IV
Storia di amore e morte

 

«Buongiorno, signor Bagarella. Come sta?» «Come devo stare, dottore? Tra queste quattro mura.»

È il luglio del 1998. Leoluca Bagarella è di fronte a me, nel carcere di Parma. Un po' meno arrogante di come l'avevo visto tre anni prima, il giorno del suo arresto.

Fisico tarchiato ma possente, difficilmente riesce a stare fermo, e quando lo fa sono i suoi occhi, piccoli e nerissimi, a muoversi nervosamente, a scrutare ogni cosa. Ha il solito look casual: tuta da ginnastica e scarpe da tennis. Come se fosse sempre pronto alla corsa, alla fuga. All'evasione.

Sono venuto a interrogarlo per un reato minore: minaccia aggravata, pena massima prevista fino a un anno di reclusione. Una bazzecola per uno come lui che di ergastoli definitivi ne ha già parecchi. L'episodio era avvenuto durante un'udienza del processo per il sequestro e l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.

In un drammatico confronto a distanza Bagarella aveva fatto uno strano riferimento al figlio del suo ex autista, Tony Calvaruso, il titolare del negozio di corso Tukory che, dopo essere stato arrestato, aveva deciso di collaborare e proprio quel giorno stava deponendo in aula.

«Ricordati di Spizieddu» aveva urlato don Luchino dalla sua gabbia nel bunker dell'Ucciardone. Spizieddu, peperino, era il nomignolo con cui il boss corleonese chiamava il figlio di Calvaruso.

La frase era suonata come un avvertimento. Da qui l'accusa di minaccia aggravata.

L'avvocato di Bagarella non è venuto. Inutile arrivare fino in Emilia per un interrogatorio di routine.

«Dottore, oggi avevo intenzione di avvalermi della facoltà di non rispondere, ma visto che c'è lei e che si è fatto tutto questo viaggio...»

Sono strani i mafiosi. Fino a quel momento Bagarella non aveva mai parlato con nessun magistrato. Adesso decideva di farlo proprio con me, con uno dei pubblici ministeri responsabili della sua cattura e, soprattutto, con quello che aveva fatto parlare i suoi fedelissimi e che conosceva, ormai, ogni più piccolo particolare della sua vita da mafioso.

Apro il mio portatile e comincio a scrivere. Normalmente gli interrogatori li facevo da solo, senza segretario. Verbalizzavo io ed ero velocissimo. Avevo tantissime macro e voci di correzione automatica memorizzate nel mio Word. Digitavo cn e sul video appariva Cosa nostra, già in corsivo, scrivevo uo e diventava uomo d'onore, oppure sgj per San Giuseppe Jato, cr per Corleone, bc per Brusca, md per Matteo Messina Denaro, il boss di Trapani, bg, appunto, per Bagarella.

L'interrogatorio dura poche battute. Giusto il tempo per Bagarella di spiegarmi che non intendeva minacciare di morte il figlio di Calvaruso, ma solo fargli tornare alla mente una sera in cui aveva tenuto il vivace bambino sulle ginocchia e ci aveva giocato, un banale episodio che il pentito, secondo don Luchino, sembrava aver dimenticato.

Archivierò tutto. Del resto nessuno aveva interesse a processarlo per una semplice minaccia.

Un risultato però l'ho ottenuto. Bagarella ha risposto alle mie domande e ha ammesso di conoscere bene Calvaruso, elemento di prova che poteva esserci utile in altri dibattimenti.

In quegli anni trascorsi in carcere don Luchino aveva continuato a tenere alto il suo profilo da padrino corleonese.

E d'altra parte il suo è un pedigree di tutto rispetto e affonda le proprie radici nella Cosa nostra post rurale, quella degli anni Sessanta e Settanta, la mafia degli appalti e del traffico internazionale di eroina.

Suo fratello maggiore, Calogero, era stato uno dei soci fondatori, se così si può dire, dei corleonesi. Era uno dei quattro fedelissimi del primo capomafia storico della zona, il medico Michele Navarra. Gli altri erano Luciano Leggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina: insomma una specie di poker d'assi. Erano gli anni Sessanta e i quattro giovani leoni volevano mano libera. Così non avevano esitato a uccidere il vecchio Navarra per prenderne il posto. Forse non è un caso che la storia dei corleonesi nasca proprio con un tradimento.

