III
Cadaveri e compari

 

«Dutturi, picchì m'è fari l'incastru (l'ergastolo) pi 'sti quattru cornuti? Duttu', scrivissi!»

A parlare, a manifestare la propria volontà di collaborare con la giustizia, è Pietro Romeo, un «soldato» del gruppo di fuoco di Nino Mangano e Leoluca Bagarella.

È davanti a me, senza manette, in piedi, in una minuscola stanza della questura di Palermo che sembra ancor più piccola se rapportata alla sua mole.

Pietro Romeo è alto e robusto: pesa un centinaio di chili. Mi colpiscono anche i suoi denti, larghi e distanziati. Si capisce subito che ha una forza erculea e che sarebbe in grado di uccidere un uomo a mani nude. Del resto proprio per questo lo cercavamo.

Non ho mai avuto paura dei mafiosi. Se si dimostra di temerli è finita. Poi, almeno in quegli anni, lo Stato era decisamente dalla nostra parte. Ed è proprio il conforto dello Stato che cerco in quell'occasione. Do un'occhiata interrogativa ai due poliziotti che lo sorvegliano e ricevo un cenno inequivocabile: «Non si preoccupi, dottore. Non farà fesserie».

Anche Santino Giuffrè, il dirigente della Criminalpol di Palermo che mi ha guidato fino a quella stanza, del resto mi ha rassicurato: «È una sorta di gigante buono».

«Buono la minchia!» penso io. «È uno che, nella migliore delle ipotesi, ha personalmente strangolato almeno una decina di persone.» Lo cercavamo dal mese di giugno di quel 1995 e, con lui, tutti i componenti del gruppo di Mangano: Salvatore Grigoli, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Peppuccio Barranca, Salvatore Benigno, Giorgio Pizzo, Fifetto Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giovanni Ciaramitaro, Salvatore Faia, Giovanni Garofalo... A parte Spatuzza e Cannella, tutti gli altri erano per noi dei perfetti sconosciuti.

Dopo che si era diffusa la voce della collaborazione di Pasquale Di Filippo si erano tutti dati alla macchia e, per me, si era aperta una vera «stagione di caccia». La caccia al gruppo di fuoco di Bagarella, a quel manipolo di uomini che lo aveva protetto durante la latitanza e gli aveva fatto da braccio armato, la caccia alle loro armi, al loro esplosivo, ai cadaveri che avevano disciolto nell'acido o disseminato per le campagne del Palermitano.

Avevamo mobilitato tutte le forze di polizia per rintracciare quei latitanti. Era un momento veramente particolare, quasi unico: carabinieri, polizia, guardia di finanza e Dia che si muovevano all'unisono, concordemente e lealmente.

Oltre a una dozzina di gregari e personaggi secondari, riusciamo a prendere in prima battuta solo Giorgio Pizzo, il coordinatore delle estorsioni del gruppo, e Salvatore Benigno, stimato laureando in Medicina e Chirurgia di Misilmeri che, tra un esame e l'altro, aveva trovato il tempo di eseguire il fallito attentato a Maurizio Costanzo, di collocare una macchina imbottita di esplosivo allo stadio Olimpico di Roma e di dare una mano ai suoi amici nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio tredicenne del pentito Santino, che i cosiddetti uomini d'onore, con il pretesto di indurre il padre a ritrattare, avevano rapito e tenuto segregato per più di due anni. E alla fine avevano barbaramente strangolato dissolvendone il cadavere nell'acido.

Ma qui ci fermiamo. Cosa nostra ha adottato le sue contromisure e l'elenco dei latitanti più pericolosi del ministero dell'Interno si è arricchito di un'altra decina di nomi.

La svolta si verifica a novembre. In due giorni, ne arrestiamo quattro. Il primo, appunto, è Pietro Romeo.

La base di partenza è un'informazione proveniente da una fonte della Criminalpol di Palermo: «Prima dell'arresto di Bagarella, Romeo si voleva sposare e aveva già versato la caparra, una trentina di milioni di lire, per comprare una casa. A Bagheria».

Non è granché come notizia, ma è meglio di niente. I poliziotti si mettono al lavoro. Qualche giro per agenzie immobiliari, accertamenti all'ufficio del registro e al catasto, informazioni raccattate in giro e, in poco tempo, riescono a individuare la casa in questione e i venditori.

Qualche giorno ancora di passaggi discreti vicino l'abitazione dei proprietari della casa opzionata da Romeo e di appostamenti nella zona dove questa è situata e non è difficile arrivare al latitante. Romeo non è un capomafia, non può contare su una fitta rete di protezioni e di favoreggiatori.

Gli uomini della Criminalpol lo fermano a Bagheria il 14 novembre 1995 mentre passeggia, mano nella mano con la sua ragazza, tra le vetrine dei negozi del centro della cittadina famosa per le sue ville settecentesche. Non sono ancora sposati, ma aspettano un figlio. Romeo ha appena ventinove anni.

