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La caccia al tesoro

 

Le Alpi innevate all'alba sono uno spettacolo straordinario. Non c'è una nuvola e il mio posto d'osservazione è il migliore possibile: a 7000 metri, seduto tra i piloti di un Falcon 30 della Compagnia aerea italiana. Il comandante mi sta illustrando le modalità dell'atterraggio nello scalo di Lugano. Bisogna fare attenzione, nel cominciare la manovra di avvicinamento all'aeroporto, alle correnti d'aria presenti in una gola in cui ci si deve infilare provenendo da sud. E noi siamo partiti proprio da sud, da Roma, alle cinque del mattino del 14 gennaio 1994.

Dietro, nella cabina passeggeri, insieme a una mezza dozzina di carabinieri del Ros, c'è Salvatore Cancemi, già capomandamento di Porta Nuova, ora collaboratore di giustizia. No, non è seduto come i militari dell'Arma su una delle morbide poltrone di pelle che, con lucide lampade d'ottone e tavolini in radica di noce, arredano il lussuoso aeroplano. È steso sul pavimento, con la faccia in giù, terrorizzato dall'idea di aver abbandonato il suolo terrestre e di trovarsi sospeso in aria.

«Santa Rosalia, Santuzza bedda, aiutami tu!» ripete supplicando, tra i sorrisi, nemmeno tanto repressi, dei carabinieri che certamente pensano all'assurdità della cosa. Un uomo che ha avuto la determinazione e il coraggio di uccidere decine e decine di persone, che è stato uno degli ideatori e degli esecutori della strage di Capaci, adesso trema come una foglia per un viaggio aereo di poco più di un'ora.

La nostra missione è una sorta di caccia al tesoro. Dobbiamo recuperare quattro milioni di dollari in contanti, che, secondo Cancemi, erano stati sepolti, nel 1984, dieci anni prima, nelle campagne del Canton Ticino.

Dollari provenienti dal traffico di stupefacenti. Eroina già raffinata importata da Cosa nostra dal Libano o dalla Turchia e spedita negli Stati Uniti via mare. La droga era stata sigillata all'interno di alcune casseforti appositamente acquistate da Salvatore Riina, imbarcate su una nave da carico e inviate, con tanto di bolle d'accompagnamento e documentazione doganale, a Boston. Le chiavi dei forzieri, però, erano giunte in America separatamente, con un volo di linea.

Totuccio Riina aveva già incassato la sua quota: due milioni di dollari. Degli altri quattro che stavamo cercando, due spettavano ad Antonino Rotolo, uomo d'onore della famiglia di Pagliarelli, e gli ultimi due erano la parte di Salvatore Cancemi.

E dire che nel suo primo interrogatorio, il 23 luglio 1993, lo stesso Cancemi aveva dichiarato di non aver mai avuto a che fare con la droga.

Era proprio strano Salvatore Cancemi, o meglio Totò Caserma come lo chiamavano sprezzanti i capimafia da qualche mese, da quando, latitante, aveva bussato, appunto, a una caserma dei carabinieri dichiarando di voler collaborare con lo Stato.

Si era presentato dicendo di temere per la sua vita e che preferiva finire in carcere piuttosto che ucciso per ordine di Bernardo Provenzano. 'U zu Binu avrebbe decretato la sua morte perché si sarebbe opposto a un presunto progetto dello stesso capomafia di Corleone di uccidere il Capitano Ultimo, l'ufficiale dei carabinieri «responsabile» della cattura di Totò Riina.

Nessuno dei miei colleghi che aveva seguito lo sviluppo delle prime dichiarazioni di Cancemi credeva a quel movente, ma ogni ipotesi alternativa sulle ragioni che avevano indotto il capo latitante di un mandamento importante come quello di Porta Nuova, l'erede di Pippo Calò, a costituirsi si traduceva in una mera supposizione e non trovava conferme.

