I
Terra bruciata

 

L'animale rosola lentamente su una larga griglia d'acciaio. Il grasso cola nella brace e la ravviva con piccoli e ripetuti scoppiettii. Legna di mandorlo stagionato e un paio di piccoli tronchi di eucaliptus, quanto basta per dare alla carne un leggero profumo balsamico, appena sufficiente ad attenuare l'intenso sentore di pecora.

L'animale è un agnellone di una quindicina di chili e lo abbiamo messo a cuocere sotto un «piede» d'ulivo ultracentenario. Sale e basta. Non c'è bisogno di altro. Su un fornello a parte, su una tannura, come la chiamiamo noi, soffrigge la coratella, condita invece con mille aromi: cipolla, rosmarino, salvia, timo, alloro e pepe nero. L'agnellone, quando è castrato, in ogni angolo dell'isola si chiama crasto. E quello è proprio un bel crasto.

«Dolce, dolcissimo» ripetono i miei commensali mentre addentano le costolette bruciacchiate e tenere. È come una litania, un rosario: «Dolce, dolcissimo». Si finisce con il far sera e quindi cena; e il fuoco, pian piano, diventa un soffio che tiene in caldo ciò che ancora è rimasto della bestia.

Le mangiate, in Sicilia, sono un rito cui nessuno vuole sottrarsi. Attorno a esse sopravvivono e si alimentano odi e amori, liti e solidarietà. È la Sicilia. È l'Isola. Quella volta eravamo una decina, tutti amici, tutti rigorosamente maschi. Era il 1986 e avevo ancora i capelli scuri. Le domeniche, i giorni di festa, li passavamo così: grandi scorpacciate collettive allietate da racconti di vecchie e divertenti storie di paese.

Era un'occasione particolare: quell'animale, quel crasto, mi era stato regalato da un cacciatore che avevo difeso e tirato fuori dalle patrie galere. Allora ero un giovane praticante avvocato di Bivona, il mio paese, il paese delle pesche più buone del mondo, terra di confine tra Palermo e Agrigento. Mi ero appena laureato a Milano, all'Università Cattolica, con centodieci e la lode, tesi in Diritto civile.

Mia madre e mio padre, anche loro avvocati. E io cominciavo a muovere i primi passi nel mondo della giustizia partendo proprio dallo studio dei miei genitori.

In quegli anni la legge sulla caccia non esiste ancora e chi è colto in flagrante a cacciare di frodo viene arrestato e processato per direttissima con l'accusa di furto aggravato ai danni dello Stato. Ogni fine settimana c'è sempre un bel gruppetto di bracconieri che finisce in gattabuia.

In breve tempo, e senza volerlo, divento il «loro» avvocato, il difensore dei cacciatori. Studiati vari casi, elaboro una tesi semplicissima: poiché la fattispecie penale del furto punisce chi «si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene», sostengo che lo Stato, pur avendo la proprietà della fauna selvatica, la «cosa mobile» appunto, non ne ha però la detenzione. Quindi non c'è il reato, perché lo Stato non «detiene» il coniglio o la volpe. Una tesi che incontra fortuna e che sarà poi fatta propria dalla stessa Cassazione prima che entrino in vigore le nuove norme sulla caccia.

A quel tempo ho un discreto «giro». Arrivo a difendere fino a cinque, sei cacciatori per ogni weekend. Riesco sempre a farli scarcerare e, soprattutto, quasi sempre a far restituire loro il fucile sequestrato, che è la cosa cui tengono di più. La parcella è di cinquecentomila lire a cliente. Non mi posso lamentare.

Nella terra dei colori forti ma dove, allo stesso tempo, il nero non è mai nero e il bianco non è mai bianco, c'è spazio per inventare, per creare, anche nel campo giudiziario. E l'occasione «ghiotta», per me, avvocato dei cacciatori, arriva con una telefonata dei carabinieri di Cianciana, un paesino a pochi chilometri dal mio.

Sono stati appena arrestati tre guardiacaccia volontari. I carabinieri li accusano di aver cacciato di notte fariannu, cioè usando potenti torce elettriche per abbagliare la selvaggina e poi ucciderla. Cosa assolutamente proibita. Nel portabagagli dell'auto dei tre è stato ritrovato un coniglio morto. Si giustificano dicendo che lo hanno preso di giorno, legittimamente. Ma non vengono creduti.