Il giovane Leoluca cresce dunque a «pane e mafia», e quando Salvatore Riina sposa sua sorella Ninetta, diventa anche cognato del Capo dei capi, di Totuccio, come lo chiamavano gli amici.

Bagarella, che ha grande voglia di farsi strada in Cosa nostra e sa quanto contino i rapporti di sangue, incastona un'altra parentela di rango. Siamo sul finire degli anni Settanta quando s'innamora perdutamente di Vincenzina Marchese, bella fimmina della famiglia di Corso dei Mille, una cosca di killer e trafficanti tra le più antiche e spietate di Palermo.

Il capofamiglia, Filippo Marchese detto Milinciana (melanzana), zio di Vincenzina, scannava la gente con le sue mani nella camera della morte di Sant'Erasmo, sul lungomare di Palermo. Si dice che chiamasse per nome e cognome la vittima, un attimo prima di eseguire il delitto, e aggiungesse la frase, ormai tristemente nota: ca' finisci la to' storia, qui finisce la tua storia. Dei tre fratelli di Vincenzina, Nino, Giuseppe e Gregorio, solo l'ultimo è libero.

Ma Vincenzina è, come si dice, pura come un giglio. Quella tra lei e Leoluca è una grande, vera, tragica storia d'amore.

Matrimonio all'inizio degli anni Novanta. Lui è appena stato scarcerato grazie ai soliti cavilli giudiziari. Matrimonio d'amore ma anche matrimonio di mafia, con tutti i suoi sfarzi un po' pacchiani. Nozze come quelle di Michael Corleone nel Padrino. Come colonna sonora del filmino della cerimonia Bagarella vuole metterci proprio la musica del capolavoro di Francis Ford Coppola, sua pellicola culto al punto che, nei primi tempi della sua latitanza, si faceva chiamare proprio don Vito.

Banchetto a Villa Igea, uno dei più lussuosi e affascinanti alberghi d'Italia. Leoluca, un figurino, nel suo mezzo tight; bellissima Vincenzina, con il lungo velo bianco che il marito premuroso le sorregge, mentre scende da una sfavillante limousine. Centinaia di invitati: c'è la folla delle grandi occasioni. Unici assenti, ma giustificati, i latitanti, che da lì a poco potranno annoverare tra le proprie fila anche lo sposo. Servizio d'ordine impeccabile affidato ai picciotti di Corso dei Mille che respingono «con educazione», si racconta, giornalisti e fotografi. Tutto rigorosamente ripreso dalle telecamere della polizia.

Da quel giorno i due sono inseparabili. Lei lo segue fedele durante tutta la latitanza. Se la ricordano anche nel condominio di via Passaggio Mp1. Una donna bella, riservatissima, che non usciva quasi mai di casa e che, da un giorno con l'altro, non si era più vista. Di Vincenzina si erano misteriosamente perse le tracce.

Durante la perquisizione nel covo troviamo uno strano biglietto scritto a mano: «mio marito è l'uomo migliore del mondo e si merita una statua d'oro...». La grafia però è dello stesso Bagarella. Scopriremo in seguito che l'originale scritto da Vincenzina era stato consegnato ai suoi familiari e che don Luchino lo aveva ricopiato personalmente.

C'è anche una fotografia di lei, molto bella, col velo da sposa, in una cornice d'argento. Davanti alla foto un vaso con fiori freschi. Particolari che, insieme alla fede della moglie che Bagarella porta al collo al momento dell'arresto, ci fanno ritenere che Vincenzina sia morta. Saranno poi i pentiti a confermare il nostro sospetto: un mese prima della cattura del marito, infatti, la donna si è suicidata.

Sono certo che Bagarella non abbia alcuna responsabilità materiale nella morte di sua moglie. E la mia convinzione è pienamente confermata dalle indagini svolte e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

È il dramma di Vincenzina, una donna che ha respirato mafia fin da bambina.

Destino crudele, il suo. Moglie di Bagarella e sorella di quel Pino Marchese, che nel frattempo è passato dalla parte dello Stato. Il primo «corleonese» pentito, il collaboratore di giustizia più odiato dalla famiglia Riina. Vincenzina forse non ha retto al peso di questo doppio ruolo e si è tolta la vita. Si è impiccata in casa. Proprio in quel covo di via Passaggio Mp1, dopo un lungo periodo di profonda depressione. Uccisa dalla solitudine.