Anni dopo mi sono convinto che la consegna di Cancemi fosse da mettere in qualche modo in relazione con gli attentati stragisti di Milano e Roma della notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 e con la fallita strage dell'Olimpico dell'ottobre successivo. Attentati dai quali forse il boss di Porta Nuova voleva tirarsi fuori o che, addirittura, avrebbe provato a impedire. Ma anche questa è una mera ipotesi fondata solo su riflessioni logiche e su qualche coincidenza temporale.

Fatto sta che raramente una collaborazione con la giustizia si era rivelata tanto spontanea quanto reticente.

Cancemi si presentava sostanzialmente come un agnellino finito senza sua colpa nella tana dei lupi. Negava di avere eseguito omicidi, estorsioni, traffici di droga. Non una parola sulla strage di Capaci che pur aveva contribuito a deliberare e in cui aveva svolto un ruolo di esecutore materiale.

I suoi interrogatori erano praticamente tutti uguali. Le notizie che sapeva erano sempre frutto di confidenze ricevute dal suo «collega» Raffaele Ganci, capomandamento della Noce. Quanto ai fatti del suo territorio si presentava come un mero portavoce della volontà di Pippo Calò. «Non so nulla di quell'omicidio, l'avrà deliberato Calò.» «Ma è stato commesso nel suo mandamento e Calò è detenuto dal 1985. Per le regole di Cosa nostra lei lo doveva sapere!» «Si saranno dimenticati di informarmi» era la replica di Cancemi che spostava altrove lo sguardo per non incrociare i nostri, perplessi e increduli.

I primi mesi della sua collaborazione erano stati caratterizzati da centinaia di contestazioni e da decine di confronti con altri affidabili collaboratori che, inutilmente, cercavano di fargli tornare alla mente episodi delittuosi cui Cancemi aveva partecipato in prima persona.

Niente da fare. Le uniche concessioni che ci aveva fatto riguardavano qualche sua rara partecipazione a traffici di droga, ma sempre con ruoli di secondo piano. La sua presenza nelle varie raffinerie che, in quegli anni, operavano nel Palermitano era ogni volta casuale. Nessun omicidio, nessuna richiesta di pizzo: no, non era lui il «Tot. Canc.» indicato nel libro mastro delle estorsioni dei Madonia di Resuttana. Quella abbreviazione non riguardava certo «Totò Cancemi»: forse Nino Madonia voleva scrivere «totale cancellato»! E noi dovevamo credergli...

Una prima svolta si era verificata il 1° novembre 1993. Messo alle strette dalle dichiarazioni di Santino Di Matteo che lo accusava di aver partecipato personalmente alla strage di Capaci, aveva cominciato, sia pur lentamente, a confermare le sue responsabilità nel gravissimo attentato del 23 maggio 1992.

Negli interrogatori successivi Cancemi aveva fatto dei piccoli passi avanti, ammettendo qualche altro delitto. Ma si trattava veramente di inezie rispetto ai crimini che, per quanto ci risultava, doveva aver commesso.

Il 9 novembre era entrato in palese contraddizione con le sue stesse dichiarazioni e i miei colleghi che lo interrogavano avevano perso la pazienza. Avevano messo correttamente a verbale l'ennesima contestazione e gli avevano detto, chiaro e tondo, che di un collaboratore così la procura di Palermo non sapeva che farsene.

Cancemi, allora, aveva tirato fuori quella che per lui doveva essere la carta vincente: «Per dimostrarvi che sono attendibile, posso farvi recuperare alcuni milioni di dollari in contanti che ho sepolto in Svizzera. Ma per farlo mi dovete portare sul posto».

Come si fa a credergli ancora? Perché, a distanza di quattro mesi dalla sua consegna, Totò Caserma parla di questa storia? Vuole forse «comprarsi» la collaborazione? O, più semplicemente, vuole essere condotto all'estero per qualche ragione oscura? Ha capito che, dopo il suo coinvolgimento nella strage di Capaci, non può più mantenere un basso profilo di collaboratore e vuole tentare una fuga? Di quali appoggi può disporre in Svizzera?

Queste erano le legittime domande e perplessità dei miei colleghi a Palermo.