L'indomani si presentano in aula per il processo per direttissima. Io sono il loro difensore. Durante le questioni preliminari ho una trovata: «Nessuno» sostengo di fronte al giudice «può fissare l'ora esatta della morte del coniglio; per stabilirla, è necessario un esame necroscopico».

Insomma, con evidente meraviglia del vicepretore onorario (che tra l'altro è anche lui un cacciatore, forse anche di frodo), chiedo un'autopsia sulla carcassa dell'animale. Se l'esame stabilirà che il coniglio è stato ucciso di mattina, i miei assistiti saranno scagionati; se invece accerterà che la morte è da collocarsi nelle ore notturne, allora saranno da condannare.

Con mia grande sorpresa, il magistrato dispone l'accertamento tecnico e nomina perito il veterinario del paese, il quale, abituato a curare pecore e vacche, va su tutte le furie. Mi chiama a casa e mi copre di insulti: «Sei una vera testa di minchia!». «Come credi che io possa accertare l'orario della morte di un coniglio?» E ha certamente le sue buone ragioni. Non credo infatti che, tra le materie di medicina veterinaria, ne esista qualcuna che tratti del... rigor mortis della fauna selvatica.

Facciamo, comunque, quell'anomala autopsia e, ovviamente, non si riesce a stabilire il momento della morte dell'animale. E così, in assenza di certezze sull'ora esatta, per me diventa facile ottenere l'assoluzione dei tre guardiacaccia.

È una delle mie prime «lezioni di vita»: capisco quanto siano importanti, anche in campo giudiziario, la fantasia, la creatività... e la rapidità di esecuzione.

Dalle mie esperienze con i cacciatori ho imparato, però, molto altro. Era proprio divertente ascoltare i racconti, sempre un po' esagerati, di quei primi clienti. Mi mettevano a parte dei loro segreti, delle tecniche della caccia, della scelta dei luoghi dove conveniva appostarsi per catturare la selvaggina.

Sostenevano di avere un codice di comportamento e la maggior parte di loro, anche se non ci metterei la mano sul fuoco, lo rispettava. Si imponevano dei limiti, talvolta anche oltre quelli previsti dalla legge. Se in un fucile semiautomatico potevano usufruire di tre colpi, ne sparavano uno soltanto. Questo è il gusto della caccia. O la va o la spacca. Al contrario di chi si apposta in riserva, magari dopo aver pagato un biglietto, e attende che gli liberino la selvaggina; poi punta il fucile e spara. Ma spara solo per uccidere: non è uno sportivo, non è un vero cacciatore.

I miei clienti mi parlavano, ironici e divertiti, dei cacciatori che venivano da Trapani con il cofano delle auto pieno di munizioni e se ne tornavano dopo giornate di caccia con un solo coniglio e un paio di stornelli. Li guardavano quasi compassionevoli, poi uscivano con le loro doppiette e dopo poche ore tornavano con il carniere pieno: allodole, lepri, conigli, pernici.

La differenza era dovuta a un fattore determinante: la conoscenza del territorio. Si muovevano nei boschi con grande padronanza. Conoscevano l'ubicazione di ogni corso d'acqua, di ogni radura, di ogni possibile tana o rifugio. Erano estremamente minuziosi. E sapevano benissimo come reagisce un coniglio o una lepre, come si sposta in determinati orari, in particolari periodi dell'anno o in certe condizioni meteorologiche.

Seguivano le tracce senza scoraggiarsi mai. Pazientemente. Si appostavano per ore nel posto giusto. Attendevano, quasi «odoravano» l'animale.

Mai, mi dicevano, avevano fatto uso di tagliole, lacci o altri strumenti infidi. Tanto, prima o poi, l'animale sarebbe arrivato dove loro lo aspettavano. Non c'era bisogno di fare come i bracconieri senza scrupoli che incendiavano pezzi di bosco per fare terra bruciata intorno alla selvaggina e costringerla così a uscire allo scoperto.

Rispetto delle regole, fiuto, conoscenza del territorio e della preda, pazienza, in certo qual modo lealtà. E improvvisazione e fantasia quando servono: i cacciatori di Bivona e dintorni mi hanno trasmesso le tecniche e la filosofia della caccia.

Sono sempre stato animalista convinto, non mi piace la caccia alle bestiole indifese, ma devo ammettere che quegli anni sono stati per me molto formativi. Da quella gente ho imparato alcuni insegnamenti fondamentali che ho poi utilizzato nel mio lavoro, quando, dopo aver scelto di fare il magistrato, ho cominciato a «cacciare» i latitanti di mafia.

