VII
Carne buona per Giovanni Brusca

 

Le strade del centro di Palermo sono un viavai di sirene. Si avvicina il quarto anniversario della strage di Capaci e nel capoluogo siciliano è stata organizzata una delle tante cerimonie per commemorare l'eccidio.

Sono arrivate le autorità da Roma.

La bellissima Sala gialla del palazzo dei Normanni, con i suoi ori, i suoi stucchi, i suoi lampadari di cristallo, è stracolma di personalità e di gente comune. Per ricordare Giovanni Falcone e le vittime dell'attentato che ha messo l'Italia in ginocchio, lo Stato è sceso in forze. Ci sono il ministro dell'Interno, Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, e il ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick. Ci sono tutti i big della politica siciliana, almeno quelli «presentabili». Sfilano lungo le passatoie rosse stese per l'occasione dai commessi della Regione. Atmosfera ovattata: si stringono mani, si parla a bassa voce.

A poche centinaia di metri, in una stanza all'ultimo piano della squadra mobile, c'è tutta un'altra aria. Irrespirabile. Siamo tutti maschi e tutti fumiamo come turchi. Arnaldo La Barbera, il questore, non usa più nemmeno l'accendino: con il mozzicone della sigaretta finita ne accende subito un'altra. Il momento è importantissimo. Con il capo della mobile Luigi Savina e i segugi della Sezione catturandi Claudio Sanfilippo e Renato Cortese stiamo intercettando il telefono cellulare di Giovanni Brusca, il latitante più ricercato del momento.

Sveglio, attentissimo e prudente come pochi, il boss di San Giuseppe Jato ci sta facendo diventare matti. Continua a sfuggirci. Adesso lo stiamo ascoltando in diretta: parla con Santo Sottile, un suo uomo di fiducia, un macellaio del paese.

Dopo alcuni convenevoli, Brusca gli chiede: «Portami un pocu di carni bona». No, non sta parlando in codice. Carne buona. Vuole proprio bistecche e salsicce. Salsicce delle sue parti, quelle aromatizzate con i semi di finocchio selvatico.

I due si danno appuntamento ad Agrigento: «A 'u solitu postu» si dicono al telefono, ovviamente ignari di essere intercettati. E s'interrompe la comunicazione.

Proprio nella zona di Agrigento ci hanno portato le nostre ultime indagini: tutto ci fa ritenere che Brusca, rimasto isolato per gli arresti che hanno decimato i suoi favoreggiatori, possa aver trovato riparo da quelle parti.

È un'occasione da prendere al volo. Basterà seguire con discrezione Santo Sottile, e il macellaio di San Giuseppe Jato ci condurrà al latitante.

Pensiamo: è fatta! Nella piccola sala ascolto della questura, sempre più simile a un suk di un quartiere arabo, l'eccitazione sale alle stelle. Proprio nelle ore in cui si commemora Giovanni Falcone, potremmo essere a un passo dall'acciuffare l'uomo che ha premuto il pulsante del telecomando della strage di Capaci. Sarebbe un bellissimo regalo per tutte le vittime di Cosa nostra.

Disponiamo immediatamente il pedinamento di Sottile. Pensiamo, però, che non sia prudente seguirlo fin dalla partenza, da San Giuseppe Jato. Potrebbe accorgersene, insospettirsi e decidere di non fare più la sua consegna. Studiamo il percorso sulle mappe e decidiamo di aspettarlo in due punti strategici: lungo la superstrada Palermo-Sciacca e sulla Sciacca-Agrigento. Da lì, pensiamo, dovrà passare.

Ma, non si sa come, Sottile ci sfugge. Forse fa una strada alternativa, forse usa una macchina diversa. Sta di fatto che non riusciamo a individuarlo. Per un po' continuiamo a seguire le tracce del suo cellulare, ma a un certo punto perdiamo pure queste.

Lo riagganciamo attraverso il telefono, più tardi, quando è nella Valle dei templi, già sulla via del ritorno. Ha portato a termine la sua missione: consegna a domicilio. Bistecche e salsicce sono state recapitate a Brusca. L'occasione è sfumata e noi siamo letteralmente infuriati. Nella sala ascolto si impreca a più voci.

Quella domenica a Palermo c'è un altro evento importante: la prima messa, il primo incontro con i fedeli, del cardinale Salvatore De Giorgi, appena nominato nuovo vescovo della città. La cattedrale, tutta parata a festa, si trova esattamente accanto alla questura, e le campane, che suonano a ripetizione, ci disturbano non poco.

Alla delusione per non essere riusciti a seguire Sottile si aggiunge il fastidio per il frastuono provocato da quelle campane, i cui rintocchi risuonano nelle cuffie degli agenti e rendono difficile l'ascolto delle conversazioni intercettate.

Dire fastidio è poco. Arnaldo La Barbera, uno dei migliori sbirri che il nostro Paese abbia mai conosciuto, ci dà prova della sua straordinaria «competenza religiosa» e comincia a «elencare» un numero di santi certamente superiore a quelli riportati nel calendario.

Malediciamo la nostra cattiva sorte. «Se almeno quelle campane fossero state vicino a Brusca, mentre parlava al cellulare...» commenta qualcuno ad alta voce. Così, dal tipo e dall'intensità del suono, avremmo avuto un dato importante per poter localizzare esattamente il suo covo.

Dalla rabbia alla riflessione il passo è breve: nasce l'intuizione giusta, l'idea che risulterà vincente. Per individuarlo, quando il boss tornerà di nuovo a telefonare a Sottile, basterà provocare un rumore molto forte nella zona dove noi supponiamo si nasconda. Una sorta di verifica, di prova del nove.

Da giorni abbiamo circoscritto un'area dove il capomafia potrebbe aver trovato riparo. Contrada Cannatello, vicino alla spiaggia di San Leone. Una serie di villette a poche centinaia di metri dal mare, ma non siamo ancora riusciti a capire quale sia quella giusta.