Come sua cognata Ninetta, la moglie di Riina, Vincenzina ha seguito il marito in tutta la latitanza. Mai un dubbio su questo uomo che ama e da cui è ricambiata pienamente. Un solo cruccio: non aver avuto figli.

Due volte la natura le ha detto di no, e lei non se ne dà pace. Comunque è ancora giovane, e può coltivare il suo desiderio di maternità.

È rimasta profondamente turbata, come gran parte del popolo di Cosa nostra, dalla storia del piccolo Giuseppe Di Matteo. Si è fatta un'idea: pensa che non avere figli sia una sorta di castigo di Dio. Una punizione per il rapimento di quel ragazzino innocente eseguito dagli uomini di suo marito. Il boss giura alla moglie che il bambino non è stato ucciso. E in effetti, in quella data, dice la verità. Ma lei non gli crede. E, tra mille tormenti, si toglie la vita.

Il pomeriggio che la trova morta, appesa a quella corda, Bagarella vive un doppio dramma. La scomparsa, tragica, della compagna della sua vita e l'impossibilità di darle una degna sepoltura. Distinguendo per un momento l'uomo dal mafioso, don Luchino vive una vicenda dolorosissima in assoluta solitudine.

Il boss fa una telefonata, in lacrime, al fedele Calvaruso. Chiede aiuto, lo prega di raggiungerlo. Insieme, vestono e sistemano alla meno peggio il cadavere della donna e lo portano fuori. Vincenzina è accompagnata a braccia, sorretta dai due uomini, come se fosse stata colta da un malore. È notte. Nessuno li vede. Il cadavere viene caricato in macchina e trasportato in un ufficio dell'impresa di costruzioni di Giusto Di Natale, uno dei fedelissimi di Bagarella. Lo mettono in una bara che hanno ordinato per telefono a un'impresa funebre, potendo certamente contare sulla sua «riservatezza».

Il suo ultimo viaggio Vincenzina lo fa verso la collina di Baida, a pochi chilometri da Palermo, dove viene seppellita in un terreno di proprietà della famiglia Di Natale. Ma il suo calvario non è ancora concluso; quel cadavere «scotta».

L'ho cercata a lungo, non tanto per ragioni investigative o processuali, quanto per un fatto di umanità: avrei voluto fosse tumulata in un cimitero, in terra consacrata. Ma nessuno dei collaboratori di giustizia sapeva dove fosse. Solo Tony Calvaruso, alla fine di un interrogatorio, si ricorda quasi per caso di un particolare: di uno schizzo del luogo dove era stata seppellita la donna, che gli aveva tracciato lo stesso Bagarella. Un giardino che il boss aveva fatto appositamente recintare con paletti di castagno. Nella sala colloqui del carcere di Paliano, il pentito mi rifà, su un pezzo di carta, lo stesso disegno.

Ne faccio una copia che consegno alla Dia, cui chiedo di individuare tutti i terreni a disposizione delle persone che erano presenti la sera di quella sorta di funerale: oltre a Giusto Di Natale, Nicola Di Trapani, reggente del mandamento di Resuttana e Pino Guastella, il killer prediletto di don Luchino. Si doveva per forza trattare di una proprietà «pulita». Bagarella non poteva rischiare un'eventuale confisca di quella che era diventata la tomba della sua Vincenzina.

E guarda caso, si scopre che la famiglia Di Natale possiede da generazioni un fondo che, visto dall'alto, fotografato da un elicottero, corrisponde perfettamente allo schizzo fatto da Calvaruso, compresi i paletti di castagno, nuovi, a sostegno della recinzione.

Ma arriviamo in ritardo. Qualche giorno prima infatti, preoccupati della collaborazione di Calvaruso, i mafiosi hanno provveduto a spostare le povere spoglie in un altro luogo che non ho mai individuato. Nel terreno di Baida troviamo solo una pietra tombale di granito grezzo, senza scritte; e della terra smossa.