I poliziotti lo portano in questura a Palermo, dove nel frattempo si prepara il solito incontro con la stampa. Come dopo ogni arresto di mafia. I giornalisti affollano la sala della conferenza e nell'attesa si domandano chi sia quest'ultimo latitante finito in manette.

Poco prima della conferenza stampa, Santino Giuffrè, che aveva seguito le indagini dell'arresto, mi prende in disparte e mi dice: «Credo che con Romeo ci possa essere qualche possibilità di apertura. Vogliamo provarci?». Attraversiamo un paio di lunghi corridoi e arriviamo negli uffici della Criminalpol, nella zona dove ci sono le camere di sicurezza.

Romeo è ora di fronte a me, in stato di fermo. Lo saluto e lo invito a sedersi, un modo come un altro per attenuare visivamente la chiara differenza fisica tra noi due che, indubbiamente, è a suo favore. Gli comunico rapidamente le accuse nei suoi confronti: partecipazione ad associazione mafiosa, omicidi aggravati, porto d'armi, occultamento e soppressione di cadaveri. Gli faccio presente che, per quelle imputazioni, la pena prevista è il carcere a vita, l'ergastolo.

Alla parola ergastolo ha un contraccolpo. Dichiara senza mezzi termini che è disposto a collaborare, che non ha remore a tradire i suoi vecchi compagni.

Sembra sincero. A dispetto della sua stazza non è per niente arrogante, mantiene un atteggiamento umile, appare quasi dispiaciuto di averci costretto a lavorare per catturarlo. E tiene gli occhi bassi.

Si esprime solo in dialetto, in siciliano strettissimo, quasi incomprensibile, ma il significato delle sue parole è chiarissimo. Romeo è pronto a passare dalla nostra parte. Metto nero su bianco la sua volontà di collaborare. Pochissime righe, quelle necessarie a non fargli più cambiare idea, a rendere quel passo definitivo, irretrattabile: mi faccio fornire scarni particolari su un paio di omicidi che aveva commesso e che conosceva solo lui. A questo punto Pietro Romeo non ha più scelta: per la mafia è ormai soltanto un «infame», uno «sbirro».

Andiamo all'incontro con i giornalisti. Ma non possiamo certo divulgare la collaborazione del «picciotto». Dobbiamo fingere che Romeo continui a essere un mafioso a tutti gli effetti. Così decidiamo di raccontare una menzogna: «Stiamo trasferendo il pericolosissimo e feroce killer di Cosa nostra a Pianosa. Sottoposto al regime del 41 bis, il carcere duro».

La bugia ci farà guadagnare tempo. Tempo preziosissimo. Con questo escamotage siamo certi che né i familiari né il suo vecchio avvocato cercheranno di incontrarlo. Ufficialmente Romeo non è detenuto a Palermo perché si è detto pubblicamente che è in viaggio verso il supercarcere dell'isola toscana. Prima che si organizzino per raggiungere Piombino e poi Pianosa, otteniamo almeno un paio di giorni di vantaggio. Tempo sufficiente per sfruttare al massimo le conoscenze di Romeo; in assoluto riserbo.

Per la prassi dell'epoca, non esiste conferenza stampa delle forze di polizia che non sia «adeguatamente» illustrata da una foto dell'arrestato. E questo è un ulteriore problema.

Per raccogliere i frutti investigativi dobbiamo tenere segreta la sua decisione di collaborare e non dare adito a dubbi, dubbi che sorgerebbero immediatamente senza una sua fotografia. Ma abbiamo anche il dovere, per tutelare la sua riservatezza, di evitare la pubblicazione della sua immagine.

Così, in quattro e quattr'otto, gli agenti vanno a pescare una vecchia segnaletica di Romeo che modificano opportunamente in maniera tale da farla sembrare recente, ma in cui il soggetto ritratto risulta sostanzialmente irriconoscibile. È quella che l'indomani avranno tutti i quotidiani.

Finita la conferenza stampa, inizio subito a raccogliere le sue confessioni. Mi dice che può farci catturare alcuni latitanti e che è in grado di indicarci i luoghi dove sono seppelliti esplosivi, armi e cadaveri.

Non è un uomo d'onore e non ha vincoli di sangue con Cosa nostra. È solo un semplice affiliato e, in fondo, è un rapinatore, uno dei tanti ladri del quartiere Brancaccio. Uno abituato a impossessarsi dei Tir a mani nude. Non aveva bisogno né di pistole né di coltelli. Appena si avvicinava gli autisti se la davano a gambe: solo vederlo metteva paura.

Era forse uno dei più abili e determinati ladri della sua zona. Rubava tutto e dappertutto: dalle Fiat Uno, la sua specialità, ai tabacchi lavorati, nelle gioiellerie e negli uffici postali. Non faceva altro che rubare. A volte era bravo, a volte un po' maldestro. Un giorno, a Bagheria, durante una rapina a un camion che trasportava casse di sigarette, per un suo banale errore, aveva quasi rischiato il linciaggio.