L'idea di utilizzare un rumore come «cavallo di Troia» trova tutti d'accordo. C'è solo da scegliere il tipo di disturbo da provocare. Esaminiamo alcuni stratagemmi: dall'arrotino al venditore ambulante di gelati, dal carretto della frutta all'allarme di un'automobile... Alla fine si decide per la motocicletta senza marmitta, in grado di fare un fracasso molto forte senza generare alcun sospetto.

Dobbiamo solo sperare che l'indomani, come ogni giorno, Brusca e Sottile facciano la solita chiacchierata al telefono. La trappola è attivata. «Li riti sunnu a' mmari», le reti sono a mare, direbbero i pescatori della mia isola. Ora si tratta solo di aspettare.

Il giorno dopo, a Cannatello, è un lunedì come tanti. Molte case si sono svuotate, i villeggianti domenicali sono andati via, il traffico è scarso. L'agente con la motocicletta è pronto, ha studiato il percorso. Ora aspetta il via, il semaforo verde da parte della centrale, che scatterà non appena intercetteremo di nuovo il telefono del nostro uomo.

Passate le otto di sera, Brusca e Sottile non si sono ancora chiamati. Dal mio ufficio in procura decido di tornare a casa, quasi per scaramanzia. Sono inquieto. Mi butto sul divano senza neanche togliermi la cravatta e accendo la tv. Su Canale 5 va in onda una fiction un po' speciale. Uno sceneggiato intitolato proprio Giovanni Falcone che, ovviamente, ricostruisce anche la strage di Capaci, l'attentatuni, come la definiscono i mafiosi. L'esplosione tremenda, che in una frazione di secondo ha divelto un pezzo di autostrada e ucciso cinque persone, è stata opera dell'uomo che appena poche ore prima ho sentito al telefono ordinare bistecche e salsicce.

Scorrono le immagini in televisione, ma il mio pensiero è altrove. Con la testa sono a contrada Cannatello, dove il blitz potrebbe scattare da un momento all'altro. Mi pento di non essere andato in questura, in sala ascolto, ma in momenti come questo i magistrati sono di troppo. Sono solo gli agenti sul terreno a giocare la partita.

Non riesco a resistere all'ansia e chiamo sul cellulare Luigi Savina che è sul posto a coordinare l'operazione.

Mi risponde al secondo squillo con un urlo che ancora ricordo: «Lo abbiamo preso, lo abbiamo preso!».

Sento esplodere un paio di flash bang, i fragorosi petardi accecanti utilizzati dalle forze di polizia nelle irruzioni: segno che l'intervento è ancora in corso. Sprofondo nel divano e piango, davanti alla ricostruzione dell'attentato di Capaci che passa in televisione.

Lo abbiamo preso!

Compongo quasi meccanicamente il numero di cellulare di Gian Carlo Caselli e, appena sento la sua voce, altrettanto meccanicamente, ripeto: «Lo abbiamo preso, lo abbiamo preso!».

Proprio l'artefice dell'attentatuni... Mi rilasso e assaporo questa rivincita dello Stato.

Un arresto importantissimo che non sarebbe mai stato possibile senza l'aiuto dei pentiti. Le prime, concrete indicazioni che ci hanno portato sulle tracce del boss latitante sono venute infatti proprio dal mondo dei collaboratori di giustizia, da alcuni ex fedelissimi di Leoluca Bagarella che, una volta arrestati, sono passati dalla parte dello Stato.

Senza le rivelazioni di chi conosce l'organizzazione dall'interno, Cosa nostra sarebbe ancora oggi un pianeta inesplorato, un mondo invisibile e invincibile.

L'inchiesta sulla latitanza di Giovanni Brusca si trascinava ormai da quattro anni. Un nuovo impulso alle indagini viene da Tullio Cannella, l'imprenditore edile dell'Euromare Village, il fondatore di Sicilia Libera.

Cannella è legato da vecchia amicizia a Tony Calvaruso, l'autista di don Luchino, anche lui finito in carcere. In prigione Tullio si pente; Tony invece, sulle prime, non cede.

A fine anno, durante una drammatica udienza di un processo, nell'aula bunker di Rebibbia a Roma, Cannella rivolge un pubblico appello al suo ex amico, invitandolo a fare come lui, a collaborare con la giustizia.

Fino ad allora rimasto duro come una roccia, Calvaruso rompe gli indugi, «si mette a Modello tredici» e ci chiama. È il 5 gennaio del nuovo anno. La vigilia della Befana. Per noi, l'autista di Bagarella che collabora è davvero un bel regalo.

Tony Calvaruso ha vissuto per ben due anni fianco a fianco con Leoluca Bagarella e del capo corleonese conosce vizi, abitudini e segreti. Lo ha scarrozzato in macchina qua e là e ha una straordinaria memoria fotografica: ricorda con precisione volti e luoghi. Soprattutto luoghi, covi, tane e rifugi. La sua testimonianza è preziosissima.

È in carcere a Rebibbia, braccio speciale, sotto stretta sorveglianza. Quel giorno, un freddissimo venerdì, chiede un contatto con la Dia e con noi magistrati della procura di Palermo.

Nel parlatorio del carcere Tony esordisce: «Vi posso dare un'informazione utile: so dove Giovanni Brusca si è fabbricato la casa».

Per noi, in quel momento, Brusca rappresenta l'icona del male. Il suo nome è ai primi posti della lista dei latitanti. Insomma, è l'obiettivo numero uno.

Si era reso irreperibile quando era stato definitivamente condannato nel maxi processo. «Si era dato latino», come dice il popolo di mafia.

È figlio di don Bernardo, vecchio patriarca di San Giuseppe Jato, da sempre legatissimo a Totò Riina. «Un ragazzo molto sveglio, uno che farà tanta strada» aveva detto di lui, profetico, Tommaso Buscetta, molti anni prima.