Io, che ero ancora sostituto procuratore della Repubblica di Termini Imerese, in verità, in quei giorni avevo altri e, almeno per me, ben più gravi problemi. Un paio di settimane prima mi ero presentato, insieme al mio collega Luca Masini, al Consiglio superiore della magistratura per denunciare alcuni fatti riguardanti il mio capo, Giuseppe Prinzivalli.

Insieme a Luca avevo avviato delle inchieste sulla cosiddetta malasanità siciliana e un imprenditore milanese ci aveva confessato di aver pagato una tangente di qualche decina di milioni di lire destinata a tale Salvatore Catanese, imprenditore e uomo politico di Caccamo, già legato a Salvo Lima e ad ambienti massonici, all'epoca presidente del Comitato di gestione della Usl di Termini. Catanese, inoltre, era sospettato di avere stretti rapporti con i mafiosi del luogo e per questo era stato oggetto di indagini da parte di Giovanni Falcone.

Recuperiamo le tracce bancarie del denaro e altri elementi di riscontro e predisponiamo la richiesta di custodia cautelare per Catanese. Prinzivalli in tre occasioni si rifiuta di vistarla accampando scuse di vario tipo. L'ultima volta veniamo a conoscenza che, giusto la sera prima, aveva partecipato a una cena organizzata dal Lions Club, durante la quale si era appartato a parlare proprio con Catanese. Nelle ore precedenti ci aveva cercato ripetutamente per richiederci informazioni sullo sviluppo delle più recenti indagini sul politico di Caccamo.

Ovviamente non conosciamo il contenuto del colloquio tra Prinzivalli e Catanese ma, al di là delle nostre legittime supposizioni sull'oggetto della discussione, né io né Luca avremmo mai incontrato privatamente una persona coinvolta nelle nostre indagini. Per questo motivo decidiamo di riferire l'episodio al Csm.

Proprio quando ritorniamo a Termini Imerese da Roma, troviamo un collega di Caltanissetta che, insieme a personale della Dia, sta perquisendo l'ufficio di Prinzivalli. Di lui, guarda caso, aveva parlato alla procura nissena, competente per i processi riguardanti i magistrati di Palermo, proprio Salvatore Cancemi accusandolo di essersi intascato una «vagonata» di soldi in relazione all'esito del maxi processo ter che Prinzivalli aveva presieduto in Corte di Assise a Palermo.

In passato Prinzivalli, che non aveva mai fatto mistero della sua profonda avversione per Paolo Borsellino e per i suoi metodi di lavoro, si era distinto per alcune assoluzioni di uomini d'onore che avevano destato un certo scandalo; soprattutto per le pesanti critiche da lui mosse, nelle motivazioni delle sue sentenze, al lavoro svolto dall'ufficio istruzione di Palermo. La più nota era l'assoluzione dei presunti esecutori materiali della strage di piazza Scaffa, costata la vita a ben otto persone durante la guerra di mafia degli anni Ottanta.

Non voglio ovviamente entrare nel merito delle accuse mosse a Prinzivalli che, peraltro, dopo essere stato condannato a dieci anni di carcere in primo grado, ridotti a otto in appello, è stato definitivamente assolto dalla Corte di Cassazione. Sicuramente, però, dopo la nostra denuncia al Csm, il clima in una piccola procura come quella di Termini, per me e Masini, era divenuto irrespirabile. La tensione si tagliava letteralmente con il coltello.

Un aiuto, devo dire inaspettato, mi era arrivato da Gian Carlo Caselli, da qualche mese procuratore di Palermo e che conoscevo appena avendolo incrociato un paio di volte e sempre in occasioni formali.

Gian Carlo mi aveva tirato fuori da quell'inferno. Aveva chiesto e ottenuto la mia immediata applicazione a Palermo, dove mi ero trasferito qualche giorno dopo. Mi erano stati, ovviamente, affidati i processi sulla mafia del Termitano e delle Madonie, insieme a diverse inchieste sulla malasanità in corso nel capoluogo siciliano, scaturite per la maggior parte dalle nostre indagini a Termini. Visto che non avevo ancora carichi in dibattimento a Palermo, Caselli mi aveva dato anche il compito di aiutare i colleghi nella raccolta delle dichiarazioni di qualche collaboratore di giustizia tra cui, appunto, Salvatore Cancemi.

