XII
Cherchez la femme
C'è una donna in ogni caso; appena mi consegnano un rapporto, io dico: «Cherchez la femme».
Monsieur Jackal - poliziotto parigino della Sûreté, personaggio letterario di Alexander Dumas padre - già nel XIX secolo aveva le idee piuttosto chiare in fatto di indagini: «Cherchez la femme», cercate la donna!
Si è scritto e detto tanto sulle donne di mafia. Talvolta sono state descritte come madri amorose e riservate, mogli fedeli capaci di soffrire in silenzio all'ombra dei loro uomini, altre volte come determinate e spietate complici dei loro compagni o dei loro padri, addirittura come vere e proprie capimafia in grado di imporre la loro volontà, di gestire l'associazione, di deliberare danneggiamenti, estorsioni, omicidi.
Spesso, però, si è dimenticato di dire che sono persone normali con le loro passioni, le loro debolezze, le loro contraddizioni.
Per questo motivo non esiste un cliché della donna di mafia, o meglio della donna che, per nascita o per libera scelta, si trova a condividere un pezzo della sua vita con un uomo d'onore. Certamente Cosa nostra è roba da maschi. Le femmine non ne fanno parte ma i loro destini, inevitabilmente, si incrociano con quelli dei loro uomini.
Rosanna è una graziosa moretta di Villabate. Ha ventidue anni e ha lasciato da tempo gli studi. Lavora qua e là, se le capita. Sciampista, commessa, impiegata part-time. Ma ha le sue legittime aspirazioni. Vorrebbe sistemarsi, sposarsi, magari trovare un uomo ricco e influente che le possa aprire qualche strada, perché no, nel mondo dello spettacolo o della moda.
Nel frattempo si vede con Uccio, un uomo sposato. Trentaquattro anni, alto, con una bella barba, due occhi piccoli piccoli ma tanto espressivi. Gestisce una grossa impresa agricola e frequenta personaggi importanti, quelli che contano a Villabate. Sì, Rosanna lo ha capito subito. Sono uomini di rispetto: uomini d'onore li chiamano. Viaggiano in Mercedes e sono ossequiati da tutti, dappertutto.
Anche Uccio deve essere un uomo d'onore. Le ha riferito tante cose. Quanto sono intriganti quei racconti: appostamenti di notte, carabine di precisione, faide tra mafiosi, omicidi, latitanti. Ma ora ha qualche problema. La storia con Uccio si sta avviando al capolinea e lei ha paura di fare una brutta fine, con tutte quelle cose compromettenti che sa.
Da una settimana non trova più la sua carta di identità e deve andare dai carabinieri per fare la denuncia. Alla stazione di Villabate, quel giorno, di piantone c'è un suo coetaneo, un ragazzo carino e simpatico che si mette a scherzare un po' con lei e la fa ridere. È facile fare amicizia a quell'età e, qualche giorno dopo, davanti a una pizza e una birra, Rosanna finisce anche per confidargli le sue preoccupazioni.
Il giovane carabiniere la porta a Palermo, al comando provinciale. La fa entrare nell'ufficio del capitano Carmine Furioso: «Parla con lui e vedrai che una soluzione si troverà».
Rosanna è un po' confusa, ma ormai è lì e, una parola dopo l'altra, riferisce all'ufficiale dei carabinieri tutto quanto aveva saputo da Uccio. Carmine convince la ragazza a far finta di niente e a continuare a incontrare il suo Uccio, come se nulla fosse. Assicura a Rosanna la dovuta protezione e mi raggiunge di corsa in ufficio.
Sono i primi giorni del 1995 e a Villabate la situazione è esplosiva. Ci aspettiamo che succeda un'ecatombe. Lo strano omicidio di Francesco Montalto, il giovane figlio del boss locale, avvenuto poco più di un mese prima a Palermo non può restare a lungo impunito.
Non sappiamo da dove cominciare e le confidenze di Rosanna, fumose, sconnesse, in qualche parte illogiche, sono comunque qualcosa. Uccio, all'anagrafe Salvatore Giuseppe Barbagallo, originario di Catania, è praticamente sconosciuto agli inquirenti palermitani. Ma non a me che mi ero imbattuto casualmente in quel nome un paio di anni prima quando ero a Termini Imerese. Indagavo su Giuseppe Gaeta, noto mafioso del posto, sui suoi fratelli e sulla loro fabbrica di calcestruzzo e Salvatore Giuseppe Barbagallo era uno dei prestanome che figuravano nell'elenco societario del cementificio.
«Ogni ficateddu di musca è sustanza» si dice in Sicilia. Non è un'espressione proprio fine ma rende bene l'idea: anche la parte più piccola, il fegato, di una mosca contiene proteine e, in casi di necessità, può costituire nutrimento.
Decidiamo di verificare subito, come si dice in gergo poliziesco, «l'attendibilità della fonte». La ragazza vive da sola e non abbiamo difficoltà a collocare una microspia a casa sua. Non ci vuole molta fantasia per individuare la stanza migliore dove piazzarla e i carabinieri di Carmine Furioso riescono, addirittura, a mettere la cimice proprio sotto il letto di Rosanna. E ci mettiamo in ascolto.
Uccio è proprio logorroico e sicuramente esagerato nelle sue narrazioni. Certamente vuol farsi bello con la sua giovane amante. Racconta a Rosanna di come aveva ucciso quel tipo, di quando aveva incontrato quel latitante, delle armi che aveva nascosto e di quelle che doveva ancora andare a prendere. Si definisce un uomo d'onore riservato della famiglia di Caccamo e le vecchie storie che racconta sui mafiosi di quella zona in qualche modo mi tornano.
Sulla situazione di Villabate però Uccio pare molto impreciso e incoerente. Anche lui non ha capito cosa sta accadendo in quel paese e in quelli vicini di Misilmeri e Belmonte Mezzagno, dove la tensione tra i mafiosi ha superato i livelli di guardia e dove i morti ammazzati sono all'ordine del giorno.
Il 17 febbraio 1995 a Belmonte Mezzagno viene eseguito l'ennesimo omicidio. Obiettivo dei killer, che invece uccidono per errore un agricoltore, è un macellaio, Simone Benigno, ritenuto legato al capomandamento latitante Benedetto Spera.