I coordinatori delle indagini sulla latitanza di Brusca sono Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi; io entro a far parte del pool alla fine del 1995.

Nei primi giorni del nuovo anno c'è questa bella sorpresa: Calvaruso, factotum di Bagarella, decide di collaborare e ci offre su un piatto d'argento proprio l'indirizzo di Giovanni Brusca. «Una costruzione a fondo Patellaro» dice «località Borgo Molara.»

Lo stesso giorno otteniamo dal ministero l'autorizzazione per far uscire provvisoriamente dal carcere Tony Calvaruso, per condurlo sul posto e farci da guida.

La sua collaborazione deve assolutamente rimanere segreta. Ma come sempre in questi casi, sorge l'immancabile problema. Calvaruso divide la cella con altri due mafiosi di «rango». Non devono assolutamente accorgersi della sua improvvisa assenza. Potrebbero mangiare la foglia e far trapelare la notizia.

Bisogna escogitare qualcosa. Ci inventiamo un ordine di trasferimento per i compagni di cella: li mettiamo in traduzione per un interrogatorio «qualsiasi» a San Vittore. Trasferiamo i due mafiosi a Milano e Calvaruso a Palermo. Così svuotiamo l'intera cella e il suo spostamento passa inosservato.

Andiamo dritti a Borgo Molara: l'ex autista di Bagarella ci accompagna sul posto e ci indica la casa di Brusca. Poi torna in carcere. Ovviamente in un carcere per collaboratori.

Giri per le campagne, curve, strade polverose. Posti inaccessibili e posti qualunque. I luoghi di mafia sono quasi sempre normali, assolutamente anonimi.

Anche fondo Patellaro, a Borgo Molara, è un posto come tanti: un classico baglio siciliano con il gruppo di case intorno, circondato da mura di pietra e calce. Da generazioni è di proprietà della famiglia Patellaro che ci abita al gran completo. In mezzo a queste costruzioni, per lo più modeste, ce n'è una un po' meno modesta delle altre.

Una palazzina di lusso, perfettamente rifinita. Davanti c'è un bellissimo giardino con piante esotiche e irrigazione automatica.

«Quella è la casa di Brusca» ci dice Calvaruso. Il collaboratore ricorda con precisione ma le sue conoscenze sono inevitabilmente datate, vecchie di almeno sette mesi, da quando è finito in carcere.

C'è però pur sempre una probabilità che il killer di Falcone si nasconda ancora lì. Che fare?

Fare irruzione, giocarsi il tutto per tutto? Oppure, più prudentemente, aspettare? Decidiamo di non intervenire subito.

Non possiamo permetterci di rischiare, di fare un buco nell'acqua. Probabilmente, col senno di poi, facciamo un errore, errore che mi porto ancora dentro, con grande amarezza.

Forse, al momento di quel sopralluogo, il 7 gennaio, Brusca è proprio lì dentro. E quelle sono proprio le ore decisive per la sorte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che verrà ucciso quattro giorni dopo, nella notte tra l'11 e il 12. Se fossimo intervenuti subito a Borgo Molara, avremmo potuto arrestare il boss latitante e, forse, salvare la vita a quel ragazzino. Da qui il mio tormento.

In attesa di accertare l'eventuale presenza di Brusca nella villetta, facciamo quattro, cinque giorni di appostamento. Un controllo discreto intorno a quel gruppo di case. A operare, in gran segreto, sono il Servizio centrale operativo della polizia di Stato e la Direzione investigativa antimafia di Palermo e Roma.

Intorno alla casa, fuori e dentro, nessun movimento sospetto, a parte un malaugurato elicottero dell'Arma che l'8 gennaio comincia a girare a bassa quota su quella zona. Si sofferma proprio su fondo Patellaro, come un fastidioso moscone che ronza, con la sua elica che solleva terra e polvere. Sapremo in seguito che i carabinieri, ignari della nostra operazione, notando un certo movimento, erano venuti a dare un'occhiata.

Una coincidenza malaugurata perché, proprio a causa dell'elicottero, Rosaria Cristiano, la compagna di Brusca che - come sapremo dopo - è nella casa insieme al figlio Davide di cinque anni, se ne va.

Noi non l'abbiamo mai vista uscire, la signora. Ma, una volta pentito, Brusca ci racconterà che, quel giorno, la sua donna era là: «Mia moglie, mentre era in terrazza, si vide spuntare l'elicottero proprio in faccia. E decise di andarsene».

Questo ha detto, non una parola di più. La donna ha fatto le valigie e ha abbandonato la casa. Ancora oggi non sappiamo in che modo.

Solo in un secondo momento scopriremo, fra le tante sorprese di quella palazzina, anche un tunnel sotterraneo. Non ancora perfettamente ultimato, ma geniale! Una galleria scavata in profondità. Un enorme tubo d'acciaio interrato, un passaggio segreto che dall'appartamento porta a un fiumiciattolo lì vicino: sbuca proprio sul greto di un torrente, in una zona di vegetazione selvaggia. Probabilmente è stata usata questa via di fuga. Non lo sappiamo, come non sappiamo se anche Giovanni Brusca fosse in casa quando è passato l'elicottero. Lui, in verità, lo nega.

Senza volerlo, i carabinieri hanno determinato la fuga della sua compagna, sotto gli occhi della polizia. Paradossi pirandelliani: siamo pur sempre in Sicilia.

All'alba della domenica successiva, 12 gennaio, decidiamo di fare irruzione. La casa è vuota.

Dentro è deserto. Non c'è anima viva. Ma ci sono tracce, segni evidenti di una presenza recente, recentissima.

Troviamo un quotidiano, il «Giornale di Sicilia» del 7 gennaio. Prova del fatto che, quando iniziano i nostri appostamenti, qualcuno in casa c'è. In un cassetto recuperiamo il passaporto della signora Cristiano e alcune recenti fotografie di Davide. Sono le prime immagini del figlio di Brusca di cui entriamo in possesso.