Un suo complice che lavorava ai monopoli di Stato gli aveva fatto avere la notizia «buona» e gli aveva fornito i dettagli di alcune consegne di sigarette alle tabaccherie. Individuato il punto debole del trasporto, Romeo con i suoi amici si era messo al lavoro.

Appena il camion carico di casse di sigarette si ferma davanti a una rivendita, mentre i suoi complici tengono autisti e tabaccaio sotto la minaccia delle armi, Romeo si impadronisce del mezzo e salta su. Agilissimo, nonostante la sua enorme mole, si mette alla guida e se lo porta via.

La classica rapina che, con la sua esperienza, fa ad occhi chiusi. Ma nella concitazione dimentica di chiudere bene una delle portiere posteriori. E scappa, con il cassone semiaperto. Nella fuga lo sportello sbatte a ogni curva e qualche cassa di sigarette si perde per strada. Romeo continua la sua corsa. Troppo rischioso fermarsi in centro città per chiudere la porta.

A un incrocio si imbatte in un corteo funebre, con tanto di feretro, prete, parenti vestiti a lutto e tutto il resto. Invece di fermarsi, accelera e sterza per evitare il funerale. Ma la manovra è azzardata. La maniglia in acciaio dello sportello spalancato aggancia una corona di fiori e se la porta via. Non lo avesse mai fatto.

Il camioncino prosegue, con quella corona sbilenca al seguito, con il nastro nero e la scritta «Per il mio amato cognato» che, ormai strappata, penzola dalla ghirlanda funebre. Un gruppo di parenti del morto, coadiuvati dagli impresari delle pompe funebri, si mette all'inseguimento del mezzo, impacciato a districarsi tra gli stretti vicoli di Bagheria. A piedi, correndo a perdifiato, incitati dalle urla degli altri parenti a lutto: «pigghiatilu, ammazzatilu, 'stu crastu!».

Romeo normalmente non ha paura di nulla, ma questa volta è in preda al panico. Non sa cosa fare. Dagli sbirri si scappa e, poi, al massimo si rischia qualche anno di carcere; i criminali avversari si combattono e, se necessario, si uccidono; ma con i parenti di un morto non si scherza. Soprattutto se sono inferociti e cercano di recuperare la corona del caro estinto che gli hai appena portato via. Porta male, malissimo. Pietro Romeo legge l'incidente come un brutto, terribile presagio. Appena può abbandona il camion con tutto il suo prezioso carico di sigarette. E se la dà a gambe.

Quando mi racconta questo episodio, mentre io mi trattengo a stento dal ridere, mi confessa che non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. L'idea di avere mandato all'aria un funerale non lo aveva fatto dormire per alcune notti. È un ragazzo forte ma semplice e, come tutti i mafiosi, a suo modo religioso e superstizioso al tempo stesso.

Tutto sommato aveva fatto una vitaccia. Rubava quasi sempre in proprio ed era anche capace di colpi milionari. Ma i guadagni non sempre corrispondevano agli sforzi profusi. Anche lui era costretto a versare gran parte degli utili alle famiglie che comandavano in quel territorio.

Una volta, negli anni Ottanta, gli era capitato un furgone carico d'argento. Merce per oltre settecento milioni di lire dell'epoca. Una fortuna! Ma come al solito si era posto il problema del «dazio» da pagare ai boss, che stavolta era particolarmente oneroso. In tutto Romeo, alla fine, era riuscito a intascare appena una decina di milioni.

In Sicilia anche i rapinatori devono corrispondere il pizzo alla mafia. Del ricavato di ogni colpo rimane loro una piccola percentuale calcolata sul valore complessivo della merce: più è alto, più si abbassa la quota di utili che rimane al ladro. Il resto se lo prende Cosa nostra, senza aver mosso un dito.

A Romeo questo sistema proprio non andava giù. Ma d'altra parte non aveva scelta. Anzi, si era trovato di fronte a un bivio: stringere i rapporti con i boss e diventare un mafioso, oppure rischiare di non lavorare più. O, peggio, di essere eliminato come era già accaduto ad alcuni suoi amici e «colleghi». Aveva optato per la prima soluzione e, per le sue indubbie capacità criminali, era stato arruolato nel gruppo di Nino Mangano, e, quindi, di Leoluca Bagarella, diventando uno dei sicari più esperti e affidabili.

Da rapinatore ad «affiliato» di Cosa nostra il passo è breve. Aveva già fatto il suo primo omicidio utilizzando armi da fuoco. Ma sparare non era proprio cosa sua. Aveva sbagliato più volte la mira, gli si era inceppato il fucile, aveva dovuto ricorrere a una pistola con cui, per errore, aveva ferito donne e bambini. Insomma, era un pessimo tiratore. Al seguito di Mangano e Bagarella, si era specializzato invece negli strangolamenti: «Iu» mi dice candidamente «eru sempri chiddu ca tirava 'a corda».