Devo far qualcosa per interrompere quella catena di morte, ma non abbiamo spunti investigativi. Nulla di nulla. Provo a rompere gli indugi e mi faccio portare Rosanna in una caserma dei carabinieri lontana da Palermo.
Mi aspettavo una ragazzina impaurita e timorosa e invece mi trovo davanti una donna determinata, consapevole dei rischi che sta correndo, pur con la tipica incoscienza dei suoi vent'anni. Nikita, come l'hanno nel frattempo denominata i carabinieri in riferimento alla protagonista dell'omonimo film di Luc Besson, non ha problemi a mettere a verbale quello che sa.
Ma non è che sia molto utile. È difficilissimo capire dalle sue dichiarazioni cosa sia vero e cosa, invece, frutto dei racconti esagerati di Barbagallo o delle stesse libere interpretazioni della giovane donna. Non possiamo fare altro che incrementare l'attività investigativa.
Poniamo sotto controllo i telefoni di Barbagallo e proviamo a pedinarlo. Nikita nel frattempo aiuta i carabinieri con le sue informazioni sui movimenti e sui segreti dell'amante. Ma quei giorni sono proprio terribili: il 25 febbraio è il turno dei coniugi Giammona e Saporito, uccisi a Corleone, il 26 a Terrasini viene trovato il cadavere di Francesco Brugnano, il 27 tra Palermo e Villabate scompare Antonino Giuseppe Vallecchia, il 2 marzo a Palermo c'è il duplice omicidio Grado-Vullo, il 3 marzo viene ammazzato Armando Vitale e il 6 marzo Domingo Buscetta... Non ci capiamo niente e ci sentiamo letteralmente impotenti.
Abbiamo solo un indizio, che poi peraltro si rivelerà fuorviarne: il giorno dell'omicidio del nipote di don Masino Buscetta, Barbagallo era nei pressi del luogo del delitto, armato. La conferma l'abbiamo da un'intercettazione telefonica e dalla solita confidenza di Uccio a Nikita da lei girata puntualmente ai carabinieri.
Non sappiamo il motivo per cui Barbagallo si trovasse lì, e i successivi sviluppi chiariranno che si era trattato di una strana casualità, ma in quel momento non abbiamo tempo per approfondimenti investigativi. Firmo un decreto di fermo di Barbagallo per partecipazione ad associazione mafiosa e lo consegno ai carabinieri di Palermo che, nella notte tra il 13 e il 14 marzo, riescono a eseguire il provvedimento e a bloccare Uccio. A casa sua, seguendo le indicazioni di Rosanna, i militari scoprono anche una pistola con la matricola abrasa, nascosta in una scatola da scarpe.
Alle sei del mattino mi portano il fermato in caserma. L'uomo di Nikita proprio non se lo aspettava, non lo aveva messo in bilancio: si riteneva insospettabile. Gli parlo subito. Gli illustro gli elementi che avevamo raccolto sul suo conto e gli elenco i vantaggi di una sua eventuale collaborazione con la giustizia. Ma Uccio non cede: «Processatemi per direttissima per la pistola. Per il resto poi si vedrà».
A mali estremi, estremi rimedi. Non sono proprio sportivo in quella circostanza, anzi sfioro quasi la slealtà. Gli metto in mano le trascrizioni delle intercettazioni ambientali e lo invito bruscamente a leggersele: «Vede Barbagallo, questi sono i suoi colloqui con la signora Rosanna. Non so se saranno o meno sufficienti per una condanna per mafia. Ma non è questo adesso il suo problema. Domani, quando gli atti saranno depositati, tutta Cosa nostra saprà che lei, senza che ve ne fosse necessità alcuna, ha raccontato i segreti dell'associazione a una donna, una donna che, peraltro, non era nemmeno sua moglie. Ci pensi bene».
Lo faccio mettere in una stanza con quei fogli e gli faccio portare un caffè.
Uccio capisce di non avere più alternative e mezz'ora dopo siamo seduti davanti a una scrivania a mettere a verbale la sua volontà di collaborare con la giustizia.
Non faremo però in tempo a fermare subito l'eccidio in atto nel Palermitano. La stessa sera, mentre noi ancora raccogliamo le prime timide dichiarazioni di Barbagallo, a Villabate vengono ammazzati, a colpi di calibro 38 e di fucile a pallettoni, Giuseppe e Salvatore Di Peri, padre e figlio.
Riusciremo però a salvare la vita ad almeno una decina di persone tra quelle che Salvatore Giuseppe Barbagallo, il 17 marzo successivo, ci consentirà di fermare con le sue dichiarazioni. Le porteremo in carcere, in un posto dove i killer di Nino Mangano e Leoluca Bagarella, che, come sapremo dopo, stanno facendo piazza pulita a Villabate e dintorni, non possono arrivare.
Sarà Tony Calvaruso, un anno più tardi, a dirci che si trattava di soggetti già nella lista di morte di don Luchino, ma del resto lo avevamo capito qualche giorno dopo l'operazione del 17 marzo, quando, per errore, un paio di arrestati erano stati scarcerati dal Tribunale della libertà. I due si erano allontanati immediatamente da Villabate per rifugiarsi a Bologna e, un paio di settimane dopo, quando avevo ottenuto il nuovo ordine di carcerazione, si erano presentati spontaneamente al carcere del capoluogo emiliano. Non vedevano l'ora di tornare in prigione. Al sicuro.
Nella stessa notte di quel 17 marzo, Uccio ci guiderà fino a un arsenale di tutto rispetto: diverse pistole, una mitraglietta Pm 12 come quelle in dotazione alle forze di polizia, qualche fucile a canne mozze, proiettili di svariati calibri, e persino un mitra di fabbricazione artigianale, perfetto per fare impazzire i periti balistici quando saranno chiamati a individuare il tipo di arma che ha sparato.
Nikita, sottoposta al programma di protezione, cambierà identità e se ne andrà via in una località segreta dove mi auguro abbia trovato un lavoro diverso. Magari meno emozionante ma certamente molto meno rischioso di quello che aveva fatto per noi.