I segni che troviamo raccontano di una fuga precipitosa. Di sicuro anche il capofamiglia ha frequentato quel «covo». Già, il covo! In gergo si chiama così e chissà cosa si pensa. Questa di Brusca, per esempio, è una casa con tutti i comfort.

Una palazzina a tre piani, rifinita in ogni particolare, molto elegante. Decisamente di lusso. Almeno secondo i «loro» gusti. Forse un po' kitsch: pregiati graniti, rubinetti dorati, sale da bagno con ampie vasche idromassaggio. E aria condizionata, tappeti persiani, frigoriferi con riserve di viveri sufficienti per mesi.

Mi colpiscono le tre stanze armadio. Una per ogni componente della famiglia. Non il classico armadio quattro stagioni, ma tre grandi stanze guardaroba: c'è quella per i vestiti della signora, tutta specchi e abiti firmati. Tailleur di Moschino, pantaloni di Armani, bluse di Coveri.

C'è quella per il figlio Davide e un'altra tutta per Giovanni Brusca e i suoi abiti. Soprattutto le sue camicie. Ne troviamo tantissime, centinaia. Un'intera parete di camicie. Tutte in fila, stirate e inamidate, appese alle stampelle. Sono ordinate secondo il colore: rosa, gialle, azzurre, color menta e color salmone. Un arcobaleno di camicie. A righe, a quadri... Alcune con i polsini per i gemelli. E poi una sfilza di camicie bianche, di seta, di lino, le famose Brooks Brothers venute dall'America.

Scopriamo così, per la prima volta, questo lato vanitoso del boss, questa sua insospettabile eleganza, ricercata e quasi maniacale.

Brusca non c'è, ma ci sono i suoi vestiti. Le pantofole, il pigiama, la schiuma da barba. Insomma tra quelle mura c'è ancora il suo odore.

Ci sono le sue tracce. Tracce fresche di un pericoloso capomafia in fuga. Ma non ci sono bigliettini, né documenti, né appunti. Un libro ci incuriosisce: Cose di Cosa nostra, la famosa intervista della giornalista francese Marcelle Padovani a Giovanni Falcone. È in camera da letto, sul comodino. Forse gli è stato regalato da qualche amico per Natale. E magari, mentre noi lo cercavamo, il boss stava leggendo proprio i pensieri della sua vittima «eccellente».

Dopo l'irruzione, Giuseppe Patellaro, il proprietario del fondo che ospita il covo, viene portato via in manette. All'apparenza è un tranquillo signore di mezza età. È il fratello di un noto ciclista siciliano, un campione degli anni Ottanta, Benedetto, che sulle due ruote ha costruito la sua fortuna. Ma la ruota della fortuna gira. E stavolta, per la famiglia Patellaro, gira male. L'accusa di favoreggiamento regge e l'uomo si farà qualche anno di carcere.

In seguito lo stesso Brusca parlerà in dettaglio della sua latitanza, ma sul periodo di Borgo Molara rimarrà sempre molto reticente. Se anche lui fosse lì nei giorni del nostro appostamento; in che modo fosse fuggita la moglie; chi avesse costruito il tunnel sotterraneo... Tutto questo ancora oggi resta un giallo, un mistero. Uno dei tanti.

Quel che è certo è che tra le mura di quel covo avviene il mio primo incontro ravvicinato con l'assassino di Falcone.

Un secondo incontro si verifica poco tempo dopo, quando decide di collaborare Giuseppe Monticciolo, personaggio chiave della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato.

Monticciolo è un imprenditore edile di paese: camicia di seta e scarpe sporche di calce. Gira in Mercedes e maneggia soldi sporchi.

È il genero di uno dei killer di Capaci, Giuseppe Agrigento, capofamiglia di San Cipirello, di cui ha sposato la figlia Laura. Traffica con calcestruzzo e mattoni e nel tempo libero fa il sicario per conto di Giovanni Brusca.

Tony Calvaruso ce lo indica come l'alter ego del «padrino». Lo arrestiamo il 20 febbraio del 1996. Prima ancora di arrivare in carcere Monticciolo decide di collaborare: non ci pensa due volte a tradire il suo capo. E ci dà subito la dritta giusta.

«I fratelli Brusca» ci dice «si appoggiano a casa di un certo Baldinucci, a Borgetto.»

La caccia continua. La Dia si precipita. Nella casa di Borgetto, a pochi chilometri da Palermo, manchiamo i due fratelli per un soffio. Trenta minuti prima, li avremmo trovati lì, tutti e due insieme, Giovanni ed Enzo, il fratello minore. Ma, ancora una volta, ci beffano. Quando entriamo nella casa se ne sono appena andati, senza lasciare traccia.

Sono fatti così, gli uomini d'onore: quando si tratta di sbirri e magistrati, è come se ne sentissero l'odore a distanza; una sorta di sesto senso, il fiuto animale di chi è abituato a stare perennemente sul chi va là, sempre pronto a tagliare la corda.

È questo il mio secondo incontro ravvicinato con il boia di Capaci, il mio secondo buco nell'acqua. Ma intanto intorno al boss è sempre più terra bruciata. Appoggi e protezioni, via via, vengono meno. Ormai si sente braccato, accerchiato, assediato. Con il fiato sul collo.

Una mano a catturarlo ce la può dare proprio questo Monticciolo. La sua dritta si è dimostrata fondata.

Potrei dire di lui tutto il male possibile. Giuseppe Monticciolo è colui che ha svolto i lavori più sporchi per conto di Giovanni Brusca, compresa la gestione dell'ultimo anno di prigionia di Giuseppe Di Matteo. Se ne è occupato lui, in modo quasi esclusivo. Procurare i vivandieri, spostare il ragazzino da un covo all'altro, organizzare i turni di guardia. È Monticciolo che costruisce un sofisticatissimo bunker a San Giuseppe Jato, in località Giambascio, che sarà l'ultima prigione del piccolo ostaggio.