Gli affiliati sono i soldati semplici, la base dell'associazione mafiosa. Uomini totalmente a disposizione dell'organizzazione, che intascano un vero e proprio stipendio. Non tantissimo: all'epoca due milioni, due milioni e mezzo di lire al mese. Ma poi ci sono i bonus, gli extra, e soprattutto lo «status» e la possibilità di salire nella scala gerarchica, di fare carriera, di diventare uomo d'onore: un cittadino a pieno titolo di quello Stato illegale che è Cosa nostra, con tutti i diritti e i doveri conseguenti.

L'affiliato, che a differenza dell'uomo d'onore non ha mai ricevuto la punciuta (la puntura di spina di arancio selvatico al dito nel corso della classica cerimonia del giuramento mafioso), non è certo irriducibile e quando si vede davanti la prospettiva dell'ergastolo, in momenti in cui lo Stato manifesta una chiara determinazione nel contrasto al fenomeno mafioso, spesso non ci pensa due volte e vuota il sacco.

Come fa Pietro Romeo, che si dimostrerà nel tempo uno dei più fruttuosi collaboratori di giustizia. Testimone dalla memoria eccezionale, sincerissimo, attendibilissimo. Almeno apparentemente, non si pone alcuno scrupolo morale.

«'Sti crasti manco mi davano i sordi p'a benzina.»

«I soldi per fare il pieno alla macchina?» gli chiedo.

«Ma quali machina! La benzina da mettiri 'nti i biduna p'abbrusciari i negozi ca nni dicivanu iddi: chiddi di i commercianti ca nun pagavanu 'u pizzu!»

Le prime fasi della sua collaborazione sono particolarmente attive, dinamiche. Con grande precisione e semplicità, col suo dialetto stretto stretto, pieno di sgrammaticature, Romeo accompagna la polizia in un viaggio mozzafiato fatto di rifugi, cadaveri e luoghi sinistri. Viene messo a bordo di una «balena», un normale furgoncino con delle feritoie camuffate da cui è possibile vedere senza essere notati. Un veicolo chiamato balena, proprio come quella di Giona, con la differenza che dentro questa specie di cetaceo meccanico non c'è un profeta, anche se di cose ne sa ugualmente tante. E ce le dice.

Indica, guida, indirizza: un latitante qui, un covo là. Lì un deposito di armi, qua un cadavere sotterrato.

La notte stessa del suo arresto Romeo ci porta ai nascondigli dei suoi compari irreperibili. Ce ne fa catturare tre sul momento: Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano e Salvatore Faia. Anche loro giovani rapinatori passati al servizio della mafia, ora affiliati di Cosa nostra, i primi due armati e responsabili di numerosi omicidi.

Lo Nigro e Giuliano sono anche quelli che, nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, avevano collocato il Fiorino Fiat imbottito di esplosivo sotto la Torre del Pulci, accanto alla Galleria degli Uffizi a Firenze. Gli autori materiali della strage di via dei Georgofili, gli esecutori del più grave attentato al nostro patrimonio artistico e, non lo si deve dimenticare, gli assassini di cinque persone innocenti.

Un rapido giro per Palermo e dintorni con Romeo sui mezzi della polizia di Stato: «Qui ci sta Lo Nigro; quello è l'appartamento dove va a dormire Giuliano; là troverete certamente Faia». Tutto facile, tutto semplice.

Il quarto latitante di cui Romeo conosce l'indirizzo, Gaspare Spatuzza, ci sfugge per un soffio.

Poi si passa alla ricerca delle armi. Cominciamo da un arsenale nascosto in un posto che Pietro Romeo chiama «la machina dell'acqua». Una grossa pompa a servizio di un pozzo che eroga, ovviamente a pagamento, acqua nella zona di Corso dei Mille. Uno dei tanti pozzi privati che esistono a Palermo in barba alla legge che attribuisce al demanio la proprietà delle acque sotterranee di pubblico interesse. Sotto la cisterna troviamo numerose armi automatiche da guerra di straordinaria pericolosità: i mitici Uzi, piccole ma efficacissime mitragliette di fabbricazione israeliana, e le omologhe Skorpion americane.

Romeo ci porta anche a un deposito di un paio di quintali di esplosivo, sotterrato nelle campagne di Ciaculli. Un materiale particolare, proveniente dal mare, dalle vecchie mine che erano state disseminate al largo del porto di Palermo durante la seconda guerra mondiale.

Ogni tanto qualcuno di questi ordigni rimaneva impigliato nelle reti dei pescatori che lo tiravano su insieme al pesce di paranza. Invece di chiamare il genio militare e consegnare i reperti bellici, i pescatori li portavano a riva, sulla spiaggia, e li rivendevano alla mafia. Un modo come un altro di arrotondare i loro non certo cospicui guadagni.

Le mine, completamente ossidate e arrugginite, venivano quindi svuotate del loro contenuto. Dentro c'era tritolo, tritolo pietrificato, perché rimasto sigillato in mare per decenni; ma pur sempre tritolo. Portato in una cava, veniva macinato fino a diventare polvere e poi messo ad asciugare al sole per eliminare le residue tracce di umidità. A quel punto l'esplosivo era tornato perfettamente attivo, perfettamente utilizzabile.