Così ero finito su quell'aereo con il boss di Porta Nuova. Dovevo seguire materialmente lo sviluppo della rogatoria internazionale che avevamo richiesto alla Confederazione elvetica e io avevo accettato l'incarico con entusiasmo, senza pensarci un attimo.

Un magistrato doveva comunque andarci e la scelta era caduta su di me che ero il più giovane del pool che seguiva Cancemi e il più libero da impegni. Però, lo devo confessare, proprio mentre le ruote del Falcon toccavano la pista di Lugano mi era sorto qualche dubbio. Non conoscevo ancora bene gli altri miei colleghi di Palermo e, soprattutto, Gian Carlo Caselli, altrimenti non avrei certo fatto molti di quei pensieri.

Se fosse stata una trappola? Se Cancemi avesse voluto attirarci in Svizzera con una scusa? E perché avevano scelto proprio me? E tutte quelle raccomandazioni che mi aveva fatto Caselli prima di partire? Perché aveva provato senza riuscirci a procurami un cellulare svizzero (i Gsm non c'erano ancora) per tenermi in contatto costante con lui? Che bisogno c'era?

Avevo studiato attentamente tutti i verbali contenenti le dichiarazioni di Cancemi che avevo anche interrogato diverse volte. Conoscevo a menadito tutte le contraddizioni in cui era incorso e mi ero fatto un'idea chiara sulla quantità di bugie che ci aveva propinato e soprattutto sui tanti buchi neri dei suoi racconti. C'erano obiettivamente troppe cose strane, troppi silenzi, troppe reticenze. E poi quella sua singolare consegna alla vigilia delle stragi di Roma e Milano...

L'idea di mettere le mani su una pur piccola parte del tesoro di Cosa nostra, però, ci allettava e per questo, dopo lunghe discussioni con i colleghi, avevamo deciso di andarli a cercare quei soldi. Io avevo aderito alla tesi semplicistica secondo cui Cancemi voleva solo comprarsi la sua attendibilità, pagandola qualche milione di dollari. Bruscolini per uno come lui. Ma adesso anch'io nutrivo delle perplessità.

E poi perché i carabinieri sull'aereo hanno tutte quelle armi che cercano di nascondere ai miei occhi? Come fanno a portare in Svizzera quelle pistole e quelle mitragliette? Non possono certo girare armati nel territorio di uno Stato sovrano. Cosa temono? Cosa c'è sotto quella vicenda? E quella pantomima della paura di volare di Cancemi? Voleva forse distrarci da qualcosa? Ma il colonnello Mauro Obinu, che comanda gli uomini del Ros in missione con me, mi sembra una persona seria ed estremamente efficiente. Posso affidarmi a lui e poi, a questo punto, non ho alternative.

Non appena il piccolo jet si ferma sulla pista, cinque o sei macchine con i lampeggianti circondano l'aereo. Sembra la scena di un film americano con Bruce Willis. Ma il comandante Mazzacchi, un dirigente della polizia cantonale che ci viene incontro, non porta occhiali scuri, non mastica chewing gum e non ha certo l'aria da duro. È un ticinese gioviale e rubicondo, con un bel paio di baffi biondi, sottili e curatissimi. Ci offre il caffè al bar dell'aeroporto e invita me e Obinu ad andare con lui sulla sua macchina, mentre alcuni dei suoi uomini prendono in consegna Cancemi e lo fanno salire su un furgone.

Guardo perplesso il colonnello dei carabinieri che, evidentemente, deve aver fatto il mio stesso pensiero. Un'occhiata dell'ufficiale e tre carabinieri del Ros salgono sul furgone con Cancemi. Anche se hanno lasciato le armi a bordo dell'aereo dove, con i piloti e la hostess, è rimasto un loro collega, hanno l'ordine di non abbandonare un solo attimo il pentito; e la polizia cantonale non ha nulla in contrario.