Nella ricerca dei criminali irreperibili, infatti, non si può non tener conto di quei principi, anche se occorre considerare una variabile importante: il fattore umano. Perché, come sosteneva Giovanni Falcone, la mafia, prima di ogni cosa, è un fenomeno umano, e come tale va affrontato: da uomini contro altri uomini.

E di uomini ne ho «presi» tanti, nei miei anni in Sicilia.

Arrivo a Palermo nel 1993, dopo quattro anni passati alla vicina procura della Repubblica di Termini Imerese. L'anno si apre con la cattura di Totò Riina, «capo dei capi» di Cosa nostra, e con l'insediamento al vertice della procura palermitana di Gian Carlo Caselli. Comincia una nuova era nella lotta alla mafia.

Proprio qualche mese dopo l'arresto di Riina, Cosa nostra porta la sua sfida nel cuore dello Stato. Il tritolo mafioso esplode a Firenze, a Roma, a Milano. I corleonesi non si arrendono, anzi, rilanciano. Bisogna fermarli e, per farlo, occorre in primo luogo arrestare i latitanti.

La lista è lunghissima. Sono tutti cosiddetti «pezzi da novanta» e tutti introvabili. Controllano il territorio metro per metro, sono protetti da una rete di centinaia e centinaia di persone, maneggiano armi ed esplosivi. Sono il cuore e l'anima di Cosa nostra.

Scovare i latitanti diventa l'obiettivo numero uno della procura di Caselli: sembra un'impresa ardua, disperata. Nonostante anni e anni di processi e condanne, i capimafia sono quasi tutti liberi. Liberi di ammazzare, di far saltare in aria magistrati, poliziotti e carabinieri, di devastare il patrimonio artistico italiano, di violentare il territorio dello Stato, di imporre il loro dominio assoluto sull'economia siciliana.

Ma il momento è estremamente favorevole. È un momento in cui la società civile, messa a dura prova dalle stragi di Capaci e via d'Amelio, si è finalmente schierata dalla parte giusta. È un momento in cui è rinata «la speranza dei palermitani onesti». È un momento in cui da Roma giungono segnali forti e, finalmente, inequivocabili.

E i risultati arrivano.

Decine e decine di latitanti vengono, come si dice, «assicurati alla giustizia». Cifre da record.

L'elenco dei mafiosi irreperibili che ho contribuito a catturare è piuttosto lungo e pesante. «Capimandamento» come Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Nino Mangano, Pietro Aglieri, Mico Farinella, Nicola Di Trapani, Vito Vitale. Componenti di gruppi di fuoco e responsabili di stragi e decine di omicidi, come Fifetto Cannella, Pino Guastella, Pietro Romeo, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Peppuccio Barranca, Enzo Salvatore Brusca, Giovanni Ciaramitaro. E poi tantissimi influenti «uomini d'onore» come Carlo Greco, Pinuzzu La Mattina, Natale Gambino, Calogero Battista Passalacqua, Bernardo Bommarito, Biagio Montalbano, Paolo Alfano, Melo Zanca, Salvatore Gallina...

Risultati mai più raggiunti dopo. Eppure quegli anni, gli anni della procura di Caselli, vengono malevolmente ricordati solo per i processi ai politici o, peggio, per i cosiddetti «processi politici».

Per me e per gli altri colleghi, invece, quel periodo ha segnato la rivincita delle istituzioni sullo strapotere della mafia. Il momento in cui, dopo tanti anni, lo Stato si riappropriava almeno temporaneamente del suo territorio: Cosa nostra veniva messa in ginocchio e, soprattutto, crollava definitivamente il mito dell'inafferrabilità dei boss. Uno dopo l'altro finivano in manette.

Ogni indagine ha la sua storia. Ci sono investigazioni basate su intercettazioni ambientali, altre su pedinamenti o sofisticate tecnologie. Alcune partono da una soffiata e altre sono invece il frutto di un'idea originale, di un guizzo, di un'intuizione. La cosa fondamentale è capire il modo in cui il latitante si muove, quali sono i suoi legami, i suoi contatti, pensare come lui, entrare nei suoi panni, quasi immedesimarsi.