Una parte di questo tritolo doveva servire, secondo le dichiarazioni di molti collaboratori, a far saltare in aria il commissariato di Brancaccio a Palermo, che in quel periodo stava facendo «troppe» indagini sul territorio, soprattutto sul fenomeno delle estorsioni ai commercianti.

Le conoscenze di Pietro Romeo superano anche lo stretto di Messina. Ci conduce a Formello, nei dintorni della capitale che raggiungiamo rapidamente e riservatamente grazie a un Observer, il piccolo ed economico aereo che ha a disposizione la polizia di Stato.

Nei pressi della Cassia bis, interrato in una buca, troviamo più di un quintale di esplosivo. Questa volta la qualità è diversa da quel vecchio tritolo ripescato dal mare. Siamo davanti a un tipo di materiale deflagrante molto più moderno, una sorta di miscuglio di T4 e semtex in balle. Roba da far saltare in aria mezzo quartiere, ma non era questo l'obiettivo di chi lo aveva sotterrato lì.

L'esplosivo ritrovato a Formello era la parte rimanente di quello utilizzato per commettere, nell'aprile 1994, il fallito attentato al pentito Salvatore Contorno ed era stato occultato nella campagna romana in attesa di essere trasferito a Pisa, quando sarebbe arrivato l'ordine di far saltare la Torre. Sì, proprio la Torre di Pisa. Progetto vero, questo. Ideato in linea di massima e messo in agenda da Cosa nostra nell'ambito della strategia delle bombe del '93. E che poi per fortuna non fu attuato. «Se un giorno Pisa si trovasse senza la Torre...» Questo era il messaggio che i boss, guidati dalla regia di Leoluca Bagarella, mandavano in quei giorni.

Fin qui latitanti, armi ed esplosivi. Ma adesso arriva la parte più dura, la ricerca dei cadaveri. Certo, stiamo facendo un'operazione di polizia e non c'è spazio per altri pensieri, ma è davvero difficile rimanere insensibili di fronte a corpi decomposti o a resti umani seppelliti alla meno peggio. Morti ammazzati di cui non si è più saputo niente. Classici casi di lupara bianca.

Romeo ci fa trovare un corpo sotterrato in un terreno sul litorale di Palermo: il cadavere di un ragazzo extracomunitario, legato mani e piedi e infilato in un sacco nero della spazzatura. Il giovane tunisino era responsabile solo di aver richiesto ai mafiosi il pagamento della sua attività lavorativa prestata come mozzo a bordo di un loro peschereccio, il Lupo di San Francesco, con cui periodicamente importavano qualche quintale di hashish dal Marocco.

Vicino a Bolognetta, Romeo ci fa recuperare un secondo cadavere, quello di un certo Giovanni Ambrogio, e altri resti umani, residui di qualche frettoloso scioglimento nell'acido.

Di alcuni di questi delitti ci aveva già parlato Pasquale Di Filippo, il collaboratore che ci ha portato sulle tracce di Bagarella. Era stato lui, prima ancora di Romeo, a spalancarci le porte della cosiddetta «camera della morte», uno dei luoghi più tetri e agghiaccianti che abbia mai visto in vita mia.

Periferia est di Palermo: via Messina Montagne. C'è un grande capannone. Si vede dall'autostrada. Un magazzino circondato da erbacce, rovi e carcasse di veicoli. Un'insegna: La commerciale. Spazio aperto recintato da un muro e, sulla destra, dopo il pesante portone di ferro semiarrugginito, uno stanzino, un piccolo ufficio. Come la guardiola di un custode.

In una nicchia mimetizzata dal rivestimento di finto abete che ricopre le pareti ci sono gli attrezzi: manette, corde, lacci, fili di ferro, guanti di lattice. Tutto l'occorrente per la tortura. Affisse al muro, senza un preciso ordine, tante immagini sacre: santa Rosalia, santa Rita, la Madonna, san Cristoforo, protettore degli automobilisti. È lo strangolatoio di Cosa nostra. Amen.

Pasquale Di Filippo ci aveva parlato di questo luogo nel suo primo interrogatorio dopo la cattura di Bagarella. Il suo racconto, drammatico, parte dalla faida di Villabate, da questo strano gioco di guerra tra mafiosi e dalla paura che aveva Bagarella di essere oggetto di un complotto degli «scappati», i vecchi boss usciti sconfitti dalla guerra di mafia degli anni Ottanta.

Perciò il boss di Corleone aveva emesso e fatto eseguire numerose sentenze di morte. I condannati di turno, in quella maledetta primavera del 1995, sono Gaetano Buscemi e Giovanni Spataro, soci in affari. Buscemi è un piccolo imprenditore edile di Villabate, nipote di tale Giuseppe Di Peri, che Bagarella aveva fatto uccidere insieme al figlio, poco più di un mese prima.