Il comandante Mazzacchi ci intrattiene piacevolmente nel suo ufficio per un'oretta. Ci parla del suo lavoro quotidiano. A me e a Obinu viene spesso da sorridere quando ci illustra le sue tecniche per incastrare gli automobilisti che superano i limiti di velocità o gli italiani che fanno incetta di sigarette e liquori. Mi chiedo se quell'uomo sia in grado di gestire un'operazione così delicata. Ma mi sbaglio; e di grosso. La polizia cantonale svizzera ci darà una straordinaria dimostrazione di efficienza, preparazione, competenza tecnica.

Intorno alle otto arriviamo in tribunale. Abbiamo un appuntamento con il procuratore del Canton Ticino, Carla Del Ponte, il magistrato elvetico che da tempo forniva la sua preziosa collaborazione agli inquirenti palermitani e che, poco più di quattro anni prima, aveva rischiato di saltare in aria proprio a Palermo insieme a Giovanni Falcone e a sua moglie nella villa dell'Addaura. Era il 1989 e Carla Del Ponte lavorava con il magistrato siciliano alle inchieste sul riciclaggio di denaro e sui grandi traffici di cocaina. Chi ha messo la bomba sul bagnasciuga della villa al mare di Falcone, fortunatamente scoperta prima che esplodesse, forse voleva fare il colpo doppio. Voleva prendere, come usava dire Riina, i classici due piccioni con una fava.

Non avevo mai conosciuto personalmente la Del Ponte e avvertivo una sorta di timore reverenziale. Ma Carla è molto gentile e affabile. Ci diamo subito del tu e, prima di spostarci nella zona dove dovrebbe essere stato sepolto il denaro, mi fa portare l'ennesimo caffè della mia lunga mattinata: sarà stato il settimo o l'ottavo.

Sulla base delle indicazioni di Cancemi, che aveva parlato di un fondo appartenente a un suo zio che aveva vissuto a Lugano, gli svizzeri avevano già trovato il posto: nelle campagne tra Pazzallo e Montagnola, a una quindicina di chilometri dal capoluogo ticinese.

Ci arriviamo con una splendida Lancia Thema Ferrari a disposizione del procuratore cantonale. La macchina, come quasi tutte le veloci berline che aveva la polizia svizzera, era stata sequestrata a qualche contrabbandiere o trafficante di droga. L'efficiente legge della Confederazione stabilisce che quei veicoli, a chiunque intestati, vengano confiscati e assegnati a magistrati e forze dell'ordine. Una normativa simile c'è anche in Italia, ma chissà perché, viene applicata raramente e solo per qualche motorino o vecchia carcassa.

Gli svizzeri hanno già portato Cancemi sul luogo, una collinetta della penisola che si inoltra per qualche chilometro nel lago di Lugano dividendolo praticamente in due. C'è una costruzione di blocchetti di cemento a un solo piano con un paio di stanze a destra e una stalla a sinistra. L'aia davanti la casa è parzialmente coperta da una tettoia in eternit appoggiata su pali di legno. No, non sembra proprio di trovarsi nella campagna svizzera. Nessuna graziosa casetta in legno e muratura con finestre e balconi intarsiati, nessun fienile colorato, nessuna corpulenta vacca pezzata che pascola nelle vicinanze. Potremmo essere a Partinico o a Bolognetta. Si vede che nella zona c'è stata la mano di qualche siciliano, anche se adesso quella casa è di proprietà di un contadino del luogo.

Cancemi è perplesso: «Dottore, il posto è certamente questo. Ma c'è qualcosa che non mi torna. E la tettoia, all'epoca, sicuramente non c'era».

Si appoggia allo spigolo sinistro della casa e fa alcuni passi in avanti. «Unu, du', tri, quattru... Provate qui.»