Datare con esattezza la morte di Vincenzina Marchese è stato piuttosto semplice. Tullio Cannella - il socio di Calvaruso che avevo arrestato dopo la cattura di Bagarella e che aveva deciso di collaborare - mi ha raccontato di non averla più vista dal 13 maggio 1995. È possibile dunque che la donna si sia tolta la vita nel tardo pomeriggio del giorno prima. Proprio la notte tra il 12 e il 13 maggio, Calvaruso telefona a Cannella e con voce emozionata gli dice: «Tullio mio, non c'è pietà nemmeno per le proprie carni!». Una frase enigmatica, che poi abbiamo capito, si riferiva alle modalità di trasporto del cadavere che Calvaruso riteneva forse umilianti per la povera donna.

Ho indagato a fondo sul mistero della morte di Vincenzina, ma nessun elemento mi fa pensare a qualcosa di diverso dal suicidio. Il suo è il dramma di una donna vissuta e morta in latitanza. Una vera storia d'amore finita in tragedia. Punto e basta.

Nell'album di Cosa nostra, quella tra Bagarella e Vincenzina è una delle poche autentiche love story. Leoluca stravede per la moglie, ed è un marito affettuosissimo. Raccontano i pentiti: «Quando Vincenzina telefonava, dicendo che aveva calato la pasta, don Luchino interrompeva ogni attività e correva a casa». Ma le attività di Bagarella erano un po' particolari: poteva quindi accadere, come è accaduto, che il boss sospendesse lo strangolamento di qualcuno, andasse a casa a mangiare, e poi tornasse. A tirare la corda al collo di quel disgraziato.

Con l'improvvisa morte della moglie, Bagarella entra in una sorta di periodo sabbatico: finisce di ordinare e di eseguire omicidi. È la sua forma di lutto. Si è vestito di nero e ha completamente smesso di uccidere. Forse per rispetto alla memoria della sua donna.

L'ultimo omicidio accertato è del 28 aprile. E sì che ne aveva parecchi, di delitti, da eseguire. Ma dal giorno della drammatica scoperta del suicidio della moglie tutti i progetti di morte già messi in cantiere vengono sospesi. E così si salvano (per quello che sappiamo con certezza) diversi mafiosi, un paio di avvocati, un parlamentare e un facoltoso commerciante palermitano già nell'elenco dei condannati per una questione di pizzo.

Dopo un mese di lutto, proprio nei giorni dell'arresto, Bagarella stava tornando a nuova vita, di nuovo operativo. Calvaruso mi descrive una scena apparentemente amena. Un giorno, poco prima della cattura, escono in barca: il boss vuole distrarsi un po'. Una gita domenicale al largo di Termini Imerese, su un piccolo gozzo, con Tony che rema e don Luchino che fuma il sigaro e si gode la splendida giornata di sole primaverile.

A un certo punto, indicando dal mare i paesi sulla costa, tutti compresi nel mandamento di Caccamo, al cui vertice c'è il suo odiato nemico Nino Giuffrè legatissimo a Provenzano, Bagarella comincia a snocciolare i nomi dei relativi abitanti da eliminare nei giorni a venire.

I racconti di Tony Calvaruso e Tullio Cannella, i suoi uomini fidati, ci consegnano un quadro molto circostanziato del potere e del carattere di Bagarella. A cominciare dal suo profilo criminale. È lui il capo militare di tutta Cosa nostra, il mandante di decine e decine di omicidi, il responsabile operativo, con Giuseppe Graviano, degli attentati di Roma, Milano e Firenze. È lui il vero erede di Totò Riina, che, appena arrestato, di fatto gli cede il comando.

E tratta alla pari con Bernardo Provenzano. «Il mio compaesano», lo chiama, e sicuramente mal lo sopporta. Doverosamente lo consulta spesso, ma poi fa sempre di testa sua.

All'inizio del '95, per esempio, c'è da mettere fine alla faida di Villabate, paese alle porte di Palermo, dove due cosche si fanno la guerra per la leadership del territorio. Da una parte i Di Peri, legati a Pietro Aglieri e Carlo Greco e, quindi, a Provenzano; dall'altra i Montalto, vicinissimi a Salvatore Riina.

Tutto comincia con l'omicidio di Francesco Montalto, figlio di Salvatore, il boss che Riina ha voluto a capo di quel mandamento. Lo chiamano «cane fedele» perché è totalmente nelle mani di Totuccio, con cui si è schierato tradendo e facendo assassinare il suo vecchio capo durante la guerra di mafia degli anni Ottanta.