Il 28 aprile scatta l'agguato. Spataro e Buscemi vengono attirati in un tranello. Mentre si recano a piedi a visitare un cantiere vedono arrivare una Fiat Croma con il lampeggiante e con a bordo uomini che indossano giubbetti con la scritta «polizia di Stato». Dalla macchina scendono, armi in pugno, i killer di Mangano e Bagarella. Prima che i due abbiano modo di comprendere cosa stia succedendo, Salvatore Grigoli e lo stesso Mangano fanno fuoco e uccidono Spataro. Gli altri prendono Buscemi e lo trascinano a forza nella Croma. Direzione: la camera della morte, dove pochi minuti dopo arriverà don Luchino in persona.

Buscemi viene interrogato per oltre otto ore, schiaffeggiato di continuo e poi strangolato per mano dello stesso Bagarella. Pasquale Di Filippo e Pietro Romeo sono lì, sul posto, insieme a una mezza dozzina di gregari. Entrano ed escono da quella stanza. Quando decidono di collaborare ci raccontano nei dettagli, con estremo disagio, il drammatico «interrogatorio» di Buscemi, sicuramente uno dei più lunghi nella storia di Cosa nostra.

Me lo sono immaginato diverse volte quell'interrogatorio: la luce fredda della lampada al neon, da ufficio di terz'ordine, Gaetano Buscemi bianco come un cencio, con il volto coperto di lividi, legato sulla vecchia sedia di legno impagliata, da quattro soldi. Di fronte a lui, i santini, beffardi, attaccati alla parete.

Buscemi ha quarant'anni, è un mafioso di piccolo calibro e, obiettivamente, ha poco da raccontare. È solo capitato in un gioco di potere più grande di lui, un gioco tra Bagarella e i Graviano, da un lato, e Provenzano e Aglieri dall'altro.

Nello stanzino lo interrogano per ore. Bagarella lo incalza. Vuole sapere tutto sulla famiglia Di Peri, anche quello che Buscemi non può dire perché non lo sa.

Gli hanno messo una corda al collo. Una corda sottile e ruvida, i cui capi penzolano dietro la sedia. È terrorizzato, ma è lucido. Tanto lucido da stipulare uno strano quanto macabro patto con i suoi assassini. Sa che la sua sorte è segnata e che non ha la minima possibilità di salvarsi la vita; mette sul piatto della bilancia l'unica richiesta che potrebbe forse essere accolta. Si dice disponibile a raccontare loro tutto quello che sa a patto che il suo cadavere non venga sciolto nell'acido: che almeno sua moglie e i suoi figli possano avere una tomba su cui piangere. Ancora oggi rabbrividisco a pensare alla forza morale dimostrata nell'occasione da quell'uomo, da quel condannato a morte.

Avuto l'assenso di don Luchino, Buscemi svela che suo zio, Giuseppe Di Peri, faceva esclusivo riferimento a Pietro Aglieri, legatissimo a sua volta a Provenzano, e che di recente aveva incontrato delle persone, forse proprio qualcuno degli «scappati», a Marsiglia. A queste rivelazioni Bagarella «sospende il verbale» e manda Calvaruso a cercare Giovanni Brusca per fargli sentire in diretta quelle informazioni che, secondo lui, costituiscono la prova del doppio gioco di Provenzano. Ma il boss di San Giuseppe Jato non si trova.

Si va avanti così fino a sera inoltrata, fin quando Bagarella capisce di non poter cavare più niente da quel povero cristo. E tira la corda per primo. Poi apre la porta e dice: «Cu 'u voli salutari ora, lu po' fari». Gli altri mafiosi entrano, a piccoli gruppi, e finiscono il lavoro.

È notte fonda. Certamente qualcuno tra i presenti deve aver provato un senso di nausea e forse di pietà, senza darlo a vedere, ovviamente. Tutti insieme diventano arroganti: fanno branco.

Il corpo di Buscemi viene legato, caricato su un Fiorino Fiat e abbandonato in una via del centro di Villabate, con ancora la corda al collo. Bagarella e Mangano, da uomini d'onore, sono stati ai patti, hanno rispettato l'accordo con il condannato e hanno consegnato il suo cadavere alla famiglia.

Quando vado a fare il mio primo sopralluogo in quel capannone accuso un senso di vertigine, di smarrimento. Malgrado i due mesi trascorsi dall'ultimo omicidio eseguito, avverto in quello stanzino un indefinibile odore di morte. C'è ancora la sedia sgangherata dove è stato legato e strangolato Buscemi, ci sono le corde, le manette, i santini appesi al muro e le tracce di altre esecuzioni, di altri omicidi avvenuti là dentro.

Come quello di certo Vallecchia, noto come Gianni Giannuzzo, detto 'U cantanti perché faceva l'interprete di canzoni napoletane. Bella voce e un repertorio classico, dicevano: 'O sole mio, Malafemmena, Reginella, 'O surdato 'nnammurato... Si esibiva ai matrimoni e nelle feste di paese.

Al momento dell'esecuzione ha in tasca un telefonino che i killer, per non lasciare tracce, hanno bruciato proprio nell'atrio del magazzino. Così ci hanno raccontato i pentiti.