E per farlo bene è necessario anche saper parlare la sua lingua e quella delle persone che gli stanno vicino. Cogliere le sfumature delle espressioni, collocare ogni frase, ogni parola nel giusto contesto. Il dialetto dell'Isola è spesso subdolo. Per esempio: in certe zone, l'imperativo moviti può significare muoviti ma anche stai fermo, a seconda del tono della voce usato. Oppure ancora: in dialetto non esiste il verbo al futuro. Forse sarà a causa del nostro atavico fatalismo...

Solo un siciliano può capire fino in fondo un altro siciliano, senza interpreti o traduttori. Un mio collega d'origine milanese era sul punto di arrestare per estorsione aggravata il capo di un ufficio tecnico comunale che stavamo intercettando per una storia di licenze edilizie. Ascoltando le registrazioni si era convinto che si trattasse di un collettore del «pizzo», equivocando sulle pressanti richieste di denaro che il funzionario faceva ai commercianti del suo paese. Sono riuscito a fermarlo appena in tempo e ho faticato parecchio per fargli capire che il «suo esattore» era, invece, molto semplicemente, il presidente del comitato per i festeggiamenti in onore di sant'Anna, la patrona locale: stava solo raccogliendo i fondi per luminarie, fuochi d'artificio e cantanti.

Sicuramente è molto più semplice lavorare su un latitante che si sposta in contesti cittadini o comunque popolosi, in cui una faccia nuova desta minore attenzione. Nei paesi, invece, o in certi quartieri di Palermo, tutto è più complicato. Sono luoghi in cui spesso lo Stato non può arrivare. Ci si deve fermare, occorre restare fuori e attendere. Si può solo aspettare una mossa falsa. Sapendo che, comunque, non si passa inosservati.

Il latitante si muove con molta circospezione. Conosce e controlla ogni palmo del «suo» territorio. Gioca in casa.

L'esempio emblematico per me è stata la cattura di Vito Vitale, il boss di Partinico. Difficile, perché Vitale prediligeva i paesi dove investigare diventa particolarmente complicato: il forestiero viene notato immediatamente, la presenza di un estraneo profuma di sbirro.

Sul territorio esistono decine di «sentinelle». Dal vecchio contadino al ragazzino di undici anni, dal barbiere al calzolaio, dal barista al venditore di càlia e simenza: sono tutte vedette, piccole vedette di mafia.

La notizia che c'è uno sconosciuto in giro passa di bocca in bocca in tempo reale. E arriva sempre a chi deve arrivare.

Mille occhi a cui non sfugge niente. Occhi particolarmente attenti a riconoscere lo sbirro, anche se è in borghese, anche se è camuffato. Quando arriva, lo strànio viene immediatamente schedato, registrato e segnalato. E il gioco può diventare pericoloso, perché da cacciatori si rischia di diventare cacciati.

Occorre essere molto prudenti, muoversi poco alla volta e con passi felpati. Non esporsi mai. Lavorare sottovento affinché la preda non senta l'odore del cacciatore.

Anche nei pedinamenti bisogna fare molta attenzione e agire di fantasia: la classica coppietta della polizia, un uomo e una donna che magari fanno finta di baciarsi, viene subito individuata. O peggio ancora due uomini in macchina che sfogliano distrattamente un giornale. L'odore di sbirro lo sentono da lontano. E «loro» non sbagliano quasi mai.

Molti carabinieri in quegli anni, per esempio, sono costretti a uscire in servizio con le loro macchine private, rischiando anche in prima persona. Le autocivetta dell'Arma, le Fiat Uno che hanno in dotazione, infatti, presentano un banalissimo dettaglio che le rende riconoscibili agli occhi dei mafiosi: sono le uniche senza poggiatesta. Forse per abbassare i prezzi di produzione e aggiudicarsi la fornitura, la fabbrica torinese non le ha dotate di questo optional che costava poche migliaia di lire in più e che tutti gli acquirenti normali facevano montare sulla propria autovettura. Tante volte mi sono sentito dire da pentiti e mafiosi: «Dutturi, l'ho visto subito che erano sbirri. Avevano la macchina senza poggiatesta».

Ma il lavoro sottovento deve cominciare ancor prima. Già quando inizi a subodorare la pista.

Gli uomini d'onore hanno occhi e orecchie ovunque. Anche nel palazzo di Giustizia. Giovanni Falcone e Rocco Chinnici, pur lavorando in quella sorta di bunker che era l'ufficio istruzione di Palermo, non si sentivano mai sicuri. Quando avevano qualche notizia importante da comunicarsi, lo facevano in ascensore e con pochissime parole. E, nei miei anni a Palermo, l'atmosfera non è certo diversa.