È il tardo pomeriggio del 1° luglio 1995, quando sei persone giungono nell'unico piccolo albergo di Castellana Sicula, un ameno paesino delle Madonie, in provincia di Palermo ma molto più vicino a Caltanissetta.
Il portiere della pensione registra però solo cinque nomi, quelli di quattro uomini e di una donna. Forse perché cinque sono le camere che gli chiedono e per una sola notte. Come per legge, trasmette le generalità dei suoi clienti alla questura di Palermo che le inserirà nel sistema informatico centrale del ministero dell'Interno. Archiviate insieme a migliaia di dati analoghi.
Nove mesi dopo un maresciallo dei carabinieri e un ispettore di polizia del Centro operativo della Dia di Caltanissetta spulciano proprio quell'archivio. Sono interessati a un nome, quello di un certo Cosimo, un nisseno che sospettano abbia a che fare con Cosa nostra. Hanno avviato gli accertamenti di routine e stanno verificando le sue presenze alberghiere.
Sono sbirri in gamba e sono in grado di andare oltre i freddi dati forniti dalla videata del loro terminale. Guarda un po' che cosa strana. La pensione di Castellana Sicula in quel periodo è semideserta e, quella sera, con Cosimo ci sono anche Giovanni e Pietro, altri due indiziati mafiosi della stessa cosca, e una donna, Maria Giovanna. Tutti di Caltanissetta.
E c'è anche un tipo di Palermo, un certo Marcello Di Natale. Ma non è uno dei fratelli Di Natale, legati a Leoluca Bagarella, che sono stati arrestati un paio di mesi fa? E lo stesso don Luchino non è stato catturato appena una settimana prima di quel pernottamento, il 24 giugno 1995?
Che ci fanno quattro presunti mafiosi contemporaneamente in una pensione di Castellana Sicula, a soli cinquanta chilometri da Caltanissetta e a un'ora di strada da Palermo? Perché non se ne sono andati a dormire a casa loro? Forse si era rotta la macchina. Ma allora dovevano essere tutti insieme. E la donna? Risulterebbe da sola, ma ha dormito in una matrimoniale. Forse è il caso di approfondire. Nome per nome.
Sul monitor si apre un altro archivio informatico e i due sottufficiali della Dia hanno la conferma che non si tratta di una coincidenza: agli inizi del 1995, Marcello Di Natale era stato casualmente controllato e identificato dai carabinieri proprio insieme a Giovanni, uno degli altri ospiti nisseni dell'albergo. E con loro c'era anche Nicola Di Trapani.
Sì proprio lui, Nicola Di Trapani, trentacinque anni. L'attuale reggente del mandamento di Resuttana, imparentato a doppio filo con i Madonia, legatissimo a Leoluca Bagarella, capo di un gruppo di fuoco responsabile di numerosi omicidi, irreperibile da quasi un anno e, adesso, formalmente latitante. Lo ha chiamato in causa Tony Calvaruso, l'autista pentito di don Luchino. Vale proprio la pena di informare i colleghi di Palermo.
Quando Ferdinando Buceti, funzionario del Centro operativo Dia di Palermo, mi mette al corrente delle informazioni che gli avevano passato da Caltanissetta, capisco che la notizia è veramente interessante.
Mi viene subito in mente che lo stesso Calvaruso non solo mi aveva segnalato lo stretto legame esistente tra i fratelli Di Natale e il reggente di Resuttana, ma, soprattutto, mi aveva indicato Di Trapani come «Nicola da Caltanissetta». Tony non ne conosceva il cognome, ma lo aveva sempre visto su una macchina targata CL e, spesso, in compagnia di persone che parlavano con accento nisseno.
Non c'è tempo da perdere. I due centri operativi della Dia devono lavorare insieme e seguire tutti gli ospiti dell'albergo di quella sera a cominciare da Maria Giovanna, che ci sembra il personaggio più misterioso e interessante. Ci pare logico, infatti, pensare che a Castellana Sicula la donna avesse diviso la sua camera proprio con Nicola Di Trapani che, preoccupato dall'arresto di Bagarella e Calvaruso di una settimana prima, aveva deciso di rendersi irreperibile ed era riuscito a non farsi registrare dal portiere dell'albergo.
Maria Giovanna è una parrucchiera di ventotto anni. Altezza media, snella, lineamenti gentili e gradevolissimi. Lavora tutto il santo giorno nella sua bottega a Caltanissetta e, alla sera, prende la sua utilitaria e torna a casa a dormire. Esce raramente e, quando lo fa, va in pizzeria con le amiche. Non fa mai tardi e non incontra uomini. Le feste pasquali le passa in famiglia, con amici e parenti, tutte persone perbene, senza precedenti penali. Un'esistenza normale, banale, come tante. Forse ci siamo sbagliati, forse la nostra ipotesi su quello strano pernottamento nelle Madonie non è corretta. Chissà cosa era successo in realtà? Sempre a pensar male delle donne, noi uomini!
Venerdì 19 aprile però c'è una novità, uno scossone nella monotona vita di Maria Giovanna. Alla sera, quando va via l'ultima cliente, la donna esce dal suo negozio con un borsone, tira giù la saracinesca, ci attacca un cartello con la scritta «sabato chiuso», sale in macchina e mette in moto.
Stavolta non va a casa ma imbocca il raccordo autostradale per la Palermo-Catania. Gli uomini della Dia di Caltanissetta che controllano la bottega non si fanno sorprendere e si mettono immediatamente all'inseguimento. Allo svincolo, la macchina della parrucchiera imbocca l'autostrada in direzione di Palermo. Dopo un'oretta scarsa Maria Giovanna è all'ingresso della città, in viale della Regione Siciliana.
Qui viene «agganciata» anche dagli uomini del Centro operativo di Palermo, già avvisati via radio dai loro colleghi di Caltanissetta che sono ancora, pur a debita distanza, dietro la macchina di Maria Giovanna.