Alla fine lo recupero proprio io quel telefono: trovo in un angolo dei pezzi anneriti, semicarbonizzati, di un e-tacs Motorola. In un frammento è visibile parte del numero di serie dell'apparecchio. E quelle cifre corrispondono al cellulare di Gianni 'U cantanti! È la conferma che i pentiti dicono la verità e che quel magazzino gronda sangue.

Ne avevano ammazzati tanti, di uomini, lì dentro. Cose di mafia, in fondo, ma, soprattutto, cose da selvaggi.

Come quando nel magazzino della Commerciale avevano condotto due cittadini marocchini, uno dei quali sospettato di aver attentato alla virtù della moglie di Pasquale Di Filippo. L'altro viene ucciso subito da Grigoli con un colpo di 7.65 munita di silenziatore. Un colpo solo, dritto in mezzo agli occhi. Il presunto spasimante, invece, viene «interrogato» e schiaffeggiato per un paio d'ore. Poi lo strangolano, lo evirano e gli infilano in bocca i genitali, assicurati con del nastro adesivo.

Nella notte i due corpi incaprettati vengono scaricati da un furgone lungo le vie di Brancaccio, affinché servano da monito per altri eventuali trasgressori del nono comandamento in relazione alle donne dei cosiddetti uomini d'onore.

Romeo è ormai inarrestabile. Ricorda e racconta. Ci conduce in un altro luogo dell'orrore. In un villino a Bolognetta, una ventina di chilometri da Palermo, di proprietà di Salvatore Giuliano, il padre di Francesco, quello dell'attentato alla Galleria degli Uffizi. Nella casa di campagna dei Giuliano c'è un'altra camera della morte, un «laboratorio» specializzato nello scioglimento dei cadaveri. Con un metodo davvero raccapricciante: i corpi vengono messi a bagno nell'acido, solitamente quello usato dai gioiellieri per pulire i metalli preziosi, un liquido biancastro come il latte, ma che, a contatto con un corpo umano, reagisce friggendo come olio bollente.

Per accelerare il dissolvimento, mi spiega Romeo, si usa mettere il cadavere in un fusto di lamiera sopra un grosso bruciatore a gas, del tipo di quelli adoperati normalmente per preparare la conserva di pomodoro. E si fa bollire. In questo modo si alza la temperatura dell'acido e i tempi di scioglimento si dimezzano. Un corpo arriva a sparire completamente - mi racconta Romeo con l'aria del chimico esperto - in tre o quattro ore, tempi che si abbassano ancora se, durante quella macabra bollitura, qualcuno rimescola con un bastone.

Alla fine non resta niente. Soltanto l'oro. Il contenuto del bidone viene disperso nel terreno e in superficie rimangono solamente la fede e le protesi dentarie che si usavano qualche tempo fa. Anello nuziale e denti vengono recuperati e distrutti a martellate.

Ma, si sa, il calcio in Italia qualche volta blocca gli orologi, il tempo. Soprattutto se gioca la Nazionale e se si disputa il campionato del mondo. Alla regola non sfuggono nemmeno i mafiosi. Così, in una di queste occasioni, con la partita che stava per iniziare, non avevano atteso che il cadavere del malcapitato di turno si dissolvesse completamente nell'acido. Non rimaneva altro da fare che spartirsi i pezzi di femore o di tibia residui per lanciarli, dalle auto in corsa, nelle scarpate della strada a scorrimento veloce prima di tornare a casa. Resti umani poi finiti chissà dove e che non ci è mai stato possibile recuperare.

Un'altra barbara prassi del gruppo di fuoco di Mangano era quella di rovistare tra le tasche della vittima e, con i soldi trovati, comprare qualcosa da mangiare nell'attesa dello scioglimento del cadavere.

Giovanni Ciaramitaro, un collaboratore di giustizia affiliato allo stesso gruppo, mi ha raccontato che una volta lo avevano incaricato di andare in paese, a Bolognetta, a prendere qualche panino con i soldi sottratti a un giovane ladro appena strangolato. Tornato al villino aveva trovato Gaspare Spatuzza che mescolava con un manico di scopa nel bidone pieno d'acido e che, evidentemente affamato, gli aveva chiesto il panino: «Cu 'na manu manciava e cu l'avutra arriminava!». Con una mano mangiava e con l'altra rimestava!

Proprio spietati gli uomini di Mangano. Eppure i loro soprannomi sono così buffi, quasi spiritosi.

Alcuni prendono spunto dalle loro caratteristiche fisiche: Giovanni Ciaramitaro, per la sua obesità, è detto 'U pacchiuni; Giorgio Pizzo è Topino per la morfologia del suo viso che ricorda quella del comune roditore; Gaspare Spatuzza, per l'incipiente calvizie, è 'U tignusu; Giovanni Garofalo, contrabbandiere e spacciatore, è Culo di paglia per il suo sedere un po' molle e sproporzionato; Luigi Giacalone, irsuto lupo di mare, è detto Barbanera, come il pirata; Salvatore Faia è Il gobbo, per un lieve difetto fisico; Giuseppe Orilia, esattore del pizzo, è detto 'U rollò, perché le numerose pieghe della sua corporatura richiamano l'omonimo indigeribile pezzo di rosticceria palermitana preparato con wurstel, pomodoro e qualcosa di simile alla mozzarella.