Basta il susseguirsi di riunioni nella stanza di questo o di quel magistrato per mettere sul chi vive gli avvocati che difendono i mafiosi.

Ogni mossa del pool antimafia viene scrutata, passata ai raggi X. E ritrasmessa ai boss. Da figlio di due avvocati, mi dispiace prendere atto del ruolo che spesso hanno alcuni legali di mafiosi. Ce lo raccontano senza remore due pentiti di rilievo come Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo: in un paio di occasioni erano sfuggiti in extremis all'arresto proprio perché avvertiti dai loro difensori. No, nessuna talpa o fuga di notizie. Agli avvocati era bastato notare carrelli pieni di blocchi di fotocopie che, dall'ufficio del gip al piano terra, venivano portati al secondo piano, in procura. Non potevano che contenere ordinanze di custodia cautelare da eseguire. Per legge ne occorrono quattro copie: una originale, una da consegnare al destinatario, una per il difensore e la quarta per il carcere. Quei carrelli, dunque, sono la prova inequivocabile di un blitz imminente.

Spesso, per evitare buchi nell'acqua, ci siamo fatti consegnare dal gip un solo provvedimento e abbiamo costretto i cancellieri del tribunale ad autenticare le copie in una caserma dei carabinieri o in questura.

Per sottrarci agli sguardi indiscreti ci riunivamo in qualche ristorante o in uffici che altre amministrazioni dello Stato ci mettevano a disposizione. A volte preferivamo addirittura parlare per telefono potendo contare sugli apparecchi «cripto» di cui il ministero dell'Interno ci aveva dotati, a casa e in ufficio.

Era una vera e propria guerra con tanto di spionaggio e controspionaggio e, come si usa dire, «in guerra e in amore tutto è permesso». Per questo anch'io avevo deciso di usare il metodo, poco sportivo ma obiettivamente efficace, dei bracconieri: quello della terra bruciata.

Una strategia che tante volte si è rivelata vincente. Si deve fare il vuoto attorno agli uomini d'onore oggetto delle indagini. Interrompere la loro ragnatela di protezione lasciando i due o tre fili a noi noti e, con la pazienza del ragno, seguire solo quelli.

Tante volte abbiamo messo insieme tutti i dati di cui eravamo in possesso, anche rinunciando a qualche spunto investigativo, al solo fine di eseguire provvedimenti di custodia cautelare che consentissero di neutralizzare alcuni contatti, sicuri o solo probabili, del latitante.

È la stessa cosa che fanno i bracconieri quando bruciano pezzi di bosco per costringere i cinghiali a correre dove sono appostati loro.

L'arresto di Giovanni Brusca, l'esecutore materiale della strage di Capaci, per esempio. Nei mesi precedenti la sua cattura gli abbiamo praticamente «bruciato» tutti gli appoggi. È stato costretto a correre ad Agrigento perché ormai non aveva più protezioni: non aveva più nessuno su cui contare in casa sua a San Giuseppe Jato. Nessuno ad Altofonte, nessuno a Borgetto, nessuno a San Cipirello.

I boss non lasciano quasi mai il loro territorio: «La presenza è potenza» soleva dire Bagarella. Brusca si è allontanato solo perché gli abbiamo «tagliato i fili».

Lo stesso è accaduto, per esempio, nel 1997 quando ci siamo trovati davanti al caso di alcuni collaboratori di giustizia che avevano ripreso a delinquere, vicenda passata alla cronaca come «il ritorno dei pentiti».

C'era il forte sospetto che Balduccio Di Maggio, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, tre fra i più preziosi collaboratori di giustizia, mentre erano sottoposti al programma di protezione si fossero resi responsabili di alcuni delitti nel mandamento di San Giuseppe Jato.

Non sapevamo che pesci pigliare. Non volevamo credere alla possibilità che i tre avessero commesso addirittura degli omicidi. Ma d'altro canto l'ipotesi investigativa sembrava fondata. Così come ugualmente fondata ci sembrava la possibilità che dietro questa storia ci fosse lo zampino di Giovanni Brusca che, finito in carcere, intendeva delegittimare quei pentiti.