La donna si dirige verso la zona nuova, verso lo stadio della Favorita e si ferma in via Alcide De Gasperi, guarda caso a qualche centinaio di metri dagli uffici della Dia di via del Fante ma, soprattutto, in pieno territorio del mandamento di Resuttana, quasi all'angolo con via Croce Rossa. Giusto dove, undici anni prima, un giovanissimo Nicola Di Trapani, aveva, insieme ad altri cosiddetti uomini d'onore, ammazzato come un cane Ninni Cassarà, funzionario della squadra mobile di Palermo.
Maria Giovanna parcheggia la macchina, prende il borsone dal sedile posteriore e si dirige sicura all'ingresso del palazzo al numero 112. Impossibile capire in quale appartamento è entrata: troppo rischioso seguirla a piedi fin dentro l'androne del condominio. Non resta che organizzarsi e aspettare.
Gli uomini della Dia di Palermo e Caltanissetta passano la notte in strada. Muniti di binocoli con intensificatori di luce controllano continuamente e inutilmente le aperture del palazzo fino al mattino successivo quando, finalmente, la città comincia a risvegliarsi.
Alle sette e mezzo la finestra di una camera da letto al secondo piano si apre. Si affaccia una donna e gli sbirri di Caltanissetta che ormai la conoscono bene non hanno dubbi: «È Maria Giovanna, la parrucchiera». Sullo sfondo notano anche una figura maschile a torso nudo: sembra proprio quella di Nicola. Non è il caso di attendere oltre.
Dopo pochi minuti dal Centro operativo della Dia arrivano i rinforzi. Il portone del palazzo è aperto. Gli agenti salgono le scale facendo i gradini due alla volta e, al secondo piano, bussano a una porta blindata.
Si sente una voce maschile un po' assonnata: «Chi è?».
«Direzione investigativa antimafia. Apra.»
Quasi contemporaneamente poliziotti, carabinieri e finanzieri che sono rimasti a circondare l'edificio notano un uomo che si affaccia a una finestra del secondo piano e si sporge come se volesse saltare giù. Troppo alto. E, soprattutto, totalmente inutile: l'uomo vede decine di sbirri intorno al palazzo con armi e distintivi ben in vista. Nicola Di Trapani si arrende e apre la porta un attimo prima che gli uomini della Dia la facciano saltare.
Maria Giovanna raccoglie le sue cose, le mette nel borsone e si lascia portare negli uffici di via del Fante. Alcune settimane dopo patteggerò con lei una pena di alcuni mesi di reclusione per favoreggiamento personale aggravato. Con le attenuanti generiche e la sospensione condizionale, però. In fondo è solo una giovane parrucchiera. Innamorata e, soprattutto, incensurata.
Dopo una lunga latitanza il boss è in un ufficio delle forze dell'ordine. Con lui c'è un magistrato della procura di Palermo e un avvocato disponibile ad assistere i collaboratori di giustizia. Ha già fatto un lungo colloquio con lo sbirro che lo ha arrestato e gli ha raccontato alcune vicende interessanti, molto interessanti. Del resto il boss ha un ruolo importante e di cose ne conosce e ne ha fatte tante: danneggiamenti, rapine, estorsioni, omicidi, perfino stragi.
Con la prospettiva del carcere a vita decide di tradire i suoi vecchi complici. Vuole collaborare con la giustizia. Lo aspetta qualche ergastolo ma è ancora relativamente giovane. Ha una vita davanti.
«Voglio parlare con mia moglie. Prima di iniziare l'interrogatorio, voglio parlare con mia moglie.»
Il mio collega ha sicuramente un'esitazione, ma poi decide di consentire il colloquio.
La moglie del boss, che chiameremo Maria, è una bella signora palermitana. Si presenta nell'ufficio indossando un elegante tailleur di marca e con un trucco appena un po' eccessivo. Mani lisce e curatissime: si capisce che non hanno mai avuto a che fare con il Nelsen piatti o con il Last al limone. Le unghie sono «pittate» di rosso cupo e, alle dita, porta più anelli di quanti ne abbia la statua di santa Rosalia che c'è nel santuario di Monte Pellegrino. Al collo avrà una «mezza chilata d'oro», valuta tra sé e sé lo sbirro che l'ha fatta entrare e che me la descriverà qualche ora dopo.
Maria accenna con il movimento della testa a una specie di saluto, guarda con sufficienza gli sbirri e il magistrato che l'hanno convocata e, senza dire una parola, entra nella stanza dove si trova il boss. Quel locale è già stato «attrezzato» per l'ascolto e la registrazione.
La donna conosce le debolezze di «quella specie» di uomo d'onore che è il marito. Ha pure sufficiente esperienza in fatto di giustizia per sapere che ai familiari non viene mai consentito di incontrare un ex latitante il giorno stesso della cattura. Non ci ha messo molto a capire il motivo per cui è stata convocata in quel posto, a qualche ora di distanza dall'arresto del marito.
Gli sbirri escono dalla stanza e, prima che il boss possa dire qualcosa, Maria, senza nemmeno salutarlo, esordisce: «Sei un pazzo. Ci vuoi rovinare. Non pensi a noi? Alla tua famiglia? Ci porteranno in qualche posto in continente. Al freddo, con la nebbia, senza una lira. Dove non conosciamo nessuno e dove nessuno ci conosce e ci rispetta. E che figura ci facciamo? Mio padre e mia madre si dovranno chiudere in casa per la vergogna... I suoceri dell'indegno. Non pensi a loro?».
Il boss ha appena un sussulto. Tanto deciso e determinato a sparare, a uccidere, a collocare bombe, adesso è in difficoltà: «Ma così tra qualche anno esco».
«E che esci a fare! Sarai sempre un infame, un pezzo di merda, una cosa 'nutuli. Ma tuo padre non te l'ha imparata un po' di dignità?»
«Ma, Maria...» tenta di dire il boss tenendosi la testa tra le mani.
«Maria, sta gran coppula di minchia!» replica la signora. «Se pigli questa strada io mi metto con il tamburino a girare per tutta Palermo e dico che non ti conosco, che crasti nella mia famiglia non ce ne sono mai stati. E non ce ne saranno. Mai!»
Il boss si avvicina alla porta, gira la maniglia ed esce dalla stanza. Stende in avanti le braccia: «Mettetemi le manette e portatemi in carcere. Non se ne fa più nulla».