Ma ora Salvatore Montalto è in carcere; il figlio maggiore, Giuseppe, pure; il secondogenito, Francesco, che ne ha ricevuto l'eredità mafiosa, è stato ucciso. Vincenzo Montalto, fratello di Salvatore e zio del ragazzo assassinato, non sembra avere le doti giuste per gestire un mandamento importante come quello di Villabate. Così Bagarella decide di «metterci mano», di intervenire personalmente.

Prima di farlo manda Giovanni Brusca da Provenzano con un messaggio preciso: «Chi vuole che io risparmi a Villabate?». La risposta dell'anziano capomafia sembra di quelle che si mettono in bocca ai mafiosi nelle fiction. Invece è vera: «Tutti e nessuno» dice 'U zu Binu. Quel non pronunciarsi, a modo suo raffinato e certamente ambiguo, da mafioso di alto livello, serve solo a non scoprire le carte, a non rivelare al cognato di Riina quali siano i «suoi» uomini in quella zona.

Bagarella comincia ugualmente le operazioni di repulisti a Villabate, con lo scopo di mettere un suo uomo, Nino Mangano, al vertice di quella famiglia. Ma il progetto non va a buon fine perché arriviamo prima noi, che arrestiamo lui, Mangano e molti dei suoi sodali.

In quel periodo, prima metà del 1995, Bagarella ha aperto vari fronti di guerra. Non solo a Villabate, ma anche a Palermo e a Corleone, e sta per scatenare un'offensiva a Caccamo e a Termini Imerese. Si è convinto che sia in atto un complotto contro i corleonesi, un progetto per uccidere suo nipote Giovanni, figlio maggiore di Salvatore Riina, a cui è affezionato come fosse figlio suo, e con il quale condivide le passioni sportive per la Ferrari e per il Milan.

Secondo don Luchino, dietro il presunto complotto c'è lo zampino dei cosiddetti «scappati». E con questa scusa, con la scusa di un complotto peraltro mai dimostrato, il cognato di Riina scrive una delle pagine più nere della storia di Cosa nostra. Prima fa ammazzare la famiglia Giammona (moglie, marito e fratello del marito): due agguati nel pieno centro di Corleone, dove non si sparava da circa trent'anni.

Poi scatena la strage dei ventenni. Una tragica catena di omicidi barbari e gratuiti.

La prima vittima è Marcello Grado, vent'anni, appunto, figlio di Gaetano, detto Tanino occhi celesti. Assieme a Grado viene ammazzato anche Luigi Vullo, che non ha altra colpa se non quella di essere coetaneo e amico di Marcello, e di stare insieme a lui quella mattina.

I due ragazzi vengono affiancati da Nino Mangano e da Pino Guastella.

I sicari esplodono tre colpi di calibro 38 ciascuno, quasi a bruciapelo. Tutti a segno. Tutti alla testa. Marcello muore immediatamente, mentre Luigi riesce a resistere per qualche ora.

Bagarella è lì sul posto, a bordo della sua Opel Swing celestina. A godersi la scena.

Qualche settimana dopo viene sequestrato e seviziato un altro giovanissimo, Gian Matteo Sole, ventitré anni, totalmente estraneo a qualsiasi logica criminale: un ragazzo tranquillissimo, assolutamente perbene. Gente normale, famiglia di impiegati. Si tratta di uno scambio di persona, perché quello che i sicari cercano è il fratello di Gian Matteo, un altro amico di Marcello Grado.

Quella di Gian Matteo Sole è una delle tante storie di mafia dimenticate in fretta e mai raccontate. Mai finite sotto i riflettori dei media. Viene sequestrato una mattina di primavera mentre va a lavorare in uno studio tecnico. La sua auto viene bloccata in mezzo alla strada da un'altra più grossa con lampeggiante e finta paletta della polizia. Gian Matteo non capisce. Quattro uomini scendono e lo portano via. Fino agli uffici di un'impresa edile, in viale Strasburgo, dove ad attenderli c'è Bagarella in persona che in quella terribile messinscena si fa chiamare «ispettore».

Gian Matteo viene interrogato e torturato per più di due ore. Non dice nulla per il semplice fatto che non sa nulla. È la persona sbagliata; adesso lo hanno capito anche loro. Ma ormai è troppo tardi. Gli stringono lo stesso la corda al collo e in pochi istanti gli tolgono la vita.