Nel dubbio procediamo con l'operazione «terra bruciata». Arrestiamo contemporaneamente tutti i soggetti che riteniamo vicini ai tre collaboratori e a Brusca, e per i quali, ovviamente, abbiamo elementi di prova sufficienti. Così cerchiamo di isolare i due presunti gruppi contendenti.

L'operazione va a buon fine. Persi i loro contatti sul territorio, i tre sono costretti a venire allo scoperto. Le microspie collocate nelle macchine di La Barbera e Di Maggio iniziano a registrare conversazioni interessanti. Di Matteo si sposta in continuazione dalla località protetta e uno dei fermati, tale Giuseppe Maniscalco, comincia subito a collaborare: ci rivela come i tre, approfittando dell'arresto di Brusca, avessero, di fatto, cercato di riprendere il controllo del mandamento di San Giuseppe Jato.

Ho utilizzato spesso la tattica della «terra bruciata». Tutte le volte che i metodi tradizionali non davano i risultati sperati. Era la mia ultima carta e la giocavo solo quando era indispensabile, perché estremamente dispendiosa. Per arrestare le persone che giravano intorno all'oggetto delle indagini bisognava tirare fuori le prove già raccolte, rivelare l'esistenza di intercettazioni telefoniche o ambientali, buttare alle ortiche mesi di pedinamenti. E tutto solo per togliere dalla circolazione qualche personaggio apparentemente minore.

Se la strategia falliva si doveva ricominciare tutto da capo. Come nel caso delle ricerche di Nino Giuffrè, capomandamento di Caccamo dove abbiamo «tagliato» i fili sbagliati e abbiamo fallito. Tante altre volte, però, l'esito è stato positivo. Questo sistema ci ha permesso di arrestare molti latitanti e di interrompere lunghe catene di morte.

Come è successo, per esempio, nel caso della faida di Misilmeri.

Non dovrei essere molto orgoglioso di questa indagine che ho condotto applicando in maniera scientifica e pressoché perfetta il metodo sleale dei bracconieri, ma i risultati sono stati eccezionali.

Da diversi anni non si riusciva a comprendere cosa stesse accadendo in quel territorio compreso tra Misilmeri, Marineo e Belmonte Mezzagno, a una quindicina di chilometri da Palermo. Morti ammazzati, persone scomparse nel nulla, intere famiglie decimate. E nessun colpevole.

Decido di giocare il tutto per tutto. Ottengo un provvedimento di custodia cautelare a carico dei soggetti legati a un certo gruppo mafioso e, di proposito, ne lascio libero solo uno: Cosimo Lo Forte, ventotto anni, figlio adottivo di un uomo d'onore di Misilmeri inghiottito dalla lupara bianca due anni prima.

Nel frattempo Michele Facciorusso, il bravissimo capitano dei carabinieri della compagnia di Misilmeri, tiene il giovanotto sotto controllo.

Ma faccio ancora di peggio. Nel provvedimento di custodia cautelare inserisco indiscrezioni, mezze parole, allusioni da cui si poteva dedurre che la sorte di Cosimo era segnata.

Appena quattro giorni dopo Lo Forte abbocca: si presenta spontaneamente dal capitano dei carabinieri e poi nel mio ufficio. Ha paura, non ha più amici liberi, nessuno che lo protegga. Gli ho fatto terra bruciata intorno: ha capito che la prossima vittima non può che essere lui. Così decide di collaborare. Durante il suo primo interrogatorio mi indica il posto dove è nascosto l'arsenale della cosca. Sospendo brevemente il verbale, mando Michele Facciorusso a fare il sopralluogo e continuo a interrogare il «picciotto» che mi racconta le dinamiche che avevano determinato quella lunga serie di morti ammazzati a Misilmeri e dintorni. Dopo poco più di un'ora Michele mi chiama al telefono: «L'ho trovato. È incredibile! Devi venire a vedere».

I carabinieri di Misilmeri avevano scoperto decine e decine di fucili, pistole, mitragliette e kalashnikov, sepolti in una serra abbandonata. Migliaia di proiettili, alcuni chili di tritolo, esplosivo da cava, nitrato d'ammonio, bombe a mano, granate anticarro, un lanciarazzi con decine di munizioni e cariche supplementari di lancio e perfino un lanciamissili Rpg 18 di produzione sovietica.

La stessa sera, grazie alle dichiarazioni di Cosimo Lo Forte, eseguiamo una dozzina di fermi e, da quel momento e per almeno un paio d'anni, nessun cronista di «nera» si è più dovuto occupare di quella zona. Temporaneamente pacificata.

