XIII
L'altare del boss

 

Un capomafia latitante e un po' filosofo, un carmelitano scalzo, un rampollo della Palermo bene e, persino, un venditore di ricci di mare. Questa storia comincia nella lontana estate del 1985.

Una folla immensa si è radunata nella chiesa di Santa Teresa. Uomini, donne, bambini, vecchi e giovani. Soprattutto giovani. Sono partiti dal quartiere dello Sperone, sul lungomare di Palermo. Hanno attraversato mezza città, portando a spalla una grande bara bianca. Si celebrano i funerali di Salvatore Marino, venticinque anni, calciatore dilettante, mediano di spinta del Pro Bagheria, morto negli uffici della squadra mobile al termine di un interrogatorio molto duro.

C'erano forti sospetti che Marino avesse partecipato all'omicidio del commissario Beppe Montana, ucciso pochi giorni prima, il 28 luglio di quel 1985, all'interno della rimessa navale di Porticello, nei pressi di Palermo. Il poliziotto, sbirro di assoluto talento nella ricerca dei latitanti in un'epoca pretecnologica, rientrava da una gita in barca con la fidanzata e sul molo aveva trovato ad aspettarlo un commando che non gli aveva lasciato nemmeno il tempo di capire, di reagire.

Poliziotti e carabinieri erano convinti che Marino fosse coinvolto nell'agguato. Qualcuno aveva infatti segnalato la presenza di una Peugeot 205 sul luogo dell'omicidio. Quell'auto sarebbe stata utilizzata dai killer per darsi alla fuga e risultava intestata alla famiglia Marino. Il giovane calciatore, sapendo di essere ricercato, si era presentato in questura il giorno dopo accompagnato dal suo avvocato. Lo avevano fermato e interrogato a lungo con metodi da «polizia segreta». E per farlo parlare giù botte da orbi; e poi acqua e sale ficcati in gola con un imbuto fino a quando il suo cuore non aveva cessato di battere. La morte in questura e la successiva messinscena del cadavere abbandonato dagli stessi poliziotti su una spiaggia fanno salire la tensione nei quartieri popolari. Il fatto suscita, ovviamente, grande scalpore nell'opinione pubblica.

La bara bianca si ferma nella chiesa della Kalsa, la Àusa, il quartiere moresco della città. Qui sono nati Giovarmi Falcone e Paolo Borsellino. E qui è nato anche Salvatore Marino.

La folla adesso vuole giustizia, vuole vendetta. Il feretro, su cui qualcuno ha appoggiato una maglia da calcio con il numero quattro, è su un trespolo davanti all'altare.

Un frate dei carmelitani scalzi celebra il rito funebre. È don Mario Frittitta. Con voce ferma e tonante legge un brano tratto dall'Antico Testamento, dal libro della Sapienza: «L'uomo onesto, anche se muore giovane, ha una sorte felice. Chi si rende gradito a Dio, da lui è amato e, se vive in mezzo a gente cattiva, Dio lo prende e lo fa vivere altrove. La sua esistenza piace al Signore che lo toglie in fretta da un ambiente malvagio. L'uomo onesto che muore è condanna per i cattivi che restano in vita».

È morto un «giovane onesto» e i «cattivi sbirri» che l'hanno ammazzato sono ancora vivi. Ineccepibile: il barbaro omicidio in questura di Salvatore Marino non ha nessuna giustificazione e non può nemmeno trovare attenuanti nel fatto che il centrocampista del Pro Bagheria era stato effettivamente il basista degli assassini del commissario Montana. Lo racconterà giusto a me, tanti anni dopo, Emanuele Di Filippo, che con il giovane calciatore aveva partecipato ad altri omicidi.

Nulla può legittimare le ignobili torture subite da Marino, nemmeno il fatto che poliziotti e carabinieri da qualche anno vedevano i loro colleghi cadere come mosche per ignota mano mafiosa. Uno dietro l'altro: Boris Giuliano, Lenin Mancuso, Emanuele Basile, Vito Jevolella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Domenico Russo, Calogero Zucchetto, Mario D'Aleo, Pietro Morici, Giuseppe Bommarito, Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e, adesso, Beppe Montana. Nulla può giustificare quella morte assurda, indegna di un Paese civile.

Forse, però, qualche citazione del Vangelo e qualche parola sul perdono da quel pulpito avrebbero aiutato a rasserenare gli animi, a gettare acqua sull'incendio che stava divampando in alcune borgate di Palermo.

Ma la folla che applaude e interrompe in continuazione l'omelia del carmelitano scalzo non gradirebbe. E allora avanti con l'Antico Testamento, con il libro della Sapienza, con i «cattivi - poliziotti - che restano in vita». «Essi diventeranno un cadavere spregevole: tra i morti saranno sempre oggetto di scherno. Perché Dio li schianterà dalle fondamenta. Li butterà giù a capofitto e non potranno dire una parola. Sarà un disastro per sempre: si troveranno in mezzo ai dolori e nessuno si ricorderà di loro.»

La folla vuole giustizia, vuole vendetta. Vuole che il Signore degli Eserciti castighi i suoi nemici: «La sua spada divorerà, si sazierà e si ubriacherà del loro sangue» ricorda qualcuno citando a memoria il profeta Geremia.

E la spada di Jahvè non tarderà ad abbattersi su Palermo. Due giorni dopo il Signore, Dio della vendetta, si porterà via la vita di Ninni Cassarà, lo sbirro che dirigeva la Sezione antimafia della squadra mobile, ucciso a colpi di kalashnikov sotto gli occhi della moglie. Con lui morirà un altro sbirro, un poliziotto umbro di ventitré anni, Roberto Antiochia, che era tornato dalle ferie per scortare il suo capo. Senza riuscirci però: un altro giovane che muore, forse meno onesto di Salvatore Marino visto che ai suoi funerali nessuno invoca la spada fiammeggiante del Signore sui «cattivi» che gli hanno tolto la vita.

 

Sono passati più di undici anni e il carmelitano ha solo qualche capello in meno e si è un po' appesantito. Arriva in piazza Kalsa che è già buio. Solleva appena il suo saio e scende da una piccola utilitaria. Un rapido cenno di saluto al conducente della macchina e, da una porticina laterale, accede al convento di Santa Teresa.

La piazza è quasi deserta. Non si vedono in giro i soliti sigarettai e venditori di frattaglie bollite, 'a quarume, come le chiamano a Palermo.

Al di là della porta dei Greci, sotto le stupende mura arabe della città, due lampadine da 200 watt illuminano la bancarella del venditore di ricci di mare.

Un occhio attento potrebbe accorgersi che quelle luci si attenuano appena, quando nel semaforo all'angolo si accendono contemporaneamente il giallo e il verde: la corrente arriva da lì, infatti, proprio da quel semaforo.

E l'occhio dei due poliziotti in borghese che si sono fermati a mangiare «ricci c'a muddica 'i pani» è certamente attento, ma non è interessato ad accertare quell'abusiva appropriazione di energia elettrica.

A Palermo ci sono cose più importanti di cui occuparsi e poi hanno altro per la testa in quel momento. Sono lì per quel prete e per l'uomo che lo ha accompagnato in macchina: Gioacchino Corso, detto Ino, ventinove anni, rampollo di una famiglia di imprenditori palermitani.

Da qualche mese, ormai, lo stiamo pedinando, discretamente, molto discretamente. Abbiamo ragione di pensare che Corso sia in contatto con Pietro Aglieri, capomandamento di Santa Maria di Gesù, latitante da diversi anni. E non ci stupiamo più di tanto quando scopriamo il rapporto tra il giovanotto e il prete della Kalsa.

Aglieri, infatti, non proviene da una famiglia di tradizioni mafiose. Ha studiato teologia in seminario e vanta persino una zia suora. Lo chiamano 'U signurinu per il suo modo ricercato di vestire, di presentarsi e di parlare. Ha addirittura un passato quasi da sbirro avendo fatto il paracadutista nella brigata Folgore. E proprio folgorante era stata la sua carriera criminale.

Aveva meno di trent'anni quando, per gli indubbi «meriti» conquistati sul campo, era giunto al vertice di un mandamento importante nella geografia delle cosche palermitane, quello di Santa Maria di Gesù che era stato di Stefano Bontade, del «principe», del vero capo di Cosa nostra, ucciso dai picciotti di Salvatore Riina mentre era a bordo della sua Giulietta fuoriserie costruita apposta per lui dall'Alfa Romeo.

Adesso, che di anni ne ha trentasette, 'U signurinu è considerato il numero due di tutta l'associazione mafiosa. Di lui sappiamo pochissimo, ma il suo personaggio cresce giorno dopo giorno anche grazie ai media che favoleggiano del suo potere e delle sue ricchezze. Si guadagna perfino la copertina della rivista inglese «The Guardian» che, provocatoriamente, lo definisce l'italiano più famoso all'estero.

Dopo la collaborazione di Francesco Marino Mannoia, nel 1989, Pietro Aglieri aveva ricostituito il suo mandamento e lo aveva fatto bene, senza nessuna ulteriore dissociazione o cedimento. I suoi uomini di punta erano tutti liberi: il sottocapo Carlo Greco, il capo «decina» Giuseppe La Mattina, il consigliere Natale Gambino. Liberi e introvabili.

Aglieri è l'allievo prediletto di Bernardo Provenzano. Come si dice in Sicilia, sta nel suo cuore di mezzo. In quel momento svolge anche un delicatissimo lavoro diplomatico per conto di 'U zu Binu. Sta, in pratica, cercando di riallacciare i rapporti con gli scappati, i vecchi mafiosi costretti a lasciare Palermo all'inizio degli anni Ottanta per sopravvivere alla carneficina organizzata dai corleonesi, nella quale un giovanissimo Aglieri aveva pur avuto un ruolo di primo piano. Uomini d'onore che avevano ancora rapporti importanti nel mondo politico, economico e criminale e che potevano portare Cosa nostra a ristabilire le relazioni con i loro «cugini» americani e con alcuni clan di 'Ndrangheta e Camorra che non avevano gradito lo strapotere degli uomini di Salvatore Riina. Relazioni indispensabili per isolare gli stragisti, per completare l'opera di pacificazione del sodalizio mafioso provato da quindici anni di guerre intestine e tradimenti.

Il momento è particolarmente propizio: Riina, Bagarella, Graviano e Brusca sono in carcere; i loro arsenali sono stati individuati e sequestrati; i loro uomini sono stati decimati da una serie di collaboratori di giustizia e dalle nostre indagini; Matteo Messina Denaro si è rintanato nel suo territorio, e deve fare i conti con i suoi uomini che hanno deciso di tradire Cosa nostra e passare dalla parte dello Stato. A cominciare da Vincenzo Sinacori, il suo braccio destro.

Provenzano e Aglieri no. I loro uomini sono liberi e non ci sono «infami pentiti» che possano fornirci «la dritta» giusta per catturarli.

Lo stesso Giovanni Brusca non ha indicazioni dirette su di loro, li ha incontrati raramente e non sa come si muovono. La sua collaborazione con la giustizia non li spaventa.

In realtà si sbagliano. Sottovalutano il fiuto di animale del boss di San Giuseppe Jato e la sua straordinaria capacità di cogliere, anche da un dettaglio secondario, dinamiche e sviluppi dell'organizzazione, di effettuare collegamenti, di intuire relazioni interpersonali.

Brusca è furbo e si era premunito. Aveva capito che, dopo la cattura di Bagarella, rischiava di rimanere isolato, forse anche di essere ucciso. E allora, «per non sapere né leggere né scrivere», aveva cercato informazioni sui suoi «nemici» e, da collaboratore, ce le aveva girate.

«Michele Traina ha sentito fare alcuni discorsi da persone di Villagrazia e abbiamo capito che un certo Luigi Cuccia ha messo a disposizione di Carlo Greco una casa di campagna a Termini Imerese che dovrebbe essere di proprietà di un suo zio. Lì Carlo Greco fa gli appuntamenti. Se riuscite a seguirlo potreste arrestare anche Pietro Aglieri.»

L'idea del boss di San Giuseppe Jato non ci sembra malvagia. Del resto Carlo Greco, affettuosamente chiamato Carruzzu, Carluccio, latitante pure lui da alcuni anni, è in condizioni quasi di parità con Aglieri, tanto che, pur senza diritto di voto, partecipava con lui alle riunioni della Commissione di Cosa nostra, della Cupola, come la chiamano i giornali.

Se l'indicazione di Brusca sulla casa di Termini è corretta, stavolta potremmo essere noi a prendere due piccioni con una fava.

I ragazzi della squadra mobile non ci mettono molto a trovare la costruzione, una villetta ancora allo stato rustico in contrada Franco, tra Termini Imerese e Sciara. La imbottiscono di microspie e telecamere: dentro e fuori.

Dopo un paio di settimane, a fine giugno del 1996, l'indagine per la ricerca di Carlo Greco è praticamente chiusa. I nostri «sensi» elettronici registrano l'immagine e la voce di Carruzzu che, nella villetta, incontra i suoi uomini e parla di mafia, di pentiti, di pizzo. Come programmato, decidiamo di non bloccarlo immediatamente nella speranza che ci conduca al suo amico, a Pietro Aglieri.

Greco non ci può più scappare. Seguendolo abbiamo già individuato l'elegante residence dove abita e la casa di campagna dove trascorre i weekend con la famiglia. Per non perderlo mai di vista prendiamo in affitto un appartamento nello stesso complesso edilizio dove vive con moglie e figli e dove si trasferiscono due sposini con le facce ingenue e sorridenti. Aspettano che il loro nido d'amore sia pronto e, nell'attesa, si sono temporaneamente sistemati in quel residence. Ovviamente si tratta di una coppia di poliziotti che stanno lì a scrutare ogni mossa del braccio destro di Aglieri.

Sappiamo quali macchine usa, abbiamo individuato tutti i soggetti che incontra e che ne tutelano la latitanza; monitoriamo in tutta tranquillità il posto dove fissa gli appuntamenti con i suoi.

Decidiamo di rischiare, di ritardarne la cattura in attesa che si incontri con 'U signurinu e, così, prenderli tutti e due. Del resto Carlo Greco conduce un'esistenza quasi normale. È l'estate del 1996 e si comporta come un tranquillo impiegato in ferie. Non si fa mancare nulla: dalle grigliate a base di crasto, al bagno in un noto villaggio a Campofelice di Roccella.

La vita di Carruzzu, però, a parte le frequenti riunioni con i suoi uomini nelle campagne di Termini Imerese, è fin troppo normale. Si è così ben calato nel ruolo vacanziero che, nei primi giorni di luglio, dalle intercettazioni emerge che ha pure noleggiato un camper e si appresta a partire con i suoi familiari per un giro nelle città d'arte italiane. D'altra parte è nota la passione degli uomini di Cosa nostra per musei e chiese: o ci portano le famiglie in visita artistica oppure li fanno saltare in aria, come era avvenuto nel 1993. Carruzzu ha una patente di guida clonata e si sente assolutamente tranquillo. Per noi, però, la misura è colma. Va bene la villeggiatura, va bene il bagno sotto gli occhi dei nostri agenti, ma il viaggio proprio no. Non va bene per niente.

A questo punto non possiamo più rischiare e dobbiamo chiudere l'indagine. Non possiamo certo metterci a seguirlo per chiese, piazze, musei e aree attrezzate per camperisti lungo tutta la penisola. Né possiamo sfidare eccessivamente la sorte sperando che, al suo ritorno, mantenga i medesimi contatti che noi già conosciamo.

Giovedì 25 luglio Carlo Greco è al mare. Rilassato si allontana dalla spiaggia di Campofelice con un pedalò, assieme al figlioletto. È tranquillo e amorevole con il bambino. Accanto, su un altro pedalò, ci sono due belle ragazze in bikini che prendono il sole e, ogni tanto, parlano al cellulare.

Non stanno chiamando i fidanzati lontani ma i loro colleghi che si trovano sulla spiaggia. Con le Beretta 92 d'ordinanza nascoste sotto gli asciugamani, stanno aspettando che Carruzzu torni a terra.

Il sottocapo di Santa Maria di Gesù ha appena il tempo di tirare a riva il pedalò che si vede circondato da un nugolo di uomini armati. Non c'è bisogno di dire nulla e nulla dice. Si consegna, senza reagire, ai poliziotti della mobile.

Carlo Greco è stato assicurato alla giustizia ma abbiamo perso un'importante pista per giungere ad Aglieri. Ovviamente facciamo un po' di terra bruciata attorno al Signurinu e arrestiamo tutti quelli che, in qualche modo, avevano consapevolmente favorito la latitanza del suo uomo più fidato: i proprietari della casa dove Greco abitava, i gestori del villaggio turistico dove si recava, il tizio che gli aveva fornito la patente. Successivamente prenderemo anche tutti quelli che partecipavano alle riunioni con Carruzzu nella villetta di Termini Imerese dove avevamo lasciato attive microspie e telecamere nella speranza di acquisire qualche altro spunto investigativo.

Dopo la cattura, però, nessuno si reca più in quella casa e, dunque, occorre ripartire da zero nella ricerca di Aglieri.

Giovanni Brusca ci dà di nuovo una mano, ma questa volta si limita a fornirci poco più di una sua intuizione.

«Tempo fa Provenzano ha raccomandato a Bagarella un certo Ino Corso per un palazzo che questi e i suoi familiari dovevano costruire nella zona della Noce. Da quanto abbiamo capito era una cosa che non interessava direttamente a 'U zu Binu ma doveva avergliela girata qualche altro capomandamento. Ora, tranne Nino Giuffrè e Pietro Aglieri, con i quali Bagarella non aveva buoni rapporti, tutti i capi e i reggenti quando avevano bisogno di qualcosa da don Luchino si rivolgevano direttamente a lui, per cui Corso doveva interessare a uno tra questi due. Siccome Corso è di Palermo e Nino Giuffrè è il capomandamento di Caccamo, sono certo che sia stato Aglieri a raccomandarlo a Provenzano perché lo segnalasse a Bagarella. Poiché» ipotizza ancora Giovanni Brusca «'U signurinu si sarebbe fatto tagliare una mano pur di non dovere un favore a Bagarella, devo dedurre che, per sfacciarsi con lui, la cosa gli interessasse particolarmente. Dunque Ino Corso deve essere uno veramente vicino ad Aglieri.»

Un ragionamento estremamente cervellotico, contorto, fumoso, pieno di incognite e, apparentemente, debolissimo. Questi erano però i percorsi, più o meno logici, che ispiravano le riflessioni dei mafiosi, riflessioni che, qualche volta, costavano la vita a chi aveva la sventura di finire coinvolto in quelle elucubrazioni.

Giovanni Brusca sembra sicurissimo. In realtà penso - e ritengo di non essermi sbagliato - che, dopo aver fatto quella ricostruzione quasi incomprensibile per una persona normale, il boss di San Giuseppe Jato avesse cercato conferme della sua intuizione e le avesse ricevute da qualcuno vicino ad Aglieri del quale, adesso, non voleva rivelare il nome per evitare di metterlo in difficoltà.

In mancanza d'altro decidiamo di provare. A fine agosto, mettiamo sotto controllo i telefoni di Ino Corso e riusciamo a collocare alcune microspie all'interno della Palermo Auto, una concessionaria di automobili che gestisce insieme al fratello in viale della Regione Siciliana.

Si capisce subito che il ragazzo è tutt'altro che estraneo agli ambienti di Cosa nostra. Ogni tanto racconta qualche vecchia storia di mafia, formula riflessioni sulle attuali dinamiche dell'organizzazione, esprime critiche sugli stragisti corleonesi. Nulla, però, su Aglieri, nemmeno un cenno alla sua latitanza.

Anche quei pochi pedinamenti che i ragazzi della mobile riescono a effettuare non danno alcun risultato. In quel periodo Corso si muove nel suo ambiente familiare e lavorativo, non incontra alcuna persona interessante per la nostra investigazione. L'unico fatto un po' particolare è il rapporto con quel prete, il carmelitano scalzo del convento di Santa Teresa. I due fissano, telefonicamente e con estrema prudenza, un paio di appuntamenti. Prudenza eccessiva per non trattarsi di qualcosa di estremamente delicato, come si convincono, non a torto, i poliziotti che stanno battendo questa pista.

Proviamo a seguirlo ma in concreto riusciamo ad agganciarlo soltanto quella sera, quando Ino riaccompagna don Mario in convento.

L'indagine procede stancamente. Stiamo spendendo un sacco di soldi in intercettazioni ambientali e telefoniche. Piovono anche interrogazioni parlamentari che ci chiedono conto e ragione del numero di telefoni che abbiamo sotto controllo e dei costi delle apparecchiature utilizzate.

Pensiamo che sia tutto inutile, che Giovanni Brusca abbia capito male. In fondo in mano abbiamo soltanto Ino Corso e don Mario Frittitta, questo strano religioso che sembra avere un rapporto privilegiato con il ragazzo.

È vero che occorre pazienza ma stavolta la pista ci sembra troppo flebile tanto che, a un certo punto, pensiamo di mollarla.

Il 14 novembre 1996, però, accade qualcosa di nuovo. Un capitano dei carabinieri si presenta nel mio ufficio e mi dice che c'è un tipo di Brancaccio che vorrebbe incontrarmi perché ha notizie che vuole dare solo a me. Il suo fiuto da sbirro gli dice che l'uomo potrebbe esserci effettivamente utile. Decido di incontrarlo riservatamente in una piccola stazione dei carabinieri della periferia palermitana.

Mi trovo davanti un personaggio decisamente anomalo rispetto ai cliché cui ero abituato. Una trentina d'anni, basso e grassoccio, capelli scurissimi e schiacciati in testa da una quantità industriale di gel. Si presenta come un imprenditore nel settore delle protesi acustiche e parla un italiano fin troppo forbito. Si chiama Vincenzo Maria Di Bona e mi dice che è disperato. Ha subito un tracollo finanziario, ha dovuto vendere la casa, vive in un residence con i suoi familiari e non paga l'affitto da alcune settimane. Aggiunge che ha buone informazioni sui mafiosi di Brancaccio ma che, per fornirmele, vuole soldi da noi.

Lo tratto bruscamente e gli faccio presente che la magistratura non paga informatori o testimoni. Aggiungo inoltre che di quello che ha da dirmi su Brancaccio non so che farmene: ormai conosco a menadito tutte le dinamiche di quel mandamento dove ho arrestato centinaia di persone.

Chiudo il mio portatile, mi alzo e mi accingo a uscire dalla stanza incenerendo con lo sguardo l'ufficiale dei carabinieri che mi aveva messo in quella situazione imbarazzante.

«E se le dessi informazioni su un latitante?» dice Di Bona.

Forse qualcuno dei carabinieri gli aveva fatto capire il mio punto debole, il mio gusto per la caccia. Torno indietro e, a muso duro, gli dico che dei pochi gregari di quel quartiere che non avevamo ancora preso non mi importava nulla; che, tanto, prima o poi, li avremmo catturati. Gli unici nomi di latitanti della zona che mi potevano interessare erano quelli di Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, i killer di don Pino Puglisi, il parroco della chiesa di San Gaetano a Brancaccio, assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993, la sera del suo cinquantaseiesimo compleanno.

«Proprio di Spatuzza 'U tignusu posso parlare» sibila il rappresentante di protesi acustiche.

A questo punto mi risiedo. Gli ribadisco che non abbiamo soldi da elargire. L'unica cosa che possiamo fare è richiedere l'applicazione del programma di protezione per i collaboratori e i testimoni di giustizia, sempre che, ovviamente, le sue informazioni, trascritte regolarmente a verbale, si rivelino corrette e, soprattutto, importanti ai fini delle indagini.

Gli illustro quali sono i doveri di un collaboratore di giustizia e quali i benefici previsti dalla legge. Quanto alla parte economica, che più sembrava interessargli, sono estremamente chiaro: gli spiego che il Servizio centrale di protezione si sarebbe limitato a procurargli una casa in una località segreta e a corrispondergli un assegno per il suo mantenimento che, all'epoca, era pari a poco più di un milione di lire al mese. Non certo uno «stipendio» da nababbo ma appena sufficiente per pagare le bollette e sopravvivere.

Vincenzo Di Bona deve essere proprio disperato: «Va bene, tanto sono morto in ogni caso. Riapra quel computer e cominciamo».

Mi indica immediatamente alcuni favoreggiatori di Spatuzza e mi dà anche l'indirizzo di un piccolo appartamento, nella borgata di Ciaculli, a Croceverde Giardini, a cui ogni tanto 'U tignusu si appoggia.

Certo, date le premesse, Di Bona non si presenta come soggetto particolarmente credibile, ma tentare non costa nulla. E in effetti, dopo un paio di giorni di appostamenti, capiamo che l'indicazione è precisa. Il 20 novembre Spatuzza è in quella casa. Ne siamo praticamente certi e decidiamo di intervenire. I carabinieri ritardano però l'irruzione di un paio d'ore in attesa che arrivino da Roma i mastini del Gruppo d'intervento speciale dell'Arma, abituati a gestire situazioni critiche.

Quando gli specialisti del Gis entrano nella casa, il latitante è appena andato via. Come saprò circa un anno dopo, Spatuzza, insospettito da alcuni movimenti che aveva notato in zona, aveva lasciato l'appartamento nascosto nel cofano di una macchina e si era portato dietro quello stesso lanciamissili Rpg 18 che ci era sfuggito durante la perquisizione del covo di Nino Mangano.

Non ha avuto modo, però, di spostare tutto l'arsenale che teneva in quella casa. In un'intercapedine, sotto il pavimento, troviamo una trentina di pistole, dieci fucili, diversi kalashnikov, mitragliette Uzi e Skorpion, bombe a mano, esplosivi slurries, migliaia di munizioni di vario tipo e calibro, puntatori laser, binocoli con intensificatore di luminosità, radiocomandi per detonatori, ricetrasmittenti sintonizzate sulle frequenze delle forze dell'ordine, giubbotti antiproiettili, lampeggianti e, persino, una microspia per intercettazioni. Tutto in perfetto stato di conservazione. Le armi erano state oliate, pulite e imballate così bene che il colonnello dei carabinieri, scherzando, mi dice che avrebbe impiegato volentieri il custode di quella santabarbara come armiere capo del comando provinciale di Palermo.

Mi sfugge però ancora una volta quel «martello di Allah» e, soprattutto, ancora una volta mi sfugge Gaspare Spatuzza. Mi fa proprio rabbia pensare che rimanga in libertà uno degli assassini di don Pino Puglisi, il parroco che si era sacrificato per dare ai ragazzi di Brancaccio un'occasione di vita diversa dalla mafia, un'alternativa a quella cultura di morte e di violenza, la speranza di un altro mondo possibile in quel rione degradato. E che, per questo, aveva pagato con la sua vita, perfettamente consapevole del rischio che correva.

I soliti paradossi siciliani: mentre mi scappa il mafioso che ha ammazzato un prete che ha rifiutato qualsiasi compromesso con Cosa nostra, sto seguendo un altro religioso, quasi coetaneo del primo, che, invece, con la mafia sembra avere un canale privilegiato. Come mi confermerà da lì a poco proprio la persona che mi ha messo sulle tracce di Spatuzza.

È infatti Vincenzo Di Bona a fornirmi la riprova che la pista che abbiamo imboccato su Aglieri è quella giusta, che Ino Corso è un soggetto legatissimo al boss di Santa Maria di Gesù.

Di Bona, che a questo punto mi ha dimostrato la sua affidabilità, mi dice che aveva incontrato Ino, suo vecchio amico di infanzia, proprio insieme ad Aglieri. L'intuizione di Giovanni Brusca sembra dunque corretta.

A questo punto, non solo non possiamo abbandonare la pista imboccata, ma dobbiamo incrementare al massimo l'attività investigativa. Mettiamo sotto controllo i telefoni di tutte le persone in contatto con Ino, intercettiamo gli apparecchi dei suoi familiari, della sua fidanzata e persino quelli del convento di Santa Teresa; riusciamo anche, cosa che non era stata possibile fare prima, a piazzare microspie a casa sua. Poi, riempiamo di cimici una nota sala trattenimenti di Palermo, quella dell'Hotel Villa Boscogrande, che Ino gestisce con i suoi familiari e persino un cantiere edile dove i Corso stanno lavorando.

L'unica cosa che non riusciamo a fare è trovare un sistema per collocare le microspie nel convento, ma per il resto Ino Corso non può fare una mossa senza che noi ne veniamo a conoscenza.

Qualche settimana ancora e, finalmente, emerge una notizia concreta e, stavolta, inequivocabile. Ino nel suo appartamento legge al fratello un pizzino che gli è appena arrivato. Dal contenuto capiamo che il mittente è proprio Pietro Aglieri. E non è finita qui. Subito dopo Ino fa capire che, nei giorni successivi, dovrà incontrare il capomafia latitante. Abbiamo fatto centro!

Mezza squadra mobile di Palermo adesso è sulle tracce di Corso, ma non possiamo esporci. Bisogna muoversi con i piedi di piombo. Abbiamo aspettato tanto. Siamo alla fine di gennaio del 1997 e gli stiamo addosso da cinque mesi ormai. Ora non possiamo fare errori, non possiamo farci scoprire.

Decidiamo di seguire una tattica estremamente prudente. I ragazzi della mobile, che avevano già provato a pedinare Ino, avevano capito che si trattava di un soggetto particolarmente accorto. Si spostava in macchina a bassissima velocità, si faceva sorpassare da tutti e aveva sempre l'occhio rivolto allo specchietto retrovisore.

Grazie alla sua concessionaria non aveva problemi a cambiare macchina e ne usava sempre una diversa: inutilmente rischioso provare a collocare un localizzatore satellitare su qualcuna delle sue auto.

Nelle prime ore del pomeriggio Ino esce dal suo negozio. Da quanto abbiamo capito dalle intercettazioni ambientali, quel giorno deve incontrare proprio 'U signurinu. Imbocca viale della Regione Siciliana e procede a trenta all'ora, prendendosi gli insulti degli altri automobilisti che lo seguono a quella velocità da lumaca e che cercano di sorpassarlo.

Su un'utilitaria civetta dietro di lui ci sono due ragazzi della mobile. Parlano al cellulare: «Dottore, sta uscendo da Palermo verso Catania. Siamo alla rotonda di via Oreto. Va pianissimo e forse ci ha visti. Che facciamo?».

«Mollatelo subito» risponde prudentemente Luigi Savina dalla questura.

Non è granché quello che abbiamo ottenuto con quel pedinamento, ma adesso sappiamo che Aglieri dovrebbe trovarsi a est di Palermo: i poliziotti prima di abbandonare l'inseguimento hanno visto l'auto di Corso proseguire lungo l'autostrada, in direzione Catania.

Dieci minuti dopo un'altra macchina della mobile si ferma in un'area di sosta sul lato opposto dell'autostrada, prima dell'uscita di Villabate. Si aspetta che Ino torni a Palermo. È assolutamente indispensabile capire se è uscito a quello svincolo o se ha proseguito oltre.

Dopo meno di due d'ore Ino passa da lì. Non è più necessario seguirlo. Abbiamo saputo quello che ci interessava: non ha deviato per Villabate e non deve essere andato tanto lontano. Se ha incontrato Aglieri lo ha fatto nella zona compresa tra Bagheria e Termini Imerese.

La stessa sera Corso fa capire al fratello che quel giorno ha visto il boss. Finalmente abbiamo in mano qualcosa di veramente concreto, ma ci fermiamo lì. Almeno per ora.

Passa più di un mese prima che dalle intercettazioni ambientali emerga la notizia di un nuovo appuntamento. Questa volta non è necessario seguirlo fin dal punto di partenza. Ormai sappiamo dove si dirige. La macchina con i nostri poliziotti si piazza prima dello snodo di Bagheria. Fanno finta di essere in panne. Corso passa proprio davanti a loro ed entra nella cittadina. Anche in questo caso lo lasciamo. Ma abbiamo ulteriormente ristretto l'area geografica delle nostre indagini. Adesso sappiamo con certezza che Aglieri è a Bagheria o nelle immediate vicinanze.

Dovranno passare ancora alcune settimane prima dell'ennesimo incontro tra Ino e il capomafia di Santa Maria di Gesù. I nostri uomini ora si appostano direttamente a Bagheria. Ino, in autostrada, potrà controllare quanto vuole lo specchietto retrovisore: non vedrà nessuno dietro di lui.

Stavolta non è solo. Sul sedile passeggero c'è un'altra persona. Un uomo robusto di cinquanta o sessant'anni, quasi calvo, che indossa una strana veste di colore marrone. È il frate, è don Mario Frittitta. I poliziotti appostati lungo le vie di Bagheria ne sono certi. Del resto, in quei giorni di aprile, avevamo intercettato alcune telefonate tra Ino e don Mario in cui parlavano di un prossimo incontro tra loro.

La macchina imbocca una lunga via laterale e si dirige verso nord-ovest, verso il mare, come per tornare a Palermo lungo la provinciale. Corso chiacchiera con il prete, ma guarda dietro in continuazione. Anche adesso bisogna lasciarlo perdere. Troppo rischioso proseguire nel pedinamento.

Siamo a buon punto però. Facciamo alcuni calcoli sui percorsi che avrebbe potuto fare da Palermo e capiamo che il posto dove Corso incontra 'U signurinu non deve essere lontano da dove lo abbiamo lasciato l'ultima volta. Altrimenti avrebbe fatto la strada statale che, costeggiando il mare, arriva a Bagheria, passando da Ficarazzi.

A fine maggio Corso parla con la sua fidanzata. Le nostre microspie captano la conversazione: «In settimana devo andare da quello. Dal mio amico». Capiamo e ci organizziamo per l'ennesima volta. Un paio di ragazzi della mobile, nei pressi della concessionaria, si limitano a controllare la macchina che Corso usa quel giorno e ne comunicano il modello e il colore ai loro colleghi che aspettano il ragazzo alla periferia di Bagheria, all'incrocio dove lo avevano dovuto abbandonare un mese prima.

Sembra proprio fatta, adesso. Ino si dirige appena fuori del paese, in una zona denominata fondo Marino, e imbocca una stradina dissestata dove sarebbe troppo rischioso continuare a pedinarlo. I poliziotti che gli sono dietro, prima di proseguire diritto, fanno in tempo a notare che si ferma davanti a un portone di ferro collocato in un muro di blocchetti di cemento. Un muro alto più di tre metri e che circonda un paio di costruzioni appena più elevate.

Difficilissimo effettuare appostamenti sul luogo e non possiamo rischiare un intervento senza la certezza che Aglieri sia in quella sorta di piccola masseria circondata dal muro. Non è nemmeno possibile controllare dai paraggi quegli edifici: la zona è completamente pianeggiante e, nelle vicinanze, non ci sono palazzi sufficientemente alti da consentire un'osservazione.

Bisogna ricorrere alla tecnologia. Dall'altra parte dell'autostrada, a sud di Bagheria, ci sono un paio d'alture praticamente prive di vegetazione. Una di queste arriva quasi a mille metri sul livello del mare e dista, in linea d'aria, poco meno di due chilometri da fondo Marino, dalla casa dove pensiamo che si possa trovare Aglieri.

La squadra mobile si procura un Celestron 2000, un potente telescopio computerizzato cui è stata collegata una macchina fotografica. I tecnici della scientifica impiegano ore a posizionarlo sulla montagna e, soprattutto, a puntarlo correttamente. Malgrado l'impegno non si riesce però ad avere una visuale completa dell'immobile. Le alte mura in blocchetti di cemento che lo circondano, da quella considerevole distanza dove ci siamo dovuti appostare, ci consentono un angolo di prospettiva alquanto ridotto.

I giorni successivi gli agenti della mobile li passano su quella montagna. Si danno il cambio percorrendo a piedi centinaia di metri in salita. Lì non arrivano strade ma, almeno, il tempo è buono.

Nel tardo pomeriggio del 5 giugno Luigi Savina si presenta nel mio ufficio. Mi fa vedere un'immagine del cortile interno della masseria di fondo Marino appena catturata dal Celestron, una foto abbastanza nitida che ritrae la parte superiore della faccia di un uomo con la testa completamente rasata: naso e bocca sono coperti da un muro grigio.

Mi mostra anche una vecchia segnaletica di Aglieri risalente al 1984. Era stato proprio Ninni Cassarà a farla scattare. Anche se all'epoca nessuno aveva mai sentito parlare di 'U signurinu, il capo della Sezione antimafia della mobile aveva motivo di pensare che quel ragazzo avrebbe fatto strada. E non aveva sbagliato.

La somiglianza tra i due soggetti ritratti nelle foto è effettivamente notevole, ma possiamo confrontare solo gli occhi e l'attaccatura del naso. La comparazione delle due immagini al computer ha dato esito positivo ma è troppo poco per avere la certezza che si tratti della stessa persona che adesso, a distanza di tredici anni, si presenta quasi calva.

Bisognerebbe mostrare la fotografia a qualcuno che conosce bene Aglieri e che ci possa dare la conferma che cerchiamo.

Preparo immediatamente una delega alla polizia penitenziaria e la metto, insieme all'immagine di quella mezza testa, in una doppia busta sigillata. A Punta Raisi c'è ancora un aereo di linea in partenza per Roma, quella sera. Una volante della polizia porta il plico al comandante del volo. Sotto bordo, a Fiumicino, un'altra volante lo recupera e, a sirene spiegate, lo porta al carcere di Rebibbia. Pochi minuti dopo Giovanni Brusca esamina la fotografia.

«Non ha il minimo dubbio. È sicuro che sia lui» mi dice per telefono un ispettore della penitenziaria. «Abbiamo però un problema con la stampante. Le dispiace se il verbale glielo mando domani?»

«Cosa vuoi che mi interessi adesso del tuo verbale di ricognizione fotografica delegata. Per me puoi anche tenertelo» penso, totalmente irriguardoso nei confronti di quell'affidabile poliziotto che sta solo facendo coscienziosamente il suo dovere. Ma ormai ho la notizia che mi interessava. Ormai è davvero questione di ore.

Con gli uomini della mobile decidiamo di intervenire la mattina successiva, non appena quel cranio rasato di Aglieri comparirà di nuovo nella focale del nostro preziosissimo telescopio. Nella notte duecento poliziotti, a poco a poco, si concentreranno nelle vicinanze della casa.

Chiamo Caselli e lo metto in preallarme: «Domani potremmo avere novità positive dalla mobile».

Gian Carlo, che avevo tenuto informato passo passo dell'indagine, capisce e mi chiede di non aggiungere altro, di non riferirgli i particolari. Per scaramanzia.

Con il lavoro che facciamo non possiamo non essere estremamente razionali, ma anche noi abbiamo le nostre piccole e innocue manie. Per quanto mi riguarda, alla vigilia delle operazioni per la ricerca dei latitanti avevo già testato l'effetto positivo delle mie visite enogastronomiche in un certo ristorante di Castelbuono, splendida cittadina situata nel cuore del Parco delle Madonie. E poi è giusto il periodo del basilisco, un raro e profumato fungo porcino che cresce solo da quelle parti e solamente per pochi giorni: tra la fine di maggio e i primi di giugno, appunto. Unisco l'utile al dilettevole. I ragazzi della scorta mi conoscono troppo bene ormai e capiscono subito che quella mia improvvisa sortita nelle Madonie è collegata a qualche intervento importante.

Non riesco a chiudere occhio per tutta la notte e non certo per colpa dell'ottimo vino, un Cabernet Sauvignon locale, di cui ho indubbiamente abusato. Con me, credo, sia rimasta sveglia anche l'intera squadra mobile di Palermo. Nove mesi di pedinamenti, appostamenti, intercettazioni, riprese fotografiche. Decine e decine di milioni di lire spese per il noleggio delle apparecchiature e per il pagamento delle fatture alla Telecom. E ora ci stiamo giocando tutto. In un istante.

E se ci siamo sbagliati? Se quella testa è di uno che somiglia al boss di Santa Maria di Gesù? E se qualcosa va storto? E se in quella masseria c'è qualche nascondiglio o passaggio segreto? Anche per Spatuzza eravamo certi che fosse in casa, ma poi c'era sfuggito.

Alle otto del mattino sono in ufficio. Mi metto a lavorare ma non c'è verso di concentrarmi. Mi hanno appena chiamato dalla mobile dicendomi che all'alba qualcuno è arrivato in quella casa, ma che ancora il cranio pelato non si è visto.

Grazia Musarra, la mia eccezionale e riservatissima segretaria, mi guarda dal di sopra dei suoi occhiali con l'aria sorniona, un po' divertita dalla mia evidente agitazione. Era capace di leggere ogni mia sensazione o emozione e poi sapeva sempre tutto quello che facevo. E lo teneva per sé. La consideravo una sorella maggiore. Mi ricordava tutto, persino compleanni di amici e impegni privati. Con lei non ho mai avuto bisogno di un'agenda.

«Stia tranquillo! Vedrà che tutto andrà per il meglio» mi dice premurosa.

Il mio telefonino vibra sulla scrivania. Sul display appare la scritta «Savina, rispondi?».

Poche parole del capo della squadra mobile e, con lo sportellino del cellulare ancora aperto, mi precipito nella stanza di Caselli. Sono le nove e mezzo del 6 giugno 1997.

«Piglia la tua penna verde e cancella dalla lista pure Pinuzzu La Mattina e Natale Gambino» gli dico ad alta voce.

Gian Carlo mi guarda stupito: «Ma l'operazione non era per Aglieri?».

«Certo, anche lui. Abbiamo preso anche lui», nella concitazione mi ero dimenticato di dargli la notizia più importante.

È andata meglio del previsto. L'uomo che alle sei del mattino era arrivato a fondo Marino è Giuseppe La Mattina e in quella casa, insieme ad Aglieri, si rifugiava anche Natale Gambino. Tutti latitanti.

Forse si sono riuniti lì per festeggiare il compleanno del loro capo. Proprio quel giorno Pietro Aglieri compie trentotto anni e gli auguri glieli facciamo anche noi. A modo nostro, però.

Non appena gli uomini sulla montagna vedono quella testa rasata affacciarsi nel cortile parte l'ordine di fare irruzione. Diverse decine di poliziotti scavalcano con scale d'alluminio le mura di cinta della masseria, saltano dentro e lanciano alcuni flash bang. Come se si trattasse di un castello medievale da espugnare dopo mesi di assedio.

Un'azione rapidissima: i tre non sono armati e non oppongono resistenza. L'unico problema per i poliziotti è causato da un paio di tori che, impauriti dal frastuono e dal fumo prodotto dai flash bang, escono improvvisamente da una stalla e cominciano a scorrazzare pericolosamente nel cortile. Le due povere bestie finiranno al macello comunale perché arresteremo anche il proprietario della masseria e nessuno potrà più occuparsi di loro.

Una volta domati i tori, non appena la cortina nebbiosa comincia a diradarsi, gli agenti della squadra mobile di Palermo si stropicciano gli occhi. Non riescono a credere a quello che vedono. Accanto alla stalla c'è una cappella in piena regola, con altare, acquasantiera, crocifisso, ostensorio, incensiere e paramenti sacri, verdi e viola, finemente intarsiati con fili d'oro. Ci sono persino i banchi con gli inginocchiatoi. Ma sono nel covo di un mafioso - e che mafioso! - e non in un monastero.

«Ecco cosa veniva a fare il parrino, in questa casa» osserva un ispettore della mobile che aveva passato giornate intere ad ascoltare le telefonate dei frati del convento di Santa Teresa.

La notizia della cattura di Pietro Aglieri fa il giro del mondo. A Palermo arrivano inviati della Cnn e della Bbc, ma, com'era prevedibile, quello che più interessa i media è questo strano aspetto religioso ed esoterico della vicenda: la cappella, gli indumenti sacri, la straordinaria biblioteca. Decine e decine di libri di filosofia e teologia sparsi qua e là per la casa del braccio destro di Bernardo Provenzano, del numero due di Cosa nostra, del mafioso responsabile, quale mandante o esecutore materiale, di omicidi e stragi.

E tutti vogliono capire se c'era un sacerdote che andava a dir messa in quella chiesa. Fatico non poco a respingere le insistenze dei giornalisti e devo fingere di non sapere nulla di preti, funzioni religiose e confessioni: l'indagine non è ancora conclusa. Nessuno sa che siamo arrivati ad Aglieri seguendo Corso e che abbiamo individuato da tempo don Mario Frittitta. Le nostre indagini, infatti, continuano con le intercettazioni ambientali e telefoniche: con 'U signurinu arrestato potrebbe venir fuori qualche elemento interessante, cosa che effettivamente avviene.

Ino Corso adesso parla senza riserve con i suoi familiari e racconta vicende di mafia che avevano visto Aglieri protagonista, parla di appalti e di riciclaggio e indica altre persone che avevano favorito la latitanza del capomafia di Santa Maria di Gesù. Notizie preziose per le nostre indagini che si concluderanno, dopo qualche mese, con l'arresto di tutti i soggetti legati a 'U signurinu, compreso il suo confessore «di fiducia», don Mario Frittitta.

Dodici giorni dopo la cattura di Aglieri, il carmelitano si era presentato spontaneamente alla squadra mobile.

«Sono io il sacerdote che andava a celebrare la messa in quella cappella. Sono io il prete che confessava Pietro Aglieri.»

Don Mario non sapeva che noi lo sapevamo già. E non sapeva che avevamo registrato la sua conversazione di qualche ora prima con Ino Corso. Parole inequivocabili: «Non ci metteranno molto ad arrivare a me. Faccio così: vado alla polizia e gli dico che incontravo Pietro. Quando mi chiederanno come l'ho conosciuto gli racconto una fesseria così non possono risalire a te».

Uscito dalla squadra mobile don Mario era tornato da Corso: «Tutto a posto, mi hanno creduto. Gli ho detto che era venuto un ragazzo alto e biondo che non conoscevo».

Per me, e per il giudice che lo condannerà in primo grado a tre anni di reclusione ridotti di un terzo per il rito abbreviato, si tratta almeno di favoreggiamento personale di Corso («aiutare taluno a eludere le investigazioni dell'Autorità»). Così come, secondo quanto sostenuto dalla Cassazione, costituisce pure favoreggiamento «prestare a un latitante assistenza - spirituale nel caso di Aglieri - in modo diverso da quello consueto e, quindi, in forme tali da permettere al fuggitivo di attendere alle proprie esigenze senza esporsi all'attenzione delle autorità di polizia». Insomma, se 'U signurinu proprio teneva a confessarsi e a partecipare a funzioni religiose che lo facesse in chiesa. Come tutti.

Tanto più che, dalle intercettazioni telefoniche, erano emersi rapporti personali piuttosto stretti tra il frate e i Tagliavia di Corso dei Mille: curiosamente la giovane vedova di uno di loro lo chiamava addirittura «papà». In quei pochi mesi in cui lo avevamo controllato, poi, don Mario risultava in contatto anche con gli Spadaro della Kalsa, i Galliano della Noce, i Giuliano e i Garofalo di Brancaccio, insomma con mezza Cosa nostra. E il frate, ancora, ci risultava fosse stato direttamente incaricato dai familiari di Aglieri di intervenire con il boss per convincerlo a non collaborare con la giustizia.

Con il mio amico e collega Erminio Amelio, che mi aveva affiancato per gestire l'enorme mole di informazioni acquisite nelle indagini, non avevamo avuto dubbi a richiedere la custodia cautelare per don Mario Frittitta.

Ma, secondo la Corte di Appello e la Cassazione, la legge della Chiesa, il diritto canonico in qualche modo recepito nel nostro ordinamento dal Concordato, consente al prete questo e altro. Gli permette persino di mentire e di inquinare le prove: così il carmelitano scalzo sarà assolto per aver commesso il fatto nell'esercizio di un diritto.

Probabilmente è giusto così. Forse, in casi del genere, la giustizia terrena deve fermarsi, deve cedere il passo a quella divina.

E forse bisogna lasciare solo a storici e sociologi l'analisi delle ragioni per cui gli uomini di Cosa nostra avessero deciso di rivolgersi, per soddisfare le loro esigenze spirituali, a don Mario Frittitta e non, per esempio, a don Pino Puglisi, che, invece, avevano pensato bene di ammazzare con un colpo di pistola alla nuca.

Gli uomini della mobile, però, la loro piccola soddisfazione terrena se l'erano presa. Con una gravissima caduta di stile, che avrebbe provocato anche la nostra indignazione e quella dello stesso questore Antonio Manganelli, avevano ammanettato don Mario e, prima di condurlo in carcere, lo avevano fatto sfilare, vestito con il suo saio da frate e con il crocifisso al collo, davanti alle telecamere delle televisioni di mezzo mondo.

E volevano anche andare oltre. Nel bel mezzo delle inevitabili polemiche conseguenti all'arresto del religioso e delle giustissime critiche per quell'esposizione al pubblico ludibrio del frate in manette, avevano trascritto gran parte delle intercettazioni dei monaci del convento di Santa Teresa. E me le avevano pure trasmesse formalmente con il chiaro intento di renderle pubbliche.

Le conversazioni riguardavano vicende personali e relazioni private dei frati. Fatti del tutto estranei alla mia indagine e privi di rilevanza penale, tanto che manderò immediatamente al macero nastri, brogliacci e trascrizioni, distruggendo per sempre ogni traccia di quelle intercettazioni. Come prescrive la legge. Quella legge dello Stato cui, almeno noi magistrati, siamo soggetti.