Maria si fa accompagnare al portone principale e va via da quel posto di sbirri. A testa alta come era entrata. Si fa portare davanti casa sua e si va a prendere un gelato di scorzonera e cannella al bar di fronte. Ossequiata e rispettata.
Rosetta è al telefono e parla con la madre. Parla di me. Sono i primi di dicembre del 1992 e faccio il pubblico ministero a Termini Imerese.
«Non ti preoccupare, ma'. Tanto quello che ci ha fatto tutto questo male alla Madonna non ci arriva.»
«La Madonna», così si chiama a Palermo la festa dell'Immacolata dell'8 dicembre. E mancano pochi giorni. È il panico in procura. Mimì Guarino, simpaticissimo dirigente del commissariato di Termini Imerese, si precipita nella mia stanza e, prima di riferirmi il contenuto della telefonata che i suoi uomini hanno intercettato, mi chiede le chiavi di casa.
Mi dice che quella notte la dovrò passare al commissariato e che manderà uno dei suoi a prendere le mie cose. Sono passati pochi mesi dalle stragi di Capaci e via d'Amelio e non è il caso di sottovalutare nulla.
Rosetta, poi, ci sembra una femmina determinata, forse la vera testa pensante dell'organizzazione di criminali su cui stiamo lavorando. La stavamo intercettando da settimane, da quando avevamo cominciato a cercare un paio di suoi fratelli che ci erano sfuggiti.
All'inizio dell'anno avevamo sventato una delle tante rapine ai Tir che, quasi quotidianamente, interessavano il tratto autostradale di Termini Imerese, camion pieni di merci diretti alla zona industriale o a grandi magazzini di Palermo. I banditi usavano una tecnica ampiamente collaudata: uomini armati e incappucciati fermavano il mezzo, sequestravano l'autista, lo caricavano su una macchina e gli facevano fare un lungo giro, fino a quando gli altri complici non portavano il Tir in un posto sicuro. Poi, dopo un paio d'ore, rilasciavano il prigioniero e facevano ritrovare il mezzo; ovviamente svuotato delle merci che trasportava.
Grazie a una firma incautamente apposta sul disco crono-tachigrafo di un Tir, riusciamo a individuare uno degli autori dell'ultima rapina eseguita. L'uomo è intestatario di un telefono cellulare, apparecchio ancora poco diffuso a quei tempi. Nemmeno noi magistrati l'abbiamo a disposizione e, per la reperibilità, utilizziamo lo scomodissimo teledrin.
Acquisisco i tabulati del telefonino e controllando quei dati posso verificare che, proprio durante la rapina, il nostro soggetto si manteneva in contatto con altre persone, con altri telefoni cellulari.
Non abbiamo le tecnologie che ci sono oggi e, con l'ispettore Carimi che dirigeva la Sezione di polizia giudiziaria ci mettiamo ad annotare a mano, uno a uno, tutti i dati e poi li mettiamo a confronto. Un lavoraccio. Da polizia e carabinieri ci facciamo dare l'elenco delle rapine commesse negli ultimi mesi nella nostra zona e poi incrociamo gli orari con le telefonate dei nostri sospettati. I tabulati sono solo cartacei e passiamo giornate intere dietro a fogli pieni di numeri telefonici, ore e date.
A poco a poco riusciamo a stringere il cerchio e alla fine a individuare l'intera banda, costituita da una trentina di persone. Arriviamo anche a scoprire il deposito del materiale rubato, in un magazzino a Palermo, nel quartiere Brancaccio. Dentro c'è davvero di tutto: motori Fiat nuovi di zecca, pezzi di ricambio di automobili, pellicce, macchine fotografiche, televisori, lavatrici, impianti hi-fi, pneumatici, mobili da giardino. Ci sono persino balle e balle di carta igienica e rotoli da cucina.
I tempi tecnici dell'emissione dei provvedimenti di custodia in carcere consentono però a una dozzina di indagati di darsi alla fuga. Mettiamo allora sotto controllo i telefoni di amici e familiari dei latitanti, cominciamo qualche pedinamento, sfruttiamo fonti confidenziali e, malgrado i pochi mezzi che abbiamo a disposizione, iniziamo a prenderli. Uno dopo l'altro. Non sono mafiosi ma per svolgere quel lavoro non possono non avere il consenso di Cosa nostra. Del resto, alcuni di loro risultano in contatto con gli uomini d'onore delle famiglie di Brancaccio e Mezzo Monreale.
Quello che continua a sfuggirci è però proprio il capobanda, Alfredo, il fratello di Rosetta. La sua famiglia costituiva il nucleo centrale dell'associazione e avevamo già arrestato il padre, un paio di cognati e un altro fratello della donna. Logico, quindi, che Rosetta e la madre ce l'avessero con me.
È la prima volta che mi sento nel mirino ma per fortuna, dalle successive telefonate intercettate, scopriamo quasi subito che non c'è in preparazione nessun attentato nei miei confronti.
Rosetta e la madre hanno pensato bene di rivolgersi a un mago. Sì, proprio a uno di quei fattucchieri che, ovviamente dietro lauto compenso, dispensano presunte guarigioni, inverosimili fortune e improbabili malefici, e che aveva praticato un sortilegio... per farmi morire. Entro l'8 dicembre, prima della ricorrenza dell'Immacolata Concezione!
E al sedicente sensitivo non era parso vero di assecondare Rosetta e la madre. Anche lui aveva del risentimento nei miei confronti: un anno prima, infatti, lo avevo fatto condannare per lesioni gravissime e, così, gli avevo «rovinato la piazza».
Una curiosa storia di paese. Una donna si era rivolta al mago perché il marito, che era stato per molti anni a lavorare in Germania, era tornato a casa ma non era più «attivo» come un tempo. Voleva una pozione d'amore che facesse rinvigorire i sensi del coniuge, che gli restituisse la virilità. Il presunto esperto di arti occulte aveva allora preparato un miscuglio a base di tintura di cantaride, un coleottero ricco di una sostanza che si dice abbia effetti afrodisiaci ma che, in realtà, è altamente urticante e, in certe quantità, è addirittura tossica. Così, quando il poveraccio aveva preso l'intruglio che la moglie gli aveva disciolto di nascosto nella minestra, aveva riportato un'ulcera perforante ed era finito al pronto soccorso. I medici per salvargli la vita erano stati costretti a tagliare e ricucire diversi metri di intestino.