Lo sbattono per terra, a faccia in giù, e mentre lo strangolano Pino Guastella gli salta più volte sulla schiena dicendo cinicamente «Così muore ballando!»: il riferimento è forse a una discoteca di Corleone che Marcello Grado e il fratello di Gian Matteo effettivamente frequentavano. E che frequentavano anche i figli di Riina.

Il corpo del ragazzo viene caricato su una Fiat Croma e abbandonato davanti a una segheria nei pressi di Villagrazia di Carini. A due passi dall'aeroporto di Palermo. La macchina viene data alle fiamme. I Vigili del fuoco trovano il cadavere quasi completamente carbonizzato.

Non so se il complotto degli «scappati» esistesse o meno, certo questi ragazzi ne dovevano essere del tutto estranei. L'omicidio di Gian Matteo è uno dei più atroci, perché sfugge anche alla più perversa logica mafiosa. Ogni tanto ci ripenso: se fossimo arrivati alla cattura di Bagarella un paio di mesi prima, avremmo forse evitato quell'inutile, barbaro sacrificio.

Ma don Luchino si era fissato con questa storia del complotto. Era il suo modo di ragionare da mafioso e lui mafioso lo è da quando ha il bene dell'intelletto. E non ne è affatto pentito. Anzi: la parola «pentito» gli fa orrore, gli fa venire il sangue agli occhi. Questi pentiti, fosse per lui, li avrebbe eliminati con le sue stesse mani, compresi i loro parenti prossimi e lontani.

La primavera del 1995 passa alla cronaca come le «idi di marzo». Giorni terribili di vendette e di sangue, di atroci delitti che portano la firma di Leoluca Bagarella. Un giorno, mentre in compagnia di Tony Calvaruso sta sorseggiando un caffè in via Scobar, a Palermo, sente il barista salutare un avventore: «Buongiorno, signor Buscetta». Il solo sentir pronunciare il cognome del pentito più odiato da Cosa nostra deve avergli mandato il caffè di traverso. E ancora peggio deve sentirsi quando viene a sapere che quel signor Buscetta è proprio uno dei nipoti di don Masino, il noto boss dei due mondi, poi passato dalla parte dello Stato.

Tre giorni dopo Domingo Buscetta, che nella vita non si è mai occupato di mafia e fa il gioielliere, viene ucciso a colpi d'arma da fuoco in via Scobar, davanti al suo negozio. A eseguire materialmente l'inutile delitto sono sempre loro, gli uomini del gruppo di fuoco di Resuttana: Nicola Di Trapani, Pino Guastella e Giusto Di Natale.

Bagarella è sempre lì, sull'Opel Swing celestina. A godersi la scena.

È fatto così don Luchino.

E se pensa che qualcuno lo vuole fregare, diventa una belva. Come quando, da latitante, soggiorna all'Euromare village di Buonfornello, quello delle Torri d'Oriente, e ha il sospetto che il fornitore dell'acqua minerale lucri sul prezzo. Un giorno si fa accompagnare da Calvaruso al supermercato più vicino e ha la prova che cercava: sulla stessa bottiglia d'acqua, c'è una differenza di settanta lire. Sul momento non dice nulla, poi, tornando, in macchina, ordina a Calvaruso di dare una lezione a quel venditore «poco onesto». Tony fatica parecchio per convincerlo che quelle poche lire di differenza sono dovute al servizio a domicilio, e che in fondo si tratta di una cifra irrisoria. Per fortuna lo fa ragionare.

Più volte Calvaruso è riuscito a frenare gli impulsi omicidi del boss. Come quando l'amato nipote, Giovanni Riina, accusa «acidità» di stomaco in seguito a una scorpacciata di arancini di riso! Bagarella si arrabbia, va su tutte le furie, comincia a inveire contro la rosticceria di Palermo che ha venduto le arancine a suo nipote, e decide di uccidere il proprietario. Anche stavolta Tony fatica parecchio a fargli capire che è difficile non avere problemi di stomaco, dopo aver mangiato oltre un chilo di roba fritta...

