mazzette per i lavori di ristrutturazione del duomo di Monreale.
Don Mario era, però, all'oscuro di tutto e, probabilmente, sarebbe stato anche arrestato se i nostri tecnici non avessero capito, alla fine, che si trattava di una clonazione.
Per un altro tentativo di depistaggio invece Giovanni Brusca non è proprio del tutto incolpevole. Si tratta del noto piano calunnioso elaborato contro Luciano Violante, ex magistrato, parlamentare di sinistra e uno dei simboli dell'antimafia.
Il boss di San Giuseppe Jato, ossessionato dal cosiddetto pentitismo, aveva capito che l'unica arma vincente dei boss era quella di mettere un freno alle collaborazioni con la giustizia. Un pentito fa male, molto male. Rivela dall'interno le dinamiche dell'associazione, i rapporti di forza, i moventi dei delitti. L'investigatore poteva conoscere migliaia di episodi, poteva anche avere un'idea delle relazioni interpersonali o degli obiettivi del sodalizio mafioso, ma senza una chiave di lettura interna, poteva solo formulare delle ipotesi che non poteva sempre dimostrare nei processi.
Brusca conosceva perfettamente le normative giuridiche e aveva anche una chiara idea di come funzionava la giustizia nel nostro Paese. Sapeva che, magari in primo grado, sulla base dell'onda emotiva determinata dalla gravità dei delitti commessi e dell'audizione diretta di vittime, testimoni e investigatori, i giudici potevano anche accontentarsi di indizi, di supposizioni, di ricostruzioni logiche. E ci poteva anche scappare qualche condanna per gli uomini d'onore. Era messa nel conto, ma in appello e, men che meno, in Cassazione no. Lì i fatti sono lontani; lì il processo si fa solo sulle carte; lì le prove logiche e deduttive valgono veramente poco. Senza la parola dei pentiti non sarebbe rimasto granché.
Le strategie di intimidazione dei collaboratori di giustizia avevano fallito, il massacro sistematico dei loro familiari portato avanti da Riina non aveva condotto a risultati di rilievo. Gli assassini a sangue freddo dei figli di Buscetta, di tutti i parenti di Contorno, delle donne della famiglia di Marino Mannoia, erano stati inutili, così come, e gli risultava personalmente, inutili erano stati i due dispendiosi anni di prigionia inflitti a un bambino al fine di indurre il padre a ritrattare.
Bisogna ricorrere a qualcos'altro. E cosa c'è di meglio della calunnia? «'U carbuni si nun tingi mascarìa», il carbone se proprio non colora almeno macchia, si dice in Sicilia.
Inserire dei virus nel sistema in grado di offuscare la credibilità dei pentiti, insinuare dubbi sulla loro sincerità, seminare sospetti sulla genuinità della loro collaborazione. E questo potrebbe bastare. Per farlo bene occorre però un «obiettivo» importante, magari inserito in un contesto che ne incrementi esponenzialmente lo scalpore. L'occasione ideale non può che essere il processo Andreotti e la scelta non può che cadere su Luciano Violante, che da presidente della Commissione antimafia si era occupato della vicenda che aveva coinvolto il senatore a vita.
Così la racconta Giovanni Brusca: mentre era ancora libero, tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992, aveva casualmente notato la presenza dell'onorevole Violante su un volo di linea Palermo-Roma. Anni dopo aveva pensato di sfruttare la circostanza. Voleva sostenere che non si era trattato di un incontro occasionale, ma che, al contrario, era stato appositamente organizzato da un esponente della sinistra del suo paese.
Secondo il suo piano, Brusca, qualora fosse stato arrestato, avrebbe dovuto chiedere di rendere spontanee dichiarazioni in un dibattimento. Nell'occasione avrebbe pubblicamente dichiarato che Luciano Violante, durante il volo, gli si era seduto accanto per qualche minuto e gli aveva proposto l'impunità per lui e per suo padre se avesse reso false dichiarazioni accusatorie su Giulio Andreotti.