È lui che rimedia gli escavatori, le ruspe, i mattoni, il cemento. È lui che dirige i lavori. Come imprenditore edile, infatti, non ha difficoltà a procurarsi uomini e mezzi. È l'unico del gruppo che può muoversi liberamente: non ha precedenti penali, mentre i fratelli Brusca sono latitanti.

Personaggio di grande spessore criminale e di animo particolarmente feroce. Ambiziosissimo e dotato di ottime protezioni grazie alla parentela con gli Agrigento. Nella graduatoria del potere a San Giuseppe Jato è il numero due, viene addirittura prima di Enzo Brusca. Ma per noi è un soggetto praticamente sconosciuto, almeno prima delle rivelazioni di Tony Calvaruso.

È basso, scurissimo in viso, occhi neri, vivaci e penetranti. Occhi che ti mettono in difficoltà. Una volta arrestato sceglie la collaborazione e manifesta un odio esagerato nei confronti di Giovanni Brusca.

Una rivalità covata a lungo. Giuseppe Monticciolo si ritiene superiore dal punto di vista criminale e non sopporta di essere l'eterno secondo.

Alcuni giorni dopo la sua collaborazione si «pente» anche Vincenzo Chiodo, il custode di Giambascio. Entrambi ci parlano dei terribili segreti che si nascondono in quel posto. E in una nebbiosa mattina di fine febbraio facciamo l'incursione e ci troviamo di colpo dentro un'agghiacciante casa degli orrori.

Un anonimo casolare di campagna che nasconde un rifugio sotterraneo degno di James Bond. Basta azionare un telecomando e ti ritrovi dritto dritto nelle stanze della morte. Ma stavolta non è un film.

È il bunker di Giambascio, contrada di campagna vicina a San Giuseppe Jato. Colossale armeria e «macelleria» personale di Giovanni Brusca. Qui troviamo il più grosso quantitativo di armi mai scoperto e sequestrato in Italia. Le riprese video, effettuate dalla Dia, finiscono su tutti i telegiornali.

Quando, oggi, sento parlare di arsenali sequestrati qua e là a qualche clan criminale, e sento che si tratta magari di una decina di pistole e di un paio di fucili, penso a Giambascio e mi viene da sorridere!

C'è un terreno incolto, con una casa di campagna uguale a mille altre, per metà abusiva, quasi in stato di abbandono. Ma dentro, la scena cambia: grazie a un telecomando, una parte del pavimento della lurida cucina si abbassa. E tramite un pistone idraulico azionato da una centralina elettrica, si accede a un piano sotterraneo segreto. Una tecnologia straordinaria. La piattaforma mobile è costituita da quattro mattonelle, un quadrato perfettamente mimetizzato dalle fughe del pavimento. Insospettabile. Sembra la casa di Diabolik. Ci si mette sopra, si preme il tasto di un radiocomando e la piattaforma si abbassa. Scende giù, come un ascensore.

Sotto ci sono due stanzette e un disimpegno. Scavando da lì si accede a un grosso tubo d'acciaio interrato, e dal tubo, procedendo carponi, si arriva a una cisterna sotterranea dove è nascosto l'arsenale.

Gli agenti che si calano non credono ai loro occhi. Continuano a estrarre dalle viscere della terra fucili e pistole, bazooka e munizioni. Una serie di strumenti di morte che non finisce mai. Se li passano di mano in mano. Sembra il magazzino di una fabbrica bellica.

Nel tubo può entrare una persona per volta. Il dirigente della Dia Nino Cufalo e il capitano dei carabinieri Gigi Bruno, tutti sporchi di fango, entrano ed escono a turno da quel buco. Increduli, esterrefatti.

La flebile luce delle torce elettriche illumina una sfilza di armi lunghe e corte: più di quattrocento pistole di ogni tipo e calibro, svariate decine di fucili a pompa e semiautomatici, baionette e mitra. Ci sono alcuni pezzi rari, da collezione: come una Desert eagle, una costosissima pistola americana. C'è un fucile Thompson con il caricatore circolare, come quello dei film sui ruggenti anni Venti di Chicago. A parte qualche vecchia lupara arrugginita, sono quasi tutte armi in ottimo stato.

Verso sera, dal fondo della cisterna, spuntano anche gli Ak 47, i micidiali kalashnikov. Centinaia. Uno dopo l'altro. Vengono messi tutti in fila, ma, per quanti sono, facciamo fatica a contarli.

E alla fine si tira fuori qualcosa di più ingombrante: alcuni lanciamissili simili a siluri. Dieci Rpg 18 di produzione sovietica: schierati lì, allineati sul terreno, sono mostruosi. Nessuno di noi ne ha mai visti prima. Fanno veramente paura. Sono i terribili «martelli di Allah», i bazooka terra-aria usati dai mujaheddin afghani per abbattere proprio gli elicotteri di Mosca, nella guerra contro l'Unione Sovietica.

Ci sono anche due Rpg 7. A differenza dell'Rpg 18, che è un lanciamissili monouso, l'Rpg 7 è un lanciagranate riutilizzabile. Può impiegare diversi tipi di munizioni, diverse cariche.

Missili nelle mani di Cosa nostra. Un acquisto di Giovanni Brusca nel 1992: una partita di armi comprata da un commerciante italo-svizzero che poi abbiamo arrestato. Sono gli stessi bazooka con cui sono state distrutte le famose statue dei Buddha, nella Valle del Bamiyan, in Afghanistan. Con queste armi, insomma, si può fare la guerra.

Troviamo anche le relative munizioni: decine e decine di granate con cariche supplementari di lancio per incrementarne la potenzialità offensiva.