Dopo la denuncia dell'uomo, che accusava la moglie di aver tentato di avvelenarlo, non ci volle molto a risalire alla verità e il mago si era beccato la sua meritata condanna.
Quando capiamo come erano andate le cose e che non c'è alcun attentato da sventare, tiriamo un sospiro di sollievo e riprendiamo a lavorare alle ricerche di Alfredo.
Dalle indagini emergono quasi subito altre due donne. Stavolta si tratta di due signore di Milano. Due belle e disponibili signore che contattano Rosetta per telefono e, senza tante perifrasi, le fanno capire che stanno arrivando a Palermo dove hanno un appuntamento con il fratello che ha promesso di trovare loro un lavoro. Ma una volta i flussi migratori non erano da Sud verso Nord? Evidentemente dipende dal tipo di attività professionale!
Ci mettiamo sulle loro tracce e vediamo che vanno ad alloggiare in un albergo non proprio a cinque stelle, nei pressi della Stazione centrale. Il giorno successivo, seguendole, non impieghiamo molto a individuare Alfredo e a catturarlo.
A conclusione delle indagini Rosetta e la madre saranno poi rinviate a giudizio per ricettazione e altri reati minori, mentre alle due belle e prosperose signore verrà notificato un foglio di via e saranno «rimpatriate» a Milano. Ricordo che, quando eravamo andati a fare l'accertamento nella discutibile pensione dove alloggiavano, avevamo controllato i loro documenti di identità. Per entrambe alla voce professione era riportata la dicitura «fantina».
Giusy è nel parlatorio del carcere con il marito, Ciccio Tagliavia, capofamiglia di Corso dei Mille. Li separa un cristallo blindato, antiproiettile. I tecnici della Criminalpol hanno collocato una minuscola videocamera nella plafoniera al neon che illumina la stretta stanza e, nella cornice del vetro divisorio, hanno nascosto un microfono sensibilissimo.
I poliziotti stanno impazzendo a interpretare quei colloqui. Ne hanno filmati tanti, uno a settimana. Tutti uguali.
GIUSY: Siccome ci sono altre cose, il porco, tu non hai detto di parlare... (solleva le braccia all'altezza dei gomiti ondeggiando il busto) ci va (fa cenno puntando il dito).
Ciccio fa cenno con la testa per chiedere di chi si parla.
Giusy, con il movimento delle labbra, risponde con un nome e cognome non ben interpretabile, poi alza nuovamente le braccia e ondeggia il busto.
CICCIO: A chi?
GIUSY: A questo (fa cenno tenendo le braccia alzate e ondeggiando) gli dice a questa persona che li fa avere a Sant'Erasmo. Come dice sono io!
CICCIO: Sì, sì, gli dici, gli dico io, che i soldi glieli deve dare a lui senza perdere un minuto di tempo (indica col braccio alzato, poi fa cenno di ritirare) e anzi se... (fa un cenno circolare col dito e poi cenno di ritirare tutto).
GIUSY: (fa cenno di assenso con la testa)... siccome ci sono negozi di scarpe. In tutto sono qualche quattro e se li fa il porco.
CICCIO: A me ancora prima mi interessano che... (fa segno col dito sulla palpebra e il gesto dell'avambraccio alzato come per dire che il tizio indicato deve tenere d'occhio la situazione).
GIUSY: Certo. Ti spiego il discorso di... (con la mano si tocca il naso) ci è andato (si tocca l'occhio e poi il gomito con la mano) sì, a nome di lui... (si tocca l'occhio e di seguito il naso) ci è andato (continua a toccarsi l'occhio col dito).
CICCIO: E dove, da questo? (alza il braccio tenendo la mano chiusa) E che vuole?
GIUSY: Voleva... (fa segno col dito alzato come a voler indicare una cifra).
Tutti uguali, tutti così, quei dialoghi. Riferimenti enigmatici, cenni d'intesa, parole mimate o pronunciate a fior di labbra, gestualità esagerata, a tratti ridicola ma impossibile da comprendere.
Avevo disposto l'intercettazione di quei colloqui più di un mese prima, quando avevo saputo da alcuni collaboratori che Ciccio Tagliavia era stato incaricato dal suo capomandamento, Giuseppe Graviano, di coordinare le estorsioni nell'intero territorio di Brancaccio. Erano tutti e due detenuti, entrambi sottoposti al 41 bis. Ma Tagliavia, grazie a una interpretazione garantista della norma, poteva usufruire di quattro colloqui al mese con i suoi familiari e Graviano solo di uno. E con le estorsioni, con la raccolta del pizzo non c'è tempo da perdere. Non si può aspettare quattro settimane, si rischia di lasciarsi sfuggire il controllo del territorio, il vero punto di forza di Cosa nostra.
I pentiti mi avevano anche segnalato la moglie di Tagliavia, la signora Giusy. Una bella quarantenne, tipicamente mediterranea. Mai in disordine, abbigliamento curato ma estremamente sobrio. L'unica lieve stravaganza: quegli occhiali scuri con la griffe ben in vista che si toglieva raramente. Me la descrivevano come 'na fimmina cugliunuta, una capace di sostituire il marito. In tutto e per tutto.
Da un paio d'anni avevamo, come si suol dire, messo a ferro e fuoco il mandamento di Brancaccio. Avevamo arrestato quasi tutti i latitanti e gli uomini d'onore. E, con loro, un paio di centinaia di persone tra sicari, affiliati, guardaspalle, esattori. In quel periodo, prima metà del 1997, eravamo a un passo dal riprenderci il controllo di quell'immenso quartiere di Palermo, al confine con Villabate e Ficarazzi.
Era uno di quei momenti che vengono tecnicamente definiti di fibrillazione dell'associazione mafiosa, una tipica occasione in cui Cosa nostra è costretta a ricorrere a persone normalmente estranee all'organizzazione, a cominciare dai familiari degli uomini d'onore. Donne comprese.