La calunnia, studiata con furbizia, sarebbe stata una vera e propria bomba mediatica. Al boss di San Giuseppe Jato poco importava che venisse creduto o meno. Ci sarebbero state comunque tante e tali polemiche sul processo Andreotti, sulla gestione dei pentiti che lo accusavano, sulla lealtà e correttezza degli organi investigativi e dei rappresentanti delle istituzioni, da travolgere l'intera normativa antimafia.
Brusca, però, da aspirante collaboratore non aveva mai accennato a questa vicenda. In tre mesi di colloqui investigativi e in un mese di interrogatori formali non l'aveva mai tirata fuori. Era un progetto che aveva elaborato da mafioso latitante ma che aveva successivamente abbandonato.
È invece il suo ex avvocato Vito Ganci, verso la fine di agosto, a parlarne con i giornalisti, come se fosse una circostanza realmente accaduta e che i magistrati che interrogavano Brusca avevano messo a tacere. Solo a questo punto e su nostre specifiche domande, Brusca racconta del suo progetto originario e smentisce il suo vecchio difensore riferendo che il fatto era radicalmente falso. Nell'immaginario collettivo la cosiddetta vicenda Violante è da ricondurre alle dichiarazioni di Giovanni Brasca, ma non è così. Brusca, è vero, aveva pensato al progetto calunnioso, ma non aveva nemmeno cominciato a eseguirlo.
Forse anche perché rischiava di trovare smentite nel suo stesso ambiente, familiare e mafioso, smentite che avrebbero potuto trasformare il suo piano in un vero e proprio boomerang. Giuseppe Monticciolo - qualche mese prima, in epoca assolutamente non sospetta - ci aveva raccontato, in un formale interrogatorio, del progetto elaborato dal suo ex capo su Luciano Violante. Monticciolo sosteneva addirittura che Brusca non era nemmeno su quell'aereo, dove invece si trovava qualcun altro che gli aveva raccontato di aver visto il parlamentare.
La stessa versione dei fatti me la darà, mesi dopo, Enzo Brusca: «Su quell'aereo c'era mio fratello Emanuele, il maggiore. Non capisco perché Giovanni si ostini a dire che su quel volo c'era lui».
Enzo, almeno per me, è stata la cartina al tornasole, lo strumento che mi ha consentito di verificare in tempo reale l'attendibilità del più noto fratello.
Infatti, dopo che Enzo Brusca ci rivela l'intero piano di depistaggio organizzato da Giovanni lo facciamo trasferire segretamente in un carcere speciale, tutto per lui. A Monza, in una sezione in ristrutturazione. Dove non c'è nessun altro detenuto; dove svolge colloqui centellinati e solo con la sua compagna; dove non può entrare alcuno degli agenti della polizia penitenziaria che si occupano di collaboratori di giustizia e, soprattutto, del fratello Giovanni.
Un carcere dove, però, Enzo Salvatore Brusca - mi dice - si sente finalmente libero.
Non è un paradosso, ma la presa d'atto di un timidissimo «picciotto» di ventotto anni. Se non fosse stato figlio di Bernardo Brusca, se non avesse avuto quali modelli di vita il fratello Giovanni o gente come Salvo Madonia e Giuseppe Graviano, se non avesse passato le domeniche a giocare in una casa di campagna con i figli di Raffaele Ganci, mentre suo padre e il boss della Noce arrostivano cadaveri sul retro (l'acido non sempre era disponibile), forse non avrebbe mai nemmeno saputo cosa era la mafia.
Senza nascondere il dolore che ancora gli provoca l'episodio, Enzo mi racconta una vicenda della sua infanzia, quando per carnevale era riuscito a convincere la madre a comprargli una divisa da guardiamarina. L'aveva indossata ed era corso dal padre per fargli vedere quanto stava bene con quell'uniforme, tutta lustrini e medagliette. Don Bernardo, non appena lo aveva visto, con una mano gli aveva strappato i galloni dorati dalle spalline e con l'altra gli aveva mollato uno schiaffone: «Levati 'sta cosa da sbirro». Una solenne umiliazione.