Ma perché le indagini diano i frutti sperati è fondamentale che «i cacciatori» vadano tutti nella stessa direzione, che non si sovrappongano, che non si intralcino a vicenda.

L'idea vincente di Gian Carlo Caselli è stata quella di individuare un pool di sostituti per ogni mandamento mafioso e, soprattutto, uno o due magistrati quali esclusivi titolari delle ricerche di ciascun latitante, cosicché ogni notizia che riguardasse quel territorio o il ricercato di turno finisse sempre alle stesse persone.

Era il famoso coordinamento investigativo che, almeno in quegli anni, ha funzionato benissimo. Riunioni periodiche con le forze di polizia «obbligate» a rivelare le loro informazioni su questo o quel latitante; investigatori che venivano fermati perché la loro pista era già stata imboccata da altri colleghi; divisione dei compiti tra poliziotti, carabinieri e finanzieri; nessuna inutile sovrapposizione di indagini.

Certo, ogni tanto qualche problema si verificava ugualmente. È successo proprio a me di autorizzare i carabinieri del Ros a collocare una microspia in un garage in cui ne avevo già fatta piazzare un'altra su richiesta dei loro stessi colleghi del comando provinciale. Eravamo sulle tracce di Pietro Aglieri e il Ros, che si muoveva sulla base di informazioni confidenziali, aveva individuato un magazzino nel quartiere della Guadagna come possibile luogo d'incontro dei favoreggiatori del capomandamento di Santa Maria di Gesù. Mi avevano dato l'indirizzo e il nome dell'affittuario dell'immobile, un presunto uomo d'onore della locale «famiglia» mafiosa. Il garage aveva però un altro ingresso da una via limitrofa, via che mi avevano segnalato i carabinieri del comando provinciale insieme, stavolta, al nome del proprietario. Così non mi ero reso conto che si trattava dello stesso magazzino: erano diversi sia la via sia il nome di colui che ne avrebbe avuto la disponibilità. Ci siamo accorti dell'errore solo a operazione conclusa, quando i carabinieri per poco non si sparavano tra loro al momento di recuperare le rispettive microspie.

Le microspie, le «cimici», sono le nostre orecchie sul territorio, strumenti indispensabili per ogni investigazione. Ma occorre saperle usare. Saper scegliere il posto dove collocarle e, soprattutto, il modo in cui farlo.

Se l'operazione è relativamente facile quando si tratta di una masseria o di un garage in disuso, le cose si complicano quando bisogna entrare nelle abitazioni private. Non è certo una questione di serrature. Non ne esistono di impossibili. I cosiddetti «chiavari» dei servizi segreti sono in grado di entrare dappertutto e aprono ogni porta senza lasciare tracce. Il problema sorge quando gli inquilini escono poco di casa. Allora bisogna ricorrere a qualche stratagemma che non dia sospetto.

Inutile simulare tentativi di furto o effettuare una perquisizione per collocare una cimice. Altrettanto inefficaci con il passar del tempo sono diventati i falsi tecnici della luce o del gas che si presentano per riparare presunti guasti alla rete. Dopo la «visita» gli abitanti, ormai esperti, effettuano un'accurata bonifica e regolarmente individuano la microspia. Sono arrivati perfino a prenderci in giro. Com'è accaduto qualche volta di fronte alle telecamere disseminate nelle campagne di mezza Sicilia. Una di queste, piazzata male per le vie di Marineo, a pochi chilometri da Corleone, non era stata mimetizzata bene ed era diventata il divertimento dei paesani. Passavano davanti all'obiettivo e salutavano con un inchino: «Buongiorno maresciallo, qui tutto a posto! Omaggi alla sua signora!».

Ci si industria come si può. Si ricorre ad altri metodi per tirare la gente fuori di casa e avere il tempo di lavorare senza il rischio di essere scoperti. Perché non è facile collocare una microspia o una telecamera. Non basta soltanto aprire una porta. Bisogna stabilire in pochi secondi il luogo migliore in cui nasconderla, tenendo conto di alcune variabili: rumori di fondo e interferenze radioelettriche degli elettrodomestici.

I mafiosi sono particolarmente attenti. Mi ricordo di un colloquio intercettato negli uffici della Dia, la Direzione investigativa antimafia, tra un neopentito e i suoi familiari. Non fu possibile comprendere quasi nulla perché i parenti del collaboratore si erano appositamente portati appresso una bambina che aveva un preciso compito: battere fragorosamente su un tamburo di plastica per tutta la durata della conversazione.