Tre uomini con pale e picconi si avvicinano, ma Mazzacchi li blocca. Da una macchina scendono due tipi in tuta bianca. Uno di loro porta un pesante zaino sulle spalle. Sembra un ghostbuster. Appoggia lo zaino sul punto indicato da Cancemi e ci invita ad allontanarci.

È un'apparecchiatura a raggi X. Prudenti gli svizzeri: prima di scavare vogliono vedere cosa c'è sottoterra. Ma nel punto indicato da Cancemi la macchina non dà nessun segnale.

«Qui sotto non c'è nulla» dice sicuro il tecnico «acchiappafantasmi».

«Forse è stato Rotolo. Sarà venuto a prendersi i soldi a mia insaputa. Ma quando lo ha fatto? È in carcere da tanti anni. E poi mi avrebbe lasciato almeno la mia parte. Solo lui e mio zio, oltre a me, conoscevano il posto esatto.»

Invito Cancemi a riflettere meglio. Magari si è sbagliato. Forse la tettoia lo ha confuso. Mi allontano un po' dal gruppo e temo che, nella migliore delle ipotesi, quel viaggio in Svizzera sia stato inutile. Vado verso il bosco a sinistra. Di fronte a noi, dall'altra parte del lago, c'è Campione d'Italia. Magari con il mio telefonino analogico riesco ad agganciare il segnale cellulare della Telecom e a chiamare Caselli. Nulla da fare, non c'è campo.

Prima di tornare alla casupola noto però un certo movimento nella boscaglia e vedo, nascosti tra le frasche, diversi uomini in tuta mimetica. Tutti armati di fucili di precisione con cannocchiali a infrarossi e visori notturni. Non mi aspettavo tanta attenzione ed efficienza da parte della polizia cantonale. Penso ai racconti di Mazzacchi sugli automobilisti indisciplinati e spero di non commettere mai infrazioni al codice della strada elvetico.

Cancemi adesso è appoggiato con le spalle al muro esterno della casa, in corrispondenza del divisorio tra la stalla e le due stanze destinate ad abitazione. Conta ancora quattro passi in avanti e si ferma proprio accanto a uno dei pali che sorreggono la tettoia.

Altra Tac al terreno, ma stavolta la macchina emette dei bip e stampa una specie di radiografia. Il tecnico guarda la foto e ci rassicura: «C'è metallo ma non c'è esplosivo. Potete scavare».

Pochi colpi, a una ventina di centimetri dal palo, e uno dei picconi incontra qualcosa di solido. Si allarga il buco prima con le vanghe e poi, delicatamente, con le mani. Affiorano due bidoni di acciaio inossidabile, di quelli con il tappo a vite, normalmente utilizzati per trasportare il latte.

Dentro ci sono i dollari, sigillati ermeticamente. In perfetto stato. Li appoggiamo su un asse di legno e li mettiamo in fila. Su tutte le banconote c'è il ritratto di Benjamin Franklin, sono tagli da cento dollari. Contiamo settantotto mazzette da duecentocinquanta banconote ciascuna: un milione e novecentocinquantamila dollari, tre miliardi e mezzo di lire al cambio dell'epoca. Non avevo mai visto tanto denaro in vita mia.

Cancemi inizia letteralmente a ballare e si produce in una sorta di danza della pioggia sotto lo sguardo basito dei professionali poliziotti ticinesi. Alza più volte le mani in aria in segno di vittoria come in una specie di ola solitaria e ripetuta e si mette a girare in tondo. Come fosse in trance. E non la smette più: «Alè oh oh! Alè oh oh!». Una scena che non dimenticherò mai. È convinto di essersi finalmente guadagnato l'attendibilità, la patente di collaboratore affidabile, anche se gli è costata cara.

«Mancano due milioni e cinquantamila dollari» gli dico io per frenare il suo entusiasmo.

Cancemi allarga le braccia: «Rotolo sarà venuto a prendere la sua parte o forse l'avrà portata via quando li abbiamo seppelliti e io ricordavo male. E le due mazzette da venticinquemila dollari ciascuno che mancano dalla mia quota probabilmente saranno servite a mio zio, poveretto, per rientrare in Italia».

Mi faccio prestare il cellulare dalla Del Ponte e chiamo in procura a Palermo. Caselli è incredulo. Mi fa ripetere tre volte che avevamo trovato i soldi. Temeva che si trattasse di un bluff di Cancemi, dell'ennesima bufala che ci aveva «servito».

Torniamo al palazzo di Giustizia e chiedo a Carla Del Ponte di autorizzarci a proseguire nelle indagini in Svizzera. Una volta trovati i soldi dobbiamo seguire a ritroso il percorso che hanno fatto.

Cancemi aveva raccontato di essere andato con Rotolo a riscuotere il denaro proveniente dagli acquirenti americani dell'eroina in una banca di Ginevra, banca che sarebbe stato in grado di individuare. Ma a Ginevra non possiamo andare in quei giorni. Il 16 gennaio nel palazzo delle Nazioni Unite è atteso il presidente americano Bill Clinton per un incontro con il suo omologo siriano Hafiz al-Assad e le misure di sicurezza predisposte dal governo federale sono rigidissime.

Giungeremo solo qualche settimana dopo a individuare la banca e la transazione, estero su estero, dei sei milioni di dollari provenienti da un istituto di credito di Montreal. Ma non riusciremo ad andare oltre perché in Canada i soldi erano arrivati da un anonimo conto acceso presso una sorta di finanziaria di Panama che adesso non esisteva più, come non esistevano più i relativi documenti contabili, sempre che ci fossero mai stati.

Il bilancio della missione è però certamente positivo. Penso alla possibilità di recuperare almeno in parte l'attendibilità di un collaboratore che poteva essere veramente prezioso come Cancemi, al fatto di aver tolto a Cosa nostra una piccola porzione dei suoi profitti conseguiti vendendo morte e, poi, a quei tre miliardi e mezzo di lire che entreranno nelle casse dello Stato e che, spero, serviranno a finanziare il contrasto a Cosa nostra.

Sull'ultimo punto, però, mi sbaglio. Non ho fatto i conti con la competenza degli svizzeri in materia di soldi e con la furbizia di Carla Del Ponte. Forse non a caso, appena tre mesi dopo, verrà nominata procuratore federale.

Si fa portare Cancemi in ufficio e, incurante del fatto che non sia assistito da un difensore, lo interroga ugualmente e si fa mettere per iscritto che si tratta di denaro proveniente dalla vendita di droga. Io non posso far niente per contrastarla. Siamo a casa sua e lì comanda lei. Sulla base della legge federale elvetica tutto ciò che è comunque riconducibile al traffico di stupefacenti e che si trova nel territorio svizzero deve essere confiscato.

Le obietto che il ritrovamento del denaro è avvenuto a seguito di una rogatoria internazionale richiesta dal nostro Paese dove, peraltro, si è svolta gran parte dell'attività criminosa e cui, quindi, devono essere consegnati i soldi. Carla mi invita allora a consultare i documenti della rogatoria e mi fa notare che ci aveva autorizzato solo l'ispezione del terreno e non il sequestro del denaro che pure noi avevamo richiesto. Nulla da fare. I dollari restano in Svizzera. Inutili le mie proteste e rimostranze e, poi, tenuto conto dei buoni rapporti tra i nostri Paesi, non è il caso di andare oltre.

Mazzacchi, forse per farsi perdonare della beffa, ci invita tutti a cena in un ottimo ristorante e l'indomani, quando andremo a pagare il conto in albergo prima di tornare in Italia, scopriremo di essere stati ospiti della polizia ticinese.

Forse era destino che quel denaro rimanesse agli svizzeri. Mi viene spesso in mente il nuovo proprietario del terreno di Montagnola, quello che aveva costruito la tettoia e aveva piazzato i sostegni. Se avesse infisso i pali qualche centimetro più in là avrebbe certamente scoperto quel tesoro. Anche se, probabilmente, non sarebbe campato a lungo per goderselo.