Fifetto Cannella viene chiamato Castagna per la sua straordinaria somiglianza con il presentatore televisivo. Lo cattureremo solo il 24 aprile 1996 a conclusione di una fruttuosa indagine che i ragazzi della Criminalpol hanno voluto, appunto, denominare «Operazione Stranamore» alludendo proprio alla nota trasmissione di Alberto Castagna.

Pietro Romeo, infine, è 'U pitruni, per l'assonanza con il suo nome di battesimo e per la sua massiccia mole e forza fisica; insomma, una sorta di «Cosa» dei Fantastici quattro.

Altre volte i soprannomi si riferiscono a caratteristiche comportamentali o al ruolo svolto. Così Francesco Giuliano è detto Olivetti, come la nota marca di computer, per la sua precisione nello svolgere i compiti che gli assegnavano; Cosimo Lo Nigro è Bingo per la sua passione per le scommesse all'ippodromo; Pasquale Di Filippo, per i suoi modi un po' affettati, è La dama; Salvatore Grigoli, tiratore abilissimo, è Il cacciatore; Giuseppe Barranca, altro killer di punta del gruppo che arresteremo il 23 dicembre 1995 seguendo la sua donna, lo chiamano Ghiaccio per la sua freddezza nell'eseguire gli omicidi; Nino Mangano, reggente e contabile del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, è ovviamente 'U signuri, mentre l'appellativo di Madre natura spetta, altrettanto ovviamente, al capo titolare detenuto, Giuseppe Graviano.

Salvatore Benigno è detto 'U picciriddu, il ragazzino, per quella sua aria da personcina per bene. Tanto per bene da indurre l'intero paese di Misilmeri, sindaco in testa, a organizzare una fiaccolata per richiederne la scarcerazione.

Un elenco dei soprannomi di mafia lo avevamo trovato subito dopo la cattura di Bagarella, a giugno, nel covo in cui abbiamo arrestato Nino Mangano.

Si trattava di un vero e proprio libro mastro, un brogliaccio dove erano segnate entrate e uscite, dove erano indicati traffici di droga, estorsioni, spese correnti, incarichi affidati e portati a termine. E c'erano tutti questi strani nomignoli accanto a ogni annotazione. Per i mafiosi, un modo per camuffarsi meglio. Senza l'interpretazione autentica di Pasquale Di Filippo e di Pietro Romeo difficilmente avremmo saputo a chi si riferissero quelle indicazioni che sono state preziosissime nelle indagini e nei processi.

Ma - me lo dirà Romeo mesi dopo - nella perquisizione del covo di Mangano gli agenti non avevano notato un dettaglio non proprio secondario. Sotto i cuscini del divano del soggiorno era nascosto un lanciamissili Rpg 18 che, forse per la banalità del nascondiglio, era sfuggito alla perquisizione della Dia.

Romeo, nel primo periodo della sua collaborazione, vive notte e giorno con gli agenti della Criminalpol e della squadra mobile di Palermo e, in fondo, aveva ragione Santino Giuffrè: è un ragazzo semplice e di buon carattere, anche se l'aspetto è un po' rozzo e parla uno slang incomprensibile.

Per indicarmi che in un certo luogo avevano seppellito qualcuno, per esempio, mi dice che l'avevano vurricatu, participio passato di un verbo del siciliano antico che io avevo appreso, ragazzino, da mia nonna.

Negli anni successivi alla scarcerazione, però, Romeo ha fatto passi da gigante, e me ne vorrei prendere un po' di merito. Nei tanti colloqui che ho avuto con lui, gli ho insegnato a esprimersi in un italiano decente. Anni dopo l'ho sentito deporre in un dibattimento: al confronto dei suoi primi interrogatori sembrava quasi un professore universitario.

All'inizio comunicava quasi a grugniti. Dovevamo decifrare quel che diceva prima di trascrivere le sue dichiarazioni. Le prime registrazioni degli interrogatori di Romeo sono praticamente incomprensibili.

Una volta, a Milano, andò a interrogarlo per due o tre giorni la bravissima collega romana Olga Capasso. Tornò a Palermo arrabbiatissima, con una paginetta e mezzo di verbale appena: non era riuscita proprio a capirlo, a comprendere il suo siciliano stretto.

Per me era decisamente più facile, perché il modo di parlare di Romeo mi ricordava il dialetto del mio paese. Termini arcaici che si usano ancora talvolta nelle campagne e che mi avevano affascinato ai tempi del liceo, quando cercavo di coglierne l'origine: greca, araba, sveva, francese, spagnola. In Sicilia per questo c'è l'imbarazzo della scelta.