Bisogna anche trovare un posto da cui la cimice possa trasmettere le voci all'esterno. Talvolta non è possibile collegarla alla linea telefonica o installarne una ad hoc e allora è necessario utilizzare apparecchi radio con i conseguenti problemi determinati dalla durata delle batterie, dal rischio di interferenze e dalla necessità di collocare dei ripetitori del segnale.

È materiale sofisticato, che costa parecchio. Alcune forze di polizia avevano acquistato delle microspie, ma gli investimenti non si erano rivelati particolarmente oculati. Si tratta di tecnologia in costante evoluzione e, quindi, dopo un po' ci si ritrova con strumenti obsoleti e non sempre affidabili.

Io preferivo noleggiare le apparecchiature rivolgendomi a fornitori privati. Dopo una mirata indagine di mercato sul rapporto qualità-prezzo ne avevo individuato uno di cui mi fidavo e con il quale avevo stipulato verbalmente un accordo: tu mi fornisci la tecnologia più avanzata, gli ultimissimi modelli, e mi dai, in tempo reale, l'assistenza necessaria. Se riusciamo a catturare il latitante, ti liquido le fatture per intero. In caso contrario, ti pago solo il venti per cento. In fondo un piccolo prezzo alla lotta alla mafia dobbiamo pagarlo tutti. Lui capisce e accetta. Si sente motivato. E lo dimostrerà fornendoci sempre materiale d'avanguardia e rendendosi disponibile per ogni esigenza.

Mentre siamo in piena fibrillazione nella ricerca di Pietro Aglieri, una microspia smette di funzionare a causa di un blackout sul ponte radio. Sono giorni di scioperi selvaggi nei trasporti aerei. Non si vola. Quella cimice è decisiva: il fornitore noleggia a sue spese un aereo privato da Milano e due ore dopo è a Palermo a riparare il guasto.

La tecnologia di cui potevamo disporre già in quegli anni ci ha dato una marcia in più. È stata un'arma spesso decisiva per contrastare Cosa nostra e a Palermo siamo stati dei veri pionieri nell'applicarla alle investigazioni. Già a partire dal 1997 avevamo telecamere piazzate a centinaia di chilometri di distanza che riuscivamo a manovrare direttamente dalla questura; computer che ci permettevano di archiviare l'algoritmo del volto del latitante e che poi segnalavano se una persona con quelle caratteristiche entrava nell'obiettivo di una videocamera; localizzatori satellitari con margini d'errore minimi; microspie autoalimentate talmente piccole ed efficienti da poter essere nascoste nell'interruttore di un abat-jour; sofisticati software di elaborazione del traffico telefonico... Abbiamo persino sperimentato un piccolo aeromodello riproducente un Md 80 dell'Alitalia che volava a qualche centinaio di metri dal suolo effettuando riprese video e che, dal basso, sembrava un vero e proprio jet della nostra compagnia di bandiera che viaggiava a 8000 metri di quota.

Obiettivamente avevamo a disposizione strumenti di gran lunga migliori dei fucili e dei richiami dei miei cacciatori. E mi divertivo a utilizzarli. Mi ero specializzato nella caccia ai latitanti e per questo condividevo con Gian Carlo Caselli un piccolo, innocuo segreto.

Avevo cominciato quasi per gioco nel 1994, scrivendo all'interno della copertina dell'agenda del mio capo l'elenco dei latitanti più pericolosi su cui stava lavorando la procura di Palermo. Da allora all'inizio di ogni nuovo anno ripetevo l'operazione, aggiornando periodicamente la lista dei ricercati.

Dopo ogni cattura entravo nella sua stanza, chiudevo la porta, mi sedevo e, con calma, gli consegnavo un foglietto in cui erano riportate le indicazioni sommarie sulla personalità e il profilo criminale del latitante e sulle operazioni che avevano portato all'arresto, dati necessari a Caselli per l'inevitabile conferenza stampa.

Gian Carlo leggeva attentamente il mio appunto e poi apriva la sua agenda. Lentamente, come fosse un rito. Sorrideva e quindi, senza nascondere la sua soddisfazione, depennava dalla lista il nome dell'arrestato di turno. Con un segno netto di inchiostro verde. Tratto inconfondibile della sua stilografica.