In cella, Enzo Brusca era finalmente libero anche di mangiare quello che gli andava. Nell'ultima Pasquetta trascorsa con Bagarella, pur avendo una seria forma di intolleranza alimentare ai crostacei, dopo un'occhiataccia del fratello Giovanni, aveva dovuto ingoiare una decina di gamberoni per non dispiacere il boss corleonese che, al contrario, ne era ghiotto e, per l'occasione, ne aveva ordinato un paio di casse.
Mentre il fratello è recluso nel carcere di Monza, a Giovanni notifichiamo un avviso di garanzia per calunnia aggravata. Gli comunichiamo la decisione di Enzo di abbandonare il suo progetto e gli diamo un po' di tempo per pensare bene alla sua scelta.
Dopo un paio di settimane il boss di San Giuseppe Jato cambia decisamente registro. Capisce che ormai non ha più scelta. È stato letteralmente sbugiardato dal fratello e non può tornare indietro, non può più fare il mafioso detenuto. Da allora, pur con riserve su alcuni argomenti, inizia a collaborare davvero. Qualche mese dopo ci determineremo a richiedere per lui l'applicazione del programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia.
Certo non tutte le questioni sono state risolte. La collaborazione di Brusca procede tra polemiche, smentite, confronti, contraddizioni. Tutto enormemente amplificato dal fatto che si tratta del boia di Capaci.
Molti degli apparenti contrasti con le dichiarazioni di altri collaboratori erano, invero, frutto di diverse interpretazioni degli stessi episodi, un po' come per i protagonisti di Rashōmon, la splendida pellicola giapponese di Akira Kurosawa.
Dovevamo essere noi a capire. Con lui era fondamentale, come si dice, separare i fatti dalle opinioni, limitarsi a isolare l'episodio storico depurandolo dalle valutazioni personali e soprattutto dagli inquinamenti che l'originaria ricostruzione del fatto aveva inevitabilmente subito passando di bocca in bocca.
Tra i miei stessi colleghi non tutti, per esempio, avevano capito che più si abbassa il livello gerarchico mafioso del dichiarante più i progetti criminali che questo rivela appaiono concreti.
Se a Brusca era scappata l'espressione «l'avvocato Tizio si sta comportando proprio male», per Monticciolo il boss di San Giuseppe Jato aveva pensato di uccidere il legale e per Chiodo, addirittura, si stavano organizzando per ammazzarlo.
In tre anni ho interrogato Brusca circa ottanta volte. Sono sicuramente il magistrato che lo ha incontrato di più e penso di essere riuscito in qualche modo a comprendere il ruolo che ha svolto in Cosa nostra, il suo modo di agire, di pensare, di relazionarsi.
C'è una cosa, però, che certamente non ho mai capito di lui: quanto fosse consapevole del contrasto tra la forma e la sostanza del suo comportamento, a volte macabramente ridicolo. Una volta, dopo aver passato diverse ore a parlare di omicidi, strangolamenti e di cadaveri sciolti nell'acido, mi chiese scusa perché aveva usato l'espressione «ci siamo fatti questa pulitina di piedi» per dire che avevano ammazzato un gruppo di persone. Frase che evidentemente gli era risuonata un po' volgare.
Il massimo Giovanni Brusca l'ha toccato però in un'altra circostanza, quando mi ha raccontato dell'omicidio di un giovane di Altofonte. Aveva programmato il delitto e individuato chi tra i suoi uomini dovesse parteciparvi, ma, il giorno prefissato, uno di questi non si era presentato all'appuntamento perché coinvolto in un incidente stradale.
Brusca aveva deciso di portare ugualmente a termine il progetto di morte, obbligando un altro dei suoi a svolgere un doppio ruolo: «Avevamo fretta, non potevamo più aspettare. Quello si doveva sposare una settimana dopo».
«E perché tutta questa fretta?» gli chiedo.
Non dimenticherò mai l'espressione stupita del suo viso. Perplesso perché non avevo capito immediatamente: «Ma dottore, non potevamo certo lasciare una vedova!».