Il vetro divisorio collocato nelle sale colloqui dei 41 bis non consentiva più di ricorrere ai pizzini. Le informazioni fondamentali per le dinamiche dell'associazione mafiosa non potevano essere trasmesse fuori del carcere con bigliettini sigillati di cui il latore non conoscesse il contenuto e, talvolta, nemmeno il destinatario finale. Quello era stato il metodo in uso per decenni e aveva consentito ai mafiosi detenuti di continuare a imporre la loro volontà all'esterno avvalendosi dei loro familiari, ignari degli argomenti di cui trattavano quei pizzini.
Ora però c'è una situazione di emergenza per cui ci sembra logico pensare che Cosa nostra debba far ricorso a soggetti che, normalmente, non potevano venire a conoscenza dei segreti dell'associazione. Come le donne. Come Giusy, appunto.
Ci mettiamo settimane e settimane a cercare di interpretare i suoi colloqui, i suoi gesti. Facciamo anche vedere i filmati ai collaboratori che conoscono i Tagliavia ma non ne viene fuori nulla di buono.
Si capisce che parlano di denaro, di estorsioni, di commercianti, di esattori del pizzo, ma non riusciamo a individuare i soggetti coinvolti. Possiamo solo fare delle ipotesi.
Giusy abita con il figlio in una villa enorme, con giardino e piscina. C'è anche un singolare colonnato corinzio e, addirittura, una statua di Nettuno in bella vista: forse un doveroso omaggio al dio latino del mare dato che i Tagliavia gestiscono le pescherie più redditizie di tutta Palermo. Faccio fare una perquisizione in quella casa e riusciamo a scoprire, dietro una lastra di pietra rimovibile mimetizzata nel camino, anche una stanza segreta, attrezzata di tutto quanto può servire a trascorrere qualche giorno di latitanza. C'è un piccolo frigorifero e persino una televisione. Capiamo così come avesse fatto Ciccio Tagliavia a sfuggire alla cattura qualche anno prima, ma niente di utile per le mie indagini sul racket.
Riesco comunque a far rinviare a giudizio Giusy per concorso in associazione mafiosa ed estorsione continuata. So che sarà dura riuscire a dimostrare quali taglieggiamenti ha commesso, chi ha mandato a ritirare il pizzo, quanti soldi ha incassato per conto di Cosa nostra. Inutile, poi, sperare nella collaborazione delle possibili vittime. Nessuno aveva parlato, anche a costo di finire in prigione con l'accusa di favoreggiamento. Così come non aveva parlato Giusy che, per evitare di spiegarci il significato di quei gesti, si era avvalsa della facoltà di non rispondere.
Gli unici elementi concreti che abbiamo in mano, oltre a qualche generica dichiarazione di un paio di collaboratori, sono quelle registrazioni e quei filmati.
Il codice di comunicazione gestuale dei Tagliavia, nonostante perizie, consulenze e tentativi vari di interpretazione, però, rimarrà sempre un mistero e non sarà mai decrittato. Così, alla fine, Giusy riuscirà a cavarsela. Condannata in primo grado a sette anni di reclusione dal tribunale di Palermo, verrà poi assolta dalla Corte di Appello. Per non aver commesso il fatto.
Elisa (nome di fantasia) ha appena quindici anni e due grandi occhi scuri. Sul comò ci sono i suoi libri di matematica. Domani è l'ultimo lunedì di maggio. La scuola è agli sgoccioli e non ha altre occasioni per farsi interrogare. Non ha voglia di alzarsi, però. Vuole rimanere ancora un po' a letto, vuole lasciarsi accarezzare dal sole di quella domenica di primavera che filtra dalle finestre che Pino ha appena aperto.
Pino, l'amore suo. Quanto è bello con quel suo fisico asciutto e atletico, quello sguardo intenso e penetrante e quei capelli... grigio cenere. Sì, grigio cenere perché Pino ha quarantaquattro anni, quasi trenta più di lei. Potrebbe essere suo padre. Ma cosa importa, Elisa lo ama. Lo ama profondamente come solo una ragazzina sa fare. Incurante degli ostacoli, delle critiche, dei buoni consigli della sua amica del cuore.
Certo se suo padre sapesse che, invece di andare a studiare con la sua compagna di scuola e fermarsi a dormire da lei, era andata da Pino! Ma non può sospettare nulla, suo padre. L'ha vista uscire con lo zaino pieno di libri e stasera tornerà preparata per l'interrogazione di domani.
E poi era stato proprio suo padre a farle conoscere Pino. L'aveva visto qualche volta nel negozio dei suoi familiari. Veniva da solo e quasi sempre entrava nel retro e si metteva a parlare a bassa voce con suo padre.
Come poteva dimenticare quella volta che i loro occhi si erano incrociati a lungo, quella sensazione di calore intenso che aveva avvertito. Ille mi par esse deo videtur... così, se non ricordava male, cominciava una poesia di Catullo che le avevano fatto studiare a scuola. E anche lei era convinta di aver visto un dio: bello, forte, deciso, sicuro di sé.
Pino non aveva paura di nulla. Certamente era solo per proteggerla da suo padre che si nascondeva sempre, che si muoveva con circospezione, che non si faceva vedere in giro. Non poteva portarla in discoteca o al ristorante. Se qualcuno li avesse visti avrebbe potuto riferire tutto ai suoi familiari.
Avevano quel nido d'amore, segreto, segretissimo. Oltre a loro due solo Mimmo, il padrone di casa, lo conosceva. Pino non aveva nemmeno fatto mettere il nome sul citofono. Quanto era attento il suo Pino! Non le telefonava quasi mai e, quando lo faceva, utilizzava una cabina pubblica. Qualcuno avrebbe potuto sentire e sarebbero stati guai perché suo nonno è una persona importante, una persona di rispetto. Tutti lo conoscono, lo ossequiano e si rivolgono a lui. E anche suo padre e i suoi zii sono così. Solo polizia e carabinieri non li rispettano e ogni tanto sono anche venuti a fare perquisizioni a casa loro. Chissà cosa sospettano.