Qualche volta Calvaruso interviene direttamente con le future, possibili, vittime. Davanti all'appartamento del boss in via Passaggio Mp1, per esempio, c'è un negozietto il cui proprietario apre molto presto la mattina. Poco dopo l'alba è già lì, a tirare su la sua saracinesca. Proprio quando don Luchino esce di casa, in compagnia del suo autista, per svolgere la sua impegnativa attività di capo di Cosa nostra.

A Bagarella gli sguardi incuriositi del commerciante sotto casa danno fastidio: «Mi scassa la minchia». E così dà ordine a Calvaruso di organizzare un agguato per eliminarlo.

Per evitare l'ennesima inutile vittima, Tony pensa bene di andare dal proprietario del negozio e dargli un buon consiglio: «Nun m'addumannassi né picchì né pi 'ccomu. Ma mi facissi 'na cortesia: la matina rapissi un pocu cchiù tarduliddu». Non me ne chieda il motivo, ma mi faccia la cortesia di aprire un po' più tardi al mattino.

Il commerciante capisce, e da quel giorno sposta il suo orario di apertura, evitando così di incrociare, anche se involontariamente, lo sguardo del capomafia.

È fatto così don Luchino.

Con qualche impulsività di troppo e con momenti di grande passione, mista a tenerezza. Come quando si invaghisce della cantante Ivana Spagna. Quella donna lo fa impazzire «ci facìa acchianari (salire) 'u sangu 'n testa», racconta sempre il suo uomo di fiducia. E deve essere vero, visto che un giorno, tra il serio e il faceto, medita addirittura di rapirla.

Calvaruso mi descrive la scena. È sera e insieme a don Luchino sta guardando il festival di Sanremo in televisione. Durante l'esibizione della cantante, con un sorriso sarcastico, Bagarella gli dice: «Chista mi piace, ci fussi 'i sequestrarla».

Ivana Spagna gli piaceva tanto, e ne ascoltava le canzoni, a casa e in macchina. Non credo proprio, però, che avesse realmente pensato di organizzare un rapimento. In fondo era solo la passione di un fan per l'artista, benché espressa in maniera adeguata al suo modus vivendi. Da quel che risulta, Bagarella è stato sempre fedelissimo alla moglie. Mai uno sgarro, mai un tradimento. Mai un'avventura.

È fatto così don Luchino.

Capace di vivere con poco, ma anche di pensare a imprese titaniche. Come quando si «rompe le scatole» di tutti quei politici che hanno preso in giro suo cognato Totuccio, Salvatore Riina, e decide di «scendere in campo» personalmente.

Sappiamo, da Tullio Cannella e da una serie di elementi oggettivi, che a metà del 1993 Bagarella fonda un suo partito. Lo chiama Sicilia Libera: libera dalle leggi e dalle galere, libera dalle tasse. Libera nel senso di porto franco. È incredibile, ma in quel periodo sono in tanti a pronosticare per la Sicilia un futuro da Panama d'Italia.

Sicilia Libera vuole, inequivocabilmente, essere il partito della mafia. Ha un suo simbolo, la Trinacria, una sua precisa linea politica, una lista di iscritti e poche, ma certamente qualificate, sezioni sul territorio.

Lo scopo di Bagarella è quello di infilarsi personalmente in politica con uomini e programmi tutti suoi. E con parole d'ordine che corrispondano alle esigenze di Cosa nostra. La mafia, insomma, deve farsi partito, deve arrivare in Parlamento senza intermediari. È un'idea che viene formalmente appoggiata anche da altri in seno all'organizzazione, ma che poi, all'improvviso, viene abbandonata.

Bisogna tener conto anche del contesto di quegli anni: lo scandalo di Tangentopoli, da una parte, e le stragi mafiose, dall'altra, hanno quasi messo in ginocchio le istituzioni e scardinato il tradizionale sistema dei partiti.

Il ragionamento di Bagarella poggia sulla convinzione che «i politici» hanno preso in giro suo cognato. Non sono stati ai patti, non hanno rispettato gli impegni. Ragion per cui è giunto il momento che la mafia si presenti alle elezioni, e magari vada al governo. Questa è la sua pretenziosa visione: condizionare direttamente la vita politica italiana.

Il movimento di Bagarella è una sorta di piccola Lega siciliana che rappresenta il primo e forse unico esperimento della partecipazione diretta nelle istituzioni degli uomini di Cosa nostra.