E non poteva mancare l'esplosivo. Fusti di vario tipo: semtex, plastico, tritolo. Esplosivo in panetti o in polvere come il detersivo per lavatrice.

Ci vogliono molte ore prima di svuotare completamente quella cisterna. Cala la notte, si monta il gruppo elettrogeno e si accendono fari e riflettori. Sembra il set d'un film. Un film di guerra.

E di guerra si tratta, la guerra di Cosa nostra contro lo Stato.

Come si giustifica infatti questo arsenale, se non in una logica di scontro militare?

Un missile di questi può sventrare un'auto blindata, può colpire un aereo in fase di decollo o atterraggio; può fare decine, centinaia di vittime.

Di fronte ai loro razzi, noi abbiamo solo le armi della democrazia: legalità e rispetto delle regole.

Vicino a questa santabarbara, nel piano segreto della casa, ci sono due stanzette, ovviamente senza finestre ma in perfetto stato, con la luce elettrica, arredate del necessario. Quella con la porta di ferro è la prigione del piccolo Di Matteo. Il posto dove il ragazzino ha vissuto e dormito per diversi mesi, la cella dove è stato strangolato.

È stata perfettamente ripulita. Ma ancora oggi a pensare a quella camera sottoterra mi vengono i brividi. Torniamo a casa con addosso un profondo senso di inquietudine.

È il 25 febbraio del '96. La caccia a Giovanni Brusca continua. Con una maggiore consapevolezza della sua pericolosità: è sempre più urgente catturare l'uomo di quell'arsenale. La sua libertà è una gravissima minaccia per lo Stato democratico.

Qualche giorno dopo, durante un interrogatorio, Giuseppe Monticciolo aggiunge un altro tassello al quadro che ci porterà alla cattura del latitante.

In stretto dialetto siciliano dice: «Quannu ci abbruscia 'u culu, Brusca curri a Giurgenti». Quando è in difficoltà, Brusca si rifugia ad Agrigento. Aggiunge di non sapere altro, né il posto esatto, né i nomi di chi potrebbe ospitarlo.

Agrigento... Forse il nostro uomo si nasconde lì, a un paio d'ore di macchina dal suo territorio, all'ombra della Valle dei templi.

Proprio in quel periodo, insieme alla squadra mobile, stiamo battendo una pista per arrivare a Salvatore Cucuzza: altro pezzo da novanta latitante, reggente del mandamento di Porta Nuova, un boss di grosso spessore.

Nel gruppo dei suoi favoreggiatori c'è un ragazzo, Giovanni Zerbo detto 'U pastureddu, il pastorello. Potremmo arrestarlo per associazione mafiosa, ma nella speranza che possa incontrarsi con Cucuzza, lo lasciamo libero. Gli agenti della mobile lo tengono sotto discreto ma costante controllo.

In effetti, qualche settimana dopo, Zerbo ci porta proprio da Cucuzza. Il boss di Porta Nuova viene fermato. Addosso gli viene trovata un'agendina che risulterà preziosissima: la carta decisiva nella cattura di Giovanni Brusca.

Nella stessa operazione viene bloccato anche Giovanni Zerbo, trentadue anni, statura media, capelli neri e lisci con la riga a sinistra. Indossa un vecchio piumino blu e ha l'aria incantata, svagata e un po' impaurita. Come un pecoraio che per la prima volta va in città: come un pastureddu, appunto.

Una vita passata a spacciare eroina e cocaina facendo la spola tra Porta Nuova e corso Calatafimi. Uno dei tanti giovani a perdere che, nei momenti di difficoltà dell'organizzazione, vanno a ingrossare le fila dei cosiddetti affiliati. Uno come Zerbo non sa molto ma, «gratta gratta», anche da un tipo così, si può tirare fuori qualcosa.

È sabato sera e i ragazzi della scorta mi hanno chiesto una mezza giornata di riposo. Siamo tutti molti stanchi e anche io sento il bisogno di staccare la spina. Rimango a casa, a vedere un film in videocassetta. Squilla il telefono. È la squadra mobile, Luigi Savina che mi dice: «Cosa vuoi fare con Zerbo? È ancora qui da noi e mi sembra abbastanza disponibile a un dialogo. Forse è il caso che tu lo venga a sentire».

Problema: sono senza scorta e da solo non posso nemmeno andare a prendere un caffè. Sono costretto a richiamare i ragazzi e avverto il sacrosanto disappunto di Leonardo, il mio caposcorta, interrotto mentre sta a cena con una bella ragazza (che poi diventerà sua moglie). Professionisti serissimi: nemmeno un quarto d'ora dopo sono sotto casa mia.

Negli uffici della squadra mobile, appoggiato a una scrivania, trovo Zerbo. Si vede subito che è un tipo molto fragile, che non è in grado di reggere il carcere. Ha effettivamente un'aria sperduta, smarrita. Decide immediatamente di collaborare.

Durante il colloquio mi accorgo che, in fondo, tanto sperduto non è. Si rivela invece utilissimo: mi racconta che Giovanni Brusca e Salvatore Cucuzza hanno messo su un traffico di droga con due fratelli che, per la loro statura, vengono chiamati i Nanetti. Sono i fratelli Adamo, entrambi generi di Pino Savoca, già capofamiglia di Brancaccio.

Zerbo ci aiuta anche a decifrare l'agendina di Cucuzza, a scoprirne la chiave di lettura. E per noi è come entrare nell'elenco abbonati di Cosa nostra.

Per custodire i loro segreti, i capimafia hanno sempre usato dei codici d'accesso. L'agendina di Pippo Calò, ritrovata nella sua abitazione romana il giorno del suo arresto, nel lontano 1985, ne aveva uno che era tutto un programma: il codice «lunga morte».

Dieci lettere, ognuna delle quali corrisponde a un numero dall'1 al 9 più lo 0. Un sistema come un altro per criptare le cifre: alla lettera «L» corrisponde il numero 1, alla «U» il 2, alla «N» il 3 e così via, fino alla «E» che corrisponde allo 0.

Totò Cucuzza, pensando invece alla famiglia, che per tutti i mafiosi è sacra, ha scelto come codice la frase 'ntalè i soru, guarda le sorelle.

Un'agendina di sole lettere, fitte fitte. Per scoprire qual è il numero di una certa persona, indicata sempre con un soprannome o uno pseudonimo, bisogna sostituire una cifra alla lettera corrispondente. Come si fa, al contrario, con le parole crociate crittografate.

Zerbo conosce il numero di telefono dei fratelli Adamo, i Nanetti dell'agendina, e da qui partiamo. Decifriamo con certezza i primi caratteri e poi, aiutandoci anche con i prefissi, troviamo l'intera chiave di lettura, la frase di dieci lettere 'ntalè i soru, e risaliamo a tutti gli altri numeri. Parlo con Franco Lo Voi e decidiamo di concentrarci su questi Nanetti.

Mettiamo sotto controllo le loro utenze telefoniche: dall'analisi dei tabulati risaliamo a due strani numeri Gsm intestati a una vecchietta di novant'anni che abita a San Giuseppe Jato, il paese di Brusca. Del tutto legittima la nostra curiosità: in procura abbiamo ancora gli e-tacs analogici e questa anziana signora di paese, invece, avrebbe addirittura ben due cellulari digitali di ultima generazione.

Scopriamo anche che la novantenne non è una nonnetta qualunque che parla al telefono con i nipotini. È la zia di Santo Sottile. Ipotizziamo quindi che il macellaio di San Giuseppe Jato si sia servito della zia come prestanome, intestandole i cellulari per conto del boss.

E facciamo centro.

Dall'analisi del traffico telefonico viene fuori che ogni sera, dalle venti alle venti e trenta, uno di questi due telefoni entra in contatto con un altro Gsm che si trova nella zona di Agrigento. Ci ritornano in mente le parole di Monticciolo a proposito di Brusca, che scappa nella Valle dei templi quando si sente braccato. Decidiamo di intercettarlo e non ci sono dubbi: il macellaio parla proprio con il nostro latitante, è la sua voce.

E la chiamata aggancia una «cella» di contrada Cannatello.

La tecnologia dell'epoca non consente l'esatta localizzazione di un Gsm: il margine di errore è di circa due chilometri quadrati. Un'area troppo ampia per potere individuare con certezza la casa da cui parla il latitante.

Comincia così una corsa contro il tempo. Gian Carlo Caselli chiede aiuto ai vertici della Telecom e, per localizzare il telefono del capomafia, riesce a convocare d'urgenza, in una stanza della questura, addirittura, gli stessi progettisti del sistema Gsm.

Per potere isolare meglio il segnale, ordino alla compagnia telefonica di disattivare per un paio di giorni, dalle venti alle venti e trenta, tutte le celle circostanti la zona di Cannatello. Procedura eccezionale. Oltre al danno economico, l'azienda subisce una valanga di proteste degli utenti. Ma forse l'arresto di Giovanni Brusca val bene tutto questo.

Bisogna fare in fretta. Nel corso di una chiamata, il boss confida a Sottile che sta aspettando delle nuove schede telefoniche dal Belgio.

Se riuscirà a riceverle e ad attivarle per noi sarà un disastro. Infatti, per intercettare quelle schede, anche se utilizzate sul territorio italiano, bisognerebbe agire tramite rogatoria internazionale. Figuriamoci!

Siamo nel panico. Rischiamo di perdere questo prezioso contatto. Certo, potremmo fare comunque un intervento, un raid nella zona con due o trecento poliziotti. Ma chi ci dà la certezza che Brusca non ci sfugga per l'ennesima volta?

Abbiamo un'altra strada da percorrere, prima di rischiare il tutto per tutto: investigare sul territorio.

Così, sei agenti della squadra mobile, uomini e donne, vengono inviati a Cannatello, dove, discretamente, cominciano a ispezionare la zona. Un poliziotto in tuta da ginnastica fa footing sul lungomare; una ragazza bionda prende il sole a San Leone; una coppia mangia un gelato e passeggia tra i negozi. A distanza, ma non troppo, dall'area dove potrebbe trovarsi il covo del boss. Un'osservazione di massima, attenti a non farsi notare.

Il 16 maggio c'è una novità interessante.

Uno degli agenti ci comunica di aver visto una signora con un bambino, e di aver riconosciuto nel bimbo il piccolo Davide, il figlio di Brusca. «La fimmina non l'ho vista bene bene, ma 'u picciriddu» dice il poliziotto «mi è sembrato proprio quello delle foto di Borgo Molara.»

È una conferma. Ma non è ancora sufficiente a fugare gli ultimi dubbi e a farci intervenire. Non abbiamo infatti ancora la certezza che anche Brusca si nasconda nella stessa casa e, soprattutto, non abbiamo individuato il posto esatto dove poter fare l'irruzione: il poliziotto ha visto correre quel bambino verso un gruppo di villette, ma non sa dire esattamente in quale sia entrato.

E così arriviamo a quella maledetta domenica passata a fumare nella sala ascolto della questura. Il giorno del fallito pedinamento del macellaio Santo Sottile. La domenica delle campane suonate a festa, da cui ci viene l'idea di provocare un rumore nella zona sospetta.

L'indomani, lunedì 20 maggio, decidiamo di rompere gli indugi e di fare il blitz. L'operazione viene preparata con estrema cura. In fondo al viale che porta alle villette, un poliziotto con casco integrale munito di cuffie è pronto a bordo di una moto, smarmittata per l'occasione. Aspetta solo il via dalla centrale, che arriverà non appena il telefono di Brusca entrerà in funzione.

Alle venti e quaranta, un po' più tardi del solito, Sottile chiama Brusca. Pochi istanti di conversazione e il poliziotto-motociclista riceve l'ordine di muoversi. Decine di agenti sul posto sono collegati con la centrale della squadra mobile.

Appena sentono, nelle cuffie, il ritorno del rumore della moto smarmittata, localizzano subito la villetta giusta. Scatta l'irruzione. La casa viene immediatamente circondata. Entrano i poliziotti. Vengono esplosi i flash bang che seminano il panico.

Giovanni Brusca non ha nemmeno il tempo di reagire. Viene steso pancia in giù e ammanettato. Stessa sorte tocca al fratello Enzo che si trova nella villetta. Anche lui latitante. Nella confusione il piccolo Davide, stordito e spaventato, cerca riparo in giardino. I poliziotti lo prendono e lo consegnano alla madre che lo calma.

Dai Brusca la tv è accesa. Anche lì, come a casa mia, scorrono le immagini dello sceneggiato su Falcone. Mentre è in corso la perquisizione, sul video compare una scritta: «Arrestato ad Agrigento Giovanni Brusca...». Notizia in tempo reale.

È notte. I fratelli terribili di San Giuseppe Jato vengono portati in manette in questura a Palermo, accolti da un tripudio di clacson e sirene. Cittadini che applaudono. Poliziotti con il volto coperto che agitano i mitra in aria, in segno di vittoria. Lo sfogo, legittimo e umanamente comprensibile, di chi ha lavorato mesi e mesi, giorno e notte, nella sterpaglia e nel fango, sotto le intemperie, aspettando questo momento, questo risultato.

Il giorno dopo i fratelli Brusca vengono fatti uscire da una porticina laterale della sede della squadra mobile. Sono emaciati, hanno lividi e graffi sul viso, barbe lunghe. Sembrano due naufraghi. Vengono portati via in manette, costretti a passare per il cortile, attraverso una sorta di gogna mediatica: una folla di giornalisti, microfoni e teleobiettivi. Enzo ha un sussulto, un estremo atto di arroganza. Fissa le telecamere con gli occhi spiritati e tira fuori la lingua: un ultimo sberleffo.

Quando li portano fuori in manette scattano centinaia di flash e l'urlo «assassino, assassino».

L'assassino di Capaci, il killer che gli stessi compagni chiamano 'U verru, il maiale, adesso non fa più paura. È finita. L'uomo che ha ucciso Falcone, il boss che poteva eseguire altre stragi usando missili e bazooka, adesso è in una camera di sicurezza. Ha ancora le mani legate, perché qualcuno, nella confusione, ha perso le chiavi delle manette. Non si trovano. O forse nessuno ha voglia di trovarle. Gli agenti che lo hanno appena arrestato sono quasi tutti amici dei poliziotti saltati in aria a Capaci. Fosse per loro quelle manette non gliele toglierebbero più.

A Cannatello, intanto, inizia la perquisizione del covo. In questa villetta a due piani, molto meno lussuosa di quella di Borgo Molara, non troviamo nessun arsenale, nemmeno un'arma. A parte una pistola giocattolo del piccolo Davide, appoggiata su una seggiola. C'è invece qualche «pizzino»: una ventina di bigliettini. Due inequivocabili, scritti a macchina da Binu Provenzano, che si concludono con il classico auspicio «Dio ti aiuti e ti protegga». E poi un altro, firmato Gianni, diminutivo di Giovanni Riina, figlio maggiore di Totò, che chiede un incontro con Matteo Messina Denaro per sistemare affari e appalti.

Al primo piano scopriamo una specie di stanza del tesoro: in una delle borse da viaggio già pronte, forse per una fuga, c'è lo scrigno dei gioielli della signora Cristiano: orecchini, collane di perle, coralli e soprattutto brillanti. Tanti brillanti.

E poi, in una scatola, l'intera collezione di orologi di Giovanni Brusca. Una raccolta da vero estimatore.

Orologi da polso e da taschino. Rolex, Cartier, Girard-Perregaux, Vacheron Constantin, Ebel. Orologi con diamanti incastonati. D'oro e di platino. Pezzi rari. Una vera passione, quasi una malattia. Una smania, per il giovane Brusca. Forse un bisogno maniacale di misurare il tempo, tra un delitto e l'altro. Ma solo con orologi di grande marca.

Una cinquantina, ne troviamo, tutti stupendi, tutti di grande valore. C'è un Corum in oro giallo, il famoso modello con le bandierine marinare; e, ancora, un rarissimo cronografo Ulysse Nardin.

I gioielli, in parte, li abbiamo riconsegnati alla signora.

Gli orologi invece li abbiamo confiscati perché siamo riusciti a provarne la provenienza illecita. Per lo più, regali di imprenditori vittime di estorsioni e, però, «grati» al boss per aver ricevuto uno sconto sul pagamento del pizzo. Come un cronografo d'oro rosa, realizzato dalla Baume & Mercier in edizione limitata in occasione del proprio centenario e donato al boss per un subappalto nella realizzazione della strada a scorrimento veloce Palermo-Sciacca.

A Brusca, tempo dopo, restituiamo solo un Rolex, e soltanto perché riesce a dimostrare che si tratta di un regalo di compleanno dei nonni materni per il figlio Davide.

La sera stessa dell'arresto, Savina e Sanfilippo, d'intesa con noi della procura, cominciano a insinuare alcuni dubbi nel giovane «padrino». In un colloquio in questura, prima di trasferirlo all'Ucciardone, sostanzialmente gli dicono: «Senti, Brusca, parliamoci chiaro: non hai più speranze. Ti aspetta una valanga di ergastoli. Hai quarantanni e una prospettiva di "fine pena mai". Decidi quello che vuoi fare. La porta dello Stato è aperta».

E con grande sorpresa dei due bravissimi funzionari di polizia, Brusca non sbatte loro la porta