Ma perché questi pensieri brutti? Pino è adesso in bagno a farsi la barba. Mimmo è appena arrivato e deve aver portato i cornetti appena sfornati. Ne sente il profumo: sicuramente avrà preso anche quelli ripieni di crema al pistacchio che le piacciono tanto.
Un rumore assordante. La porta di casa che si spalanca e poi cade giù trascinandosi appresso lo stipite. La polvere dei calcinacci arriva persino in camera da letto e spuntano quattro, cinque, sei... un esercito di poliziotti con la pistola in mano.
Pino esce dal bagno con la faccia ancora insaponata e il rasoio in mano. Alza appena un po' le braccia: «Fermi, non sono armato. Non ci sono problemi».
Elisa si rannicchia smarrita tra le lenzuola e, dalla porta della camera, vede gli uomini della squadra mobile di Palermo che stringono un paio di manette ai polsi di Giuseppe Guastella detto Pino, uomo d'onore di Resuttana, killer alle dipendenze di Leoluca Bagarella, spietato esecutore materiale di diversi omicidi, tra cui quelli di tre ragazzi con pochi anni più di lei: Marcello, Luigi e Gian Matteo.
Pino Guastella era latitante da due anni e mezzo, ma io avevo cominciato a cercarlo già qualche mese prima, quando il suo nome mi era stato fatto da Tullio Cannella. Fino a quel momento era per noi un perfetto sconosciuto. Uno dei tanti soggetti che a Palermo si occupano di tutto e di niente. Un giorno lo vedevi in un autolavaggio, un'altra volta in un cantiere edile, poi in una società di brokeraggio, in un'agenzia immobiliare, in un'impresa di pompe funebri.
Le scarne dichiarazioni di Tullio, che non conosceva fatti specifici, non mi consentivano di arrestarlo. Ma il personaggio mi sembrava interessante. Dopo la cattura di Bagarella volevo vedere come si muoveva, dove andava, chi incontrava. Nell'estate del 1995, lo avevo fatto pedinare dalla Dia per qualche giorno fino a quando non era sparito dalla circolazione.
A gennaio 1996 Tony Calvaruso mi dice che era il sicario prediletto di don Luchino, ma, a quel punto, Pino Guastella è già irreperibile. Da alcuni mesi.
Nessuno spunto investigativo degno di nota, nessuna fonte anonima, nessuna concreta indicazione dai pochissimi collaboratori che lo conoscevano. Qualcosa, invero, ce l'aveva detta Giovanni Brusca confermandoci la «vicinanza» di Guastella al nonno di Elisa, un uomo d'onore della famiglia di Pagliarelli. Ed era vicino pure ai suoi figli, come risultava anche a noi da altre indagini scaturite dalle dichiarazioni di Giovanni Zerbo.
In mancanza di altro partiamo da lì, ma non è facile. Le investigazioni riguardano persone notoriamente riconducibili ad ambienti mafiosi e consapevoli di essere oggetto delle attenzioni di magistratura e forze di polizia. Persone attente a non farsi seguire, a non parlare per telefono. Le intercettazioni non danno risultati di rilievo e del resto ce lo aspettavamo. Insomma «le indagini procedono a 360 gradi», come usano scrivere i giornalisti quando non c'è proprio nulla di buono.
Ma occorre avere un po' di pazienza, dicevano i miei cacciatori. A maggio del 1998, l'attenzione di un annoiato poliziotto della squadra mobile, stanco di ascoltare mesi di inutili conversazioni private, viene improvvisamente sollecitata da una strana telefonata.
La figlia del tipo che sta intercettando parla a voce bassa con un uomo. Si danno appuntamento «in quel posto», lì dove si sono visti l'altra volta: «Dove c'è... quello?», «No, nell'altro posto, quello vicino a... quella cosa». Perché tutta questa riservatezza? È vero che si tratta di due innamorati ma una simile cautela appare obiettivamente eccessiva. E poi la voce dell'uomo non sembra proprio quella di un fidanzatino poco più che adolescente.
Quella volta non si fa in tempo a seguire la ragazzina, ma al successivo appuntamento i poliziotti della Sezione catturandi le sono dietro. Elisa entra furtiva in un portone di via Roccazzo, vicino all'aeroporto di Boccadifalco. Con la stessa circospezione ne esce dopo un paio d'ore. Il posto però non si presta a un appostamento: la via è delimitata da un muro da un lato e non ci sono anfratti o angoli dove nascondersi. Bisogna ricorrere a una telecamera. Magari la più sofisticata che abbiamo a disposizione. Una di quelle che, collegata a un computer della squadra mobile, ci segnala se il suo obiettivo inquadra un soggetto con le caratteristiche fisiche di Pino Guastella.
Quando, nel pomeriggio di sabato 23 maggio, Elisa era entrata nel palazzo dove si trovava il suo Pino, non aveva notato quel minuscolo apparecchietto nascosto in un palo della luce proprio lì davanti e non poteva certo aver sentito il bip emesso, qualche ora prima, quando Pino era tornato a casa, dal computer installato a un paio di chilometri di distanza, negli uffici della squadra mobile.
Elisa non aveva nemmeno visto tutti quei poliziotti che, durante la notte, avevano pazientemente aspettato di avere un segnale sicuro che in quell'appartamento vi fosse ancora qualcuno e tanto meno i cenni di intesa che si erano scambiati al mattino successivo, quando avevano notato Mimmo, all'anagrafe Domenico Sansone, classe 1957, suonare il citofono e farsi aprire il portone.
La latitanza di Pino Guastella, del feroce killer che aveva ballato sulla schiena di Gian Matteo Sole, mentre i suoi complici tiravano la corda al collo del ragazzo per portargli via l'ultimo respiro, si conclude lì. E lì, forse, si conclude anche la storia d'amore di Elisa. I poliziotti l'accompagnano a casa e la consegnano ai familiari increduli e avviliti per la vergogna. Il suo principe azzurro finisce in carcere, al 41 bis, a scontare l'ergastolo a cui lo farò condannare qualche mese dopo dalla Corte di Assise di Palermo.