Le liste di Sicilia Libera compaiono nelle elezioni provinciali del 1993 e non vanno malissimo. Anzi, a Catania, capolista il vecchio andreottiano Nino Drago, ottengono il 10 per cento dei suffragi. Tullio Cannella, in rappresentanza del movimento siciliano (e di Bagarella in persona), partecipa a una riunione a Lamezia Terme, al fine di dar vita a una sorta di federazione di tutti i movimenti autonomisti del Meridione. Ma poi di colpo il progetto si arena.

Siamo alla fine del 1993 e, secondo alcuni collaboratori di giustizia, Bagarella capisce che la sua creatura politica è destinata a essere messa da parte: gli fanno notare che quello che lui, con tante difficoltà, sta mettendo in piedi ha poche possibilità di concretizzarsi, almeno a breve termine. I voti che Sicilia Libera può raccogliere nell'isola sono, a livello nazionale, una goccia nel mare.

Del resto anche il più ampio progetto delle cosiddette Leghe meridionali, di cui fanno parte alcuni membri di logge massoniche segrete e soggetti legati all'eversione nera, non sembra avere prospettive concrete. La Direzione investigativa antimafia ha già steso alcuni rapporti e diversi esponenti di primo piano (persone perbene, convinti monarchici o veri autonomisti), avendo intuito l'interesse delle grandi organizzazioni criminali per quel movimento, si tirano indietro.

Molti pentiti raccontano poi dell'attenzione di alcuni capi di Cosa nostra per il programma di Forza Italia, neonata formazione politica le cui proposte in materia di liberalizzazione dell'economia, di deregulation nel settore delle pubbliche commesse e, soprattutto, di riforma della giustizia in una logica cosiddetta garantista, potevano sembrare, in parte, corrispondenti alle aspettative del sodalizio mafioso.

Non sappiamo cosa sia successo. Di certo, a Sicilia Libera Bagarella ci crede. Per dar vita a questa sua creatura politica, il boss corleonese tira fuori cento milioni delle vecchie lire che, vista la sua proverbiale oculatezza, non devono essergli sembrati pochi.

Peraltro quella «sagoma» di Tullio Cannella, capace di organizzare una truffa anche mentre dorme, ci ha messo del suo. La festa di presentazione del nuovo partito, don Luchino l'ha appaltata proprio a lui. E Tullio non si è fatto pregare.

Banchetto di lusso, musica, vallette e dépliant, centinaia di invitati, esponenti del popolo di mafia, belle ragazze, politici, avvocati, dottori e colletti bianchi.

Al San Paolo Palace, albergo sul lungomare di proprietà dei fratelli Graviano: sala addobbata, caviale e champagne. Qualche giorno dopo Tullio presenta a Bagarella la nota delle spese sostenute. Totalmente falsa.

I Graviano, infatti, per rispetto verso il cognato di Totuccio Riina, non si sono fatti pagare. Hanno offerto loro i locali, il banchetto e tutto il resto. Dunque Cannella non ha tirato fuori nemmeno una lira. Si è intascato i cento milioni, ha fatto, come si dice, la cresta. Uno dei suoi tanti piccoli imbrogli, insomma. «Se Bagarella lo avesse saputo» racconta Tony Calvaruso «a Tullio gli avrebbe scippato (sradicato) la testa.»

Un'altra delle imprese titaniche sognate dal boss di Corleone è un progetto di evasione dal carcere dell'Ucciardone dove, prima dell'entrata in vigore della legge sulle videoconferenze, spesso transitava per partecipare ai processi, progetto che Bagarella ha studiato e messo a punto nei minimi dettagli.

Lo stratega corleonese, per la sua liberazione, predispone un vero e proprio piano di guerra. Con l'uso di missili terra-aria e granate anticarro per buttare giù il muro di cinta dell'antica fortezza borbonica.

Un commando di picciotti, armati di kalashnikov, sarebbe dovuto quindi entrare nel carcere, avrebbe dovuto ammazzare qualche decina di agenti penitenziari, e portarlo via. Quando il piano viene comunicato a Giovanni Brusca, incaricato della sua realizzazione, il giovane capomafia di San Giuseppe Jato, che non aveva certo voglia di rischiare la sua latitanza e la sua stessa vita per liberare don Luchino, risponde così: «Dicitici a Bagarella che forse s'ha vistu troppi film miricani!».