II
I blue jeans di don Luchino
È un pomeriggio di fine giugno. È sabato e a Palermo fa caldo. Soffia il primo scirocco della stagione. Si suda stando fermi e quei maledetti condizionatori del palazzo di Giustizia funzionano a sprazzi.
Chi non è andato al mare cerca refrigerio in una «bella» granita di limone. Anch'io, per allentare la tensione, porto i ragazzi della scorta a prendere un gelato nel bar di fronte al tribunale. È una giornata calda in tutti i sensi. Se tutto va come deve andare...
Corso Tukory, strada affollatissima tra l'università e la Stazione centrale, a un passo da palazzo dei Normanni, è uno dei cuori pulsanti della Palermo popolare. Una lunga fila di magazzini, botteghe e gastronomie a basso costo.
Da un negozio di abbigliamento esce un uomo di mezza età, ray-ban a goccia e baffi neri. Stringe in mano una busta. Deve aver fatto acquisti.
È solo. Si guarda attorno con circospezione: marciapiede di destra e di sinistra. Un colpo d'occhio. Lentamente, con il suo sacchetto in mano, si avvicina a una macchina, un'anonima Opel Swing celestina. Sale, si guarda ancora attorno, poi mette in moto e cerca di infilarsi nel traffico.
Percorre pochi metri quando due auto altrettanto anonime, senza scritte né lampeggianti, lo affiancano. Con una manovra discreta ma sincronizzata, lo stringono a tenaglia. Lo bloccano.
L'uomo coi baffi capisce di essere in trappola. Per un attimo ha paura, pensa al peggio. Pensa che a bordo di quelle due auto possano esserci dei killer mandati da chissà chi pronti a scaricargli addosso una pioggia di fuoco. Pensa che sia giunta la sua ora.
Invece è arrivato lo Stato. La sua corsa finisce lì.
Due agenti in borghese lo prendono in consegna. Qualcuno si occupa di prelevare l'Opel e di portarla via. Sulla strada c'è un gran viavai di persone, ma nessuno si accorge di nulla.
L'uomo prova a fare l'ultima mossa disperata, ma sa già che è inutile. Tira fuori da una tasca una carta d'identità contraffatta e dichiara: «Deve esserci un errore, sono Franco Amato, impiegato postale». Ma gli agenti della Dia di Palermo, nonostante i baffi, lo hanno riconosciuto. Hanno riconosciuto il suo sguardo tagliente. Per mesi hanno studiato la sua foto segnaletica, ai primi posti della top ten dei ricercati del ministero dell'Interno. Per tre giorni hanno tenuto sotto osservazione quel dannato negozio, con la speranza che prima o poi si facesse vivo, e quel momento è arrivato.
Lo portano via. A bordo dell'utilitaria, nel tragitto da corso Tukory alle Tre torri, sede della Dia, finalmente si rilassa. Ammette la sua identità e si complimenta con gli agenti che lo hanno preso.
Forse in cuor suo tira un sospiro di sollievo. Meglio finire in prigione che accoppato in mezzo alla strada per mano di qualche boss emergente. In Sicilia si dice megghiu séntiri scrusciu di catini ca sonu di campani, meglio udire il rumore delle catene che il suono delle campane; a morto ovviamente.
Lo abbiamo catturato così, Leoluca Bagarella, uno dei più spietati capi di Cosa nostra, uno dei più pericolosi latitanti di mafia. Un «padrino». Lo abbiamo arrestato come «signor Franco», questo era il suo ultimo nome di battaglia, in pieno giorno, in mezzo a una strada del centro di Palermo.
È il 24 giugno 1995.
Giornata indimenticabile. Notizia da edizione straordinaria dei telegiornali. Per noi della procura di Palermo quel che si dice un «colpo grosso». Per me, che insieme ad altri tre colleghi avevo costruito l'indagine passo dopo passo, centimetro per centimetro, un grandissimo risultato: la cattura del boss, all'anagrafe Leoluca Biagio Bagarella, classe 1946, corleonese doc, mafioso da sette generazioni, cognato di Salvatore Riina, era un colpo al cuore dell'organizzazione mafiosa. Forse il ko decisivo per quell'ala stragista che negli anni Novanta aveva portato nel Paese tanta devastazione e tanti lutti.
In quel periodo, infatti, Bagarella era il vero capo di Cosa nostra. Dopo l'arresto di Totò Riina, eseguito più di due anni prima, tutta la forza militare dell'organizzazione era passata nelle sue mani. Sostanzialmente erano al suo comando i gruppi di fuoco delle famiglie più importanti. Poteva contare sui killer di Brancaccio, su quelli della cosca di Misilmeri, sui sicari del quartiere palermitano di Resuttana, su tutti quelli della provincia di Trapani. Così aveva il polso dell'intera organizzazione e, di fatto, il comando vero. Era quantomeno sullo stesso piano di Bernardo Provenzano che, pur essendo il capo formale di Cosa nostra, non aveva però alcun esercito.
E poi Bagarella incarnava il vero spirito dei corleonesi che per noi non erano più, semplicemente, i mafiosi di Corleone.
I corleonesi rappresentavano adesso l'anima stragista di Cosa nostra, quegli uomini che, sotto la guida di Riina prima e di Bagarella poi, avevano sferrato un attacco frontale allo Stato con le bombe del 1992 e 1993.
Paradossalmente Bernardo Provenzano, che pure era di Corleone, per noi non era un vero «corleonese», o, meglio, non si poteva più considerarlo tale. Dopo l'attentato di Capaci e forse già prima della strage di via d'Amelio, aveva imboccato un'altra strada: aveva scelto una tattica «attendista», aveva deciso di sommergersi, quasi di sparire. 'U zu Binu aveva ritenuto vincente per Cosa nostra una linea di basso profilo, aveva stabilito di non combattere più le istituzioni ma di convivere con lo Stato, forse anche di trattare con alcuni suoi rappresentanti, garantendo una sorta di pax mafiosa.
Tanto che, tramite Brusca, si era addirittura lamentato con Bagarella per l'esecuzione degli attentati di Firenze, Roma e Milano del 1993. E il cognato di Riina, in modo sprezzante, gli aveva mandato a dire: «Se vossia non è d'accordo, se ne vada in giro con un bel cartello al collo con la scritta: io con le stragi non c'entro». 'U zu Binu, a quel tempo, aveva dovuto incassare: non poteva certo competere con la potenza militare degli «altri» corleonesi.
Don Luchino, così ancora oggi gli amici chiamano Leoluca Bagarella, aveva al suo attivo decine e decine di omicidi. Le inchieste, ma soprattutto i racconti dei collaboratori di giustizia, ce lo descrivevano come un duro, un sanguinario.
Nelle inchieste sulle stragi era uno dei principali indagati. Di sicuro aveva preso parte a quella di Capaci ed era stato il capo operativo degli attentati del 1993. Il regista e il coordinatore, insomma, delle bombe di Firenze, Roma e Milano. Forse non la vera testa pensante, ma certamente uno dei fautori della strategia di attacco frontale allo Stato.
Bagarella era già stato in galera da giovane, nel 1979, dopo aver ucciso il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, la sua prima missione importante quale killer. E l'aveva portata a termine con estrema freddezza ma anche con grandissima vigliaccheria, colpendo alle spalle quel poliziotto che per primo aveva intuito e dimostrato la connection tra mafia americana e siciliana nel grande traffico di eroina. Giuliano aveva sequestrato all'aeroporto di Punta Raisi una valigia piena di dollari. La contropartita pagata dalle famiglie americane a quelle siciliane per la raffinazione di centinaia di chili di «roba». Omicidio «eccellente» e fondamentale per Cosa nostra.
Leoluca Bagarella finì in galera per alcuni anni, poi, puntuale, la scarcerazione a causa della solita scadenza dei termini di custodia cautelare. E così la sua fama di mafioso era salita alle stelle.
Latitante dal '91, per noi del pool antimafia della procura di Palermo, era uno degli obiettivi più importanti.
L'indagine che ha portato alla sua cattura è scattata, di fatto, all'improvviso, meno di un mese prima dell'arresto. Tutto sommato è stata un'investigazione rapidissima, ma anche particolarmente complessa e delicata. Con qualche colpo di fortuna, siamo riusciti a chiudere il cerchio in poco più di tre settimane. Un tempo record, tenuto conto dello spessore del latitante.
Forse, con il senno di poi, avremmo potuto anche stringere i tempi, ma tatticamente abbiamo voluto usare tutta la prudenza necessaria.
Un personaggio particolare, Bagarella: astuto, attentissimo e altrettanto sospettoso. Ossessionato dai pedinamenti, dalle intercettazioni telefoniche e da quelle ambientali. Dopo l'arresto di Riina, la sua prudenza era aumentata. Si era procurato un apparecchio radio che manteneva costantemente sintonizzato sulle frequenze di polizia e carabinieri. Nel suo rifugio segreto stava in ascolto tutto il giorno ed era diventato paranoico. Ogniqualvolta c'era un allarme, un intervento in città per una vicenda qualsiasi, entrava in fibrillazione, pensava sempre che stessero per arrivare a lui.
Racconta un collaboratore di giustizia che un giorno, esasperato, aveva scagliato quella radio contro il muro, mandandola in frantumi: «Quando minchia mi vogliono pigliare, mi pigliano!».
E poi, in fondo, si sentiva sicuro. Palermo, per questo, è una città particolare. Può accadere a chiunque di essere vicini di casa di un boss e non saperlo, non riuscire ad accorgersi di nulla. Del resto quasi mai dei mafiosi si conosce il volto attuale. Le uniche indicazioni spesso vengono da vecchie e sbiadite foto segnaletiche.
Si racconta, ma è una storia vera, di un giornalista che per diversi mesi era stato vicino di pianerottolo di uno dei più spietati killer di Cosa nostra, Giuseppe Lucchese, detto 'U lucchisieddu, responsabile di un centinaio di omicidi e delle cui famigerate «gesta» il cronista scriveva di frequente.
Non lo sapeva, ma ci abitava di fronte. Lo vedeva uscire con la motocicletta, conosceva anche la moglie: una distinta e riservata signora con un grazioso cagnolino. Non aveva mai sospettato nulla. Nessuno d'altronde sarebbe stato in grado di riconoscere 'U lucchisieddu.
Il miglior modo di mimetizzarsi per i mafiosi, infatti, è sempre stato quello di vivere un'esistenza normale. E Bagarella aveva scelto un profilo assolutamente anonimo, quello del «signor Franco», appunto, impiegato delle poste, inquilino modello. Viveva in un appartamento come tanti nel centro di Palermo, proprio di fronte al palazzo dove abitano due tra i magistrati più impegnati sul fronte antimafia, Guido Lo Forte, procuratore aggiunto di Palermo e coordinatore della Direzione distrettuale antimafia, e Giuseppe Pignatone, all'epoca sostituto della stessa procura e, guarda caso, proprio titolare delle ricerche di Bagarella, insieme a Franco Lo Voi.
Forse per questa ragione il boss era tranquillo. Spesso, con un binocolo, dalla finestra del suo rifugio, si divertiva a osservare gli spostamenti di Guido e di Giuseppe e delle loro auto di scorta. Se la rideva don Luchino. Ma questa vicinanza costituirà anche il suo tallone d'Achille.
L'indagine prende le mosse dal tentativo di suicidio in carcere di Emanuele Di Filippo, un uomo di poco meno di quarant'anni, una vaga somiglianza con Alain Delon, arrestato per associazione mafiosa nell'ambito del procedimento denominato «Golden Market», nome di fantasia collegato alle iniziali del collaboratore di giustizia che aveva consentito l'operazione, Gaspare Mutolo.
Di Filippo non regge la detenzione: è depresso e tenta di impiccarsi in cella con un rudimentale cappio fatto con un lenzuolo e legato alle sbarre del letto. Per noi magistrati è poco più di uno sconosciuto, se non per una parentela mafiosa importante: la sorella, Agata, ha sposato Nino Marchese, uno dei killer più spietati del gruppo di fuoco storico della borgata di Ciaculli. Nino inoltre è anche il fratello di Vincenzina Marchese, la moglie di Leoluca Bagarella. Un intreccio di famiglie «pesanti» nella geografia mafiosa, dunque.
Il tentativo di suicidio di un boss detenuto fa scattare il campanello d'allarme. L'allora sostituto procuratore nazionale antimafia Piero Grasso lo va a incontrare in carcere; da quel colloquio capiamo che ci sono degli spiragli per una sua collaborazione: «Sul soggetto si può lavorare».
Così, con i miei colleghi Guido Lo Forte e Ignazio De Francisci, in un giorno di maggio, andiamo in trasferta nel carcere di Rebibbia, a Roma, a interrogare Emanuele Di Filippo, e la missione va a buon fine. Spossato dalla detenzione, sfinito psicologicamente di fronte alla possibilità di trascorrere ancora lunghi anni di carcere, getta la spugna e decide di collaborare.
È fondamentalmente timido, fragile, un po' introverso. È letteralmente distrutto. Certamente il tentato suicidio non ha fatto che peggiorare la sua situazione: non è ben visto in carcere un mafioso che prova a togliersi la vita.
Istintivamente credo subito alla sua sincerità. È diplomato all'istituto d'arte ed è figlio di un funzionario di banca. Inizia a raccontare quel che sa partendo proprio dalla sua famiglia. Ci parla di suo fratello minore, Pasquale, e delle sue «relazioni pericolose». Ci rivela che, pur non essendo ricercato, vive in semiclandestinità. E periodicamente - ci dice - incontra Leoluca Bagarella, di cui sarebbe uno degli uomini di fiducia.
Pasquale Di Filippo ha trentadue anni, più robusto del fratello, altezza media, con il vezzo di passarsi la mano destra tra i capelli biondo cenere. È, come il fratello, un «mafioso bene». Ha pure fatto un bel matrimonio sposando la figlia di Masino Spadaro, il re della Kalsa, il più noto contrabbandiere della storia di Cosa nostra.
Sulla base delle indicazioni di Emanuele, la Dia individua una casa di campagna, a Misilmeri, dove Pasquale si nasconde; e dove, come scopriremo dopo, in quei giorni si rifugia anche Salvatore Grigoli, uno dei killer di don Pino Puglisi, il parroco del quartiere Brancaccio di Palermo assassinato in un attentato mafioso.
Riusciamo a piazzare nella casa alcune microspie e ci mettiamo in ascolto nella speranza di captare qualche conversazione interessante che ci porti sulle tracce di Bagarella. Ma accade un imprevisto, un fatto curioso. Una delle cimici comincia a trasmettere su frequenze diverse da quelle da noi impostate: mentre Grigoli sta guardando il telegiornale in salotto, sente in onda la voce della moglie che sta addormentando il figlio nella stanza accanto. È un'interferenza e lo capisce al volo. Si mette alla ricerca della microspia e la trova. Nascosta nell'interruttore della luce: fine delle trasmissioni.
Così, dopo la scoperta della cimice, decidiamo di rompere gli indugi. Dispongo un fermo per Pasquale Di Filippo per il reato di associazione mafiosa, utilizzando tra l'altro le dichiarazioni del fratello Emanuele.
Pasquale viene bloccato dagli uomini della Dia e portato nei loro uffici vicino allo stadio della Favorita. Con me ci sono i direttori dei Centri operativi di Roma e Palermo, Franco Gratteri e Nino Cufalo.
Pasquale Di Filippo prende atto delle accuse che gli vengono rivolte dal fratello e della conseguente prospettiva di trascorrere molti anni in carcere; così, terrorizzato, decide anche lui di «saltare il fosso».
Grondante di sudore dichiara, tra le lacrime, di voler collaborare. È talmente emozionato che il suo viso cambia continuamente colore. Passa dal rosso porpora al bianco cadaverico: si accende improvvisamente o impallidisce di colpo.
Come prima indicazione ci fa il nome di un certo Tony, personaggio chiave nella tutela della latitanza di Leoluca Bagarella: «È il suo autista,» ci dice «il factotum, l'uomo di fiducia. Cercate lui!».
E aggiunge che questo Tony ha un negozio d'abbigliamento in corso Tukory, nei pressi della stazione di Palermo. Lo spunto sembra valido e non ci metto molto a identificare Tony in Antonio Calvaruso, nome che non mi è nuovo.
Avevo già avuto modo di conoscerlo qualche anno prima, nel 1991, quando ero sostituto procuratore a Termini Imerese. Mi era capitato di arrestarlo, addirittura, con l'accusa di favoreggiamento della prostituzione e frode in commercio insieme con il suo amico e datore di lavoro Tullio Cannella, uno dei tanti costruttori palermitani in odore di mafia, ed esperto più di chiunque altro in truffe e raggiri.
I due avevano aperto un locale notturno e lo gestivano per conto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss di Brancaccio.
Con grande fantasia l'avevano chiamato Les Tours d'Orient, le Torri d'Oriente, un nome francese per dare al night un tocco di classe. In realtà era un postribolo, una specie di balera dove venivano fatte prostituire giovani ragazze straniere: rumene, sudamericane, africane.
Le Torri costituivano la costruzione centrale dell'Euromare Village, un signorile residence sulla spiaggia, con numerosi miniappartamenti, in località Buonfornello, ai confini di Termini Imerese. A pochi chilometri da Palermo.
Un complesso immobiliare del valore di miliardi di lire, un affare nelle mani delle cosche. Come investimento fruttava bene. Anche il night. Al piano terra c'era il locale, con tavolini, divani, piano bar, luci soffuse e séparé. Al primo piano le stanze da letto delle giovani entraîneuses.
Gli avventori venivano letteralmente spolpati, obbligati a fare una consumazione ogni quarto d'ora: quarantamila lire a bicchiere, che all'epoca non erano certo poche. Per le ragazze, invece, c'era una bevanda speciale, anche questa obbligatoria, chiamata pomposamente «il messicano»: zucchero, limone e acqua. Un miscuglio torbido e totalmente analcolico che all'ignaro cliente, voglioso di far ubriacare la compagna, costava un'aggiunta di altre trentacinquemila lire.
C'era poi la lista delle superconsumazioni, ovviamente con truffa inclusa: semplice spumante spacciato come champagne di grande marca. Travasavano del comune Asti Cinzano in bottiglie vuote di Dom Perignon del '62, e il gioco era fatto: «Minchia come è buono questo sciampagne» dicevano i clienti contenti.
Bevevano bollicine direttamente dalle scarpe delle fanciulle, così si usava, e non capivano più niente.
Tullio Cannella e Tony Calvaruso erano i re di queste «notti d'oriente», il Gatto e la Volpe, li avevo definiti. Anni dopo i loro nomi ritornano.
La nostra ricerca di Bagarella riparte così da Tony e dalla sua bottega in corso Tukory. La individuiamo: è un negozio di abbigliamento come tanti, un'insegna senza pretese, vestiti da uomo, genere casual.
Calvaruso va lì tutti i giorni, gestisce il negozio, vive alla luce del sole. Cominciamo a controllarlo, lo seguiamo con circospezione, cerchiamo di non perderlo di vista: diventa il nostro uomo.
Ci accorgiamo che entra spesso in un portone di via Passaggio Mp1, una traversa di via Malaspina, giusto di fronte al palazzo dove abitano Lo Forte e Pignatone.
È una zona estremamente sorvegliata dalle forze dell'ordine. Siamo negli anni dell'operazione denominata «Vespri siciliani». Per far fronte all'emergenza criminale lo Stato, in quei mesi terribili, ha mobilitato l'esercito. I militari sono «scesi» in Sicilia a presidiare i cosiddetti obiettivi sensibili e alcune camionette sono state piazzate anche davanti alle abitazioni dei magistrati impegnati in prima linea.
È così che scatta l'idea: in via Malaspina ci sono le jeep dell'esercito che presidiano le abitazioni dei due colleghi. Decidiamo di sostituire due soldati con altrettanti investigatori della Dia. In questo modo, notte e giorno, teniamo sotto controllo senza dare nell'occhio il palazzo dove è stato visto entrare Calvaruso: civico 9 di via Passaggio Mp1. Sospettiamo che il covo di Bagarella sia proprio lì, ma non ne abbiamo la certezza matematica.
Nelle operazioni di cattura dei latitanti ogni minimo errore può causarne il fallimento. E in questo caso abbiamo un problema in più, grosso come una casa: riuscire a tenere segreta la collaborazione di Pasquale Di Filippo, fino a operazione conclusa.
Nessuno deve sospettare nulla. C'è in gioco la riuscita dell'indagine e la stessa sicurezza del collaboratore.
Bisogna trovare una soluzione che salvi capra e cavoli. Tecnicamente non posso revocare il decreto di fermo che gli ho fatto notificare, per cui c'è una sola cosa da fare: portare Pasquale Di Filippo, che si trova ancora nei locali della Dia, al carcere dell'Ucciardone, insieme agli altri boss detenuti. Come se nulla fosse.
Gli chiediamo, per qualche giorno, di fare il doppio gioco, e Pasquale accetta. Seppur tra mille timori che sono, peraltro, anche i nostri.
La domanda è una sola: ce la farà a non tradirsi, a fingere, a reggere la pressione? D'altra parte non abbiamo alternative. Se dovesse trapelare la notizia della sua collaborazione, Bagarella cambierebbe tutti i suoi luoghi, i suoi contatti, i suoi riferimenti. E non lo prenderemmo mai.
Per Pasquale Di Filippo cominciano forse i quattro giorni più difficili della sua vita. Sta in cella in un reparto di alta sicurezza, come si addice ai mafiosi, con tanti uomini d'onore che non lo perdono mai di vista. Ne conoscono il lato debole, sanno che è abituato alla bella vita, che non è fatto per il carcere.
Gli rivolgono mille domande sul cognato, Nino Marchese, e, soprattutto, sul suocero, Masino Spadaro, che è detenuto a Pianosa e che, per i mafiosi, è una sorta di garante del giovanotto. Un inferno, insomma, per il povero Pasquale, che a un certo punto teme di non farcela.
Anche attraverso le segnalazioni della direttrice del carcere, Armida Miserere, capiamo che il ragazzo è allo stremo. Armida, morta suicida alcuni anni dopo, era una donna straordinaria e ci fu di grandissimo aiuto in diverse circostanze. La ricordo con grande affetto e tenerezza.
Pasquale non ce la fa più a reggere quella finzione. Ma l'investigazione su Bagarella non è ancora conclusa. E per chiudere il cerchio ci manca qualche particolare importante. Tra l'altro dobbiamo assolutamente sapere se il negozio di Calvaruso nasconda un'uscita secondaria, una possibile via di fuga, magari nel retrobottega. Dobbiamo cautelarci al massimo, evitare ogni sorpresa.
Accertamenti sul luogo, ovviamente, non ne possiamo fare. L'unico che conosce il posto e può dirci se esiste una seconda uscita, o magari un passaggio segreto, è proprio Pasquale Di Filippo. Ma come fare a parlargli senza insospettire gli altri carcerati, i compagni di cella? Mi viene un'idea.
Ogni sostituto procuratore ha sul suo tavolo decine di richieste da parte dei detenuti, comuni e non, per le esigenze più svariate: da chi non riceve la posta da tre settimane a chi chiede un trasferimento o un colloquio supplementare con i familiari.
Le richieste dei detenuti vengono redatte su un modulo della direzione del carcere, il cosiddetto Modello tredici. Metto insieme tutte le domande arrivate ai colleghi della procura nelle ultime settimane e vado all'Ucciardone, avvisando l'ufficio matricola di preparare tutti i detenuti che hanno chiesto il colloquio con i magistrati.
Li faccio mettere in fila nell'atrio del carcere, nonostante le proteste degli agenti penitenziari che adducono legittimi motivi di sicurezza.
Fra i tanti c'è anche Pasquale Di Filippo, a cui Armida, su nostra richiesta, ha fatto debitamente compilare il «suo» Modello tredici.
Per ore li passo in rassegna, uno per uno: ascolto i loro problemi e ne risolvo anche qualcuno. Poi arriva, finalmente, il turno di Pasquale. Di fronte a me si presenta un uomo provato: uno straccio. Stavolta è bianco come un cero e rimane terreo per tutta la durata del colloquio.
Trema, malgrado i trentaquattro gradi del pomeriggio estivo palermitano. Balbetta e ansima, mi dice che ha paura di non farcela. Cerco di calmarlo, di fargli coraggio. Nessuno deve sospettare nulla. Gli raccomando di resistere ancora per poco, perché l'operazione è ormai agli sgoccioli.
Mentre firmo sul librone della matricola l'autorizzazione a un colloquio straordinario con una sua amica, giustificando così il nostro incontro, mi faccio dare la notizia che ci serve: nel negozio di Calvaruso non esiste un'uscita secondaria, né una via di fuga. Pasquale ne è sicuro. Ci salutiamo. Lo seguo con la coda dell'occhio e lo guardo rientrare, incerto, nel cortile dell'Ucciardone.
Torno in ufficio con un certo senso di vuoto. Temo per questo ragazzo. Ne parlo con Gian Carlo Caselli e con i colleghi con cui seguo l'indagine. Mi auguro che tutto si concluda al più presto.
E in effetti passano poco più di ventiquattr'ore. Il giorno dopo un uomo con baffi e occhiali, che assomiglia vagamente a Bagarella, viene visto entrare nel negozio di corso Tukory. È proprio lui.
Gli agenti che sono appostati fuori lo riconoscono e, con calma, lo aspettano all'uscita. Possono attendere, tanto sanno che in quel negozio non ci sono vie di fuga alternative.
Si decide di intervenire senza fare irruzione, anche per non «bruciare» Calvaruso, il cui successivo pedinamento ci avrebbe potuto dare, come effettivamente ci darà, altri spunti investigativi.
Bagarella esce, da solo, con quel sacchetto in mano. Sacchetto che non aveva al momento dell'ingresso nella bottega del suo amico.
Nella busta ci sono un paio di jeans. Il «signor Franco» era scivolato sulla classica buccia di banana. Era andato nel negozio di Calvaruso proprio per ritirare quel paio di pantaloni che aveva comprato qualche giorno prima: gli stavano troppo lunghi e li aveva fatti accorciare. E ci aveva pensato Calvaruso a fare l'orlo. Quel giorno i jeans erano pronti e il boss era andato a ritirarli. Tanto attento a microspie, intercettazioni e pedinamenti, si era fatto prendere per uno stupido, banale paio di Levi's.
Avevamo avuto ragione ad avere fretta: Bagarella infatti si preparava a cambiare vita.
Il boss corleonese, preoccupato per l'arresto di Pasquale Di Filippo, stava sostituendo tutti i suoi punti di riferimento. Aveva distrutto la vecchia scheda del cellulare e se ne era procurata una nuova.
In tasca gli troviamo un pezzo di carta su cui si era appuntato il numero del nuovo telefonino. Numero che aveva appena comunicato anche al fedele Calvaruso, durante quella visita al negozio, raccomandandogli di utilizzarlo solo in caso di emergenza. Evidentemente non si sentiva più sicuro nei panni del signor Franco, e, come i fatti hanno dimostrato, non aveva torto.
Quella visita da Tony doveva essere una toccata e fuga. Poi don Luchino sarebbe tornato a casa.
Quando, subito dopo l'arresto, entriamo nel suo appartamento, troviamo in cucina un tegame ancora caldo, con la trippa al sugo: forse il piatto preferito del boss. Evidentemente Bagarella l'aveva preparata con cura prima di uscire, per tornare a mangiarla più tardi, dopo aver ritirato i suoi nuovi blue jeans. Forse stava per traslocare in un nuovo covo, che non abbiamo mai individuato ma dove, probabilmente, doveva trasferire il suo piccolo arsenale personale: alcune pistole e fucili che abbiamo trovato nel box sottostante al rifugio di via Passaggio Mp1 numero 9.
Dopo la sua cattura gli agenti della Dia irrompono in un altro covo che ci ha segnalato Pasquale Di Filippo, quello di Nino Mangano, assicuratore e uomo d'onore della famiglia della Roccella, irreperibile da tempo anche se ancora non formalmente latitante.
Secondo Pasquale Di Filippo, Mangano, per il quale disponiamo il fermo, è il nuovo capo di Brancaccio. Ha sostituito i fratelli Graviano, detenuti dal gennaio 1994, e ha preso il controllo del ferocissimo gruppo di fuoco del relativo mandamento: è, insomma, il vero braccio armato di Leoluca Bagarella. Nel suo appartamento troviamo un patrimonio di informazioni: il registro delle estorsioni, con tutte le somme in entrata e in uscita, e con tutti i nomi in codice degli uomini d'onore a cui venivano affidati incarichi.
Materiale preziosissimo che ci darà parecchio lavoro nei mesi successivi.
Adesso bisogna pensare a Pasquale, a toglierlo immediatamente da quell'inferno in cui vive ormai da quattro lunghi giorni. La sera stessa del 24 giugno viene prelevato dall'Ucciardone e portato in una località segreta: ha appena accettato la protezione dello Stato. Finalmente si rilassa. Per lui è la fine di un incubo, anche se comincia a pagare da subito un prezzo altissimo. Appena la notizia del suo pentimento diventa pubblica, la moglie, Giuseppina Spadaro, la figlia di don Masino, lo ripudia, per salvare il buon nome di famiglia. Ma l'operazione è ormai conclusa.
Siamo tutti negli uffici della Dia, nel complesso delle Tre Torri. Anche Bagarella è lì, blindato in una camera di sicurezza.
Ricordo Gigi Bruno, ora colonnello dei carabinieri, incaricato di informare la famiglia del boss dell'avvenuto arresto.
«Buonasera, casa Riina? La signora Ninetta Bagarella? Sono il capitano Bruno della Dia. Mi scusi se la disturbo a casa a quest'ora, ma volevo informarla che abbiamo tratto in arresto suo fratello Leoluca.»
Dall'altro capo del telefono parte una serie di improperi uniti a grida di disperazione che, però, non turbano per nulla il compassato ufficiale dei carabinieri: «Mi perdoni ancora se l'ho disturbata. Le auguro una buona serata!».
Non c'è nessuno sfottò. Gigi Bruno è fatto proprio così. Quando mette le manette a Bagarella per trasferirlo in carcere gli dice, sempre gentilissimo: «Mi scusi signor Bagarella, ma devo metterle le manette. Sa, è il regolamento...».
Così come Gian Carlo Caselli, che ci raggiunge qualche minuto dopo. Torinese, cortese, misurato, vuole vedere in faccia il boss e verificare le sue intenzioni.
«Buonasera! Sono il procuratore di Palermo e sono qui per chiederle se intende dire qualcosa, se ha qualche dichiarazione da fare.»
Leoluca Biagio Bagarella, invece, non è per nulla misurato e, in quell'occasione almeno, per nulla cortese: «'A canusciu buono, a vossia. E non devo dire proprio niente. Lei si facissi 'u procuraturi, ca io mi fazzu 'u carzaratu». Della serie: ognuno al posto suo! Risposta rozza e arrogante che non deve essere certo piaciuta al mio capo.
Bagarella esce da quella stanza scortato da due uomini incappucciati, con le armi puntate addosso. Il giorno dopo sarà trasferito nel supercarcere dell'Asinara.
Quella sera ho la sensazione che la mafia si può battere. Due episodi banali, ma altamente indicativi. Da un lato il rispetto delle regole, la professionalità e, perché no, la cortesia degli uomini dello Stato; dall'altro l'arroganza dei boss, arroganza ormai tanto inutile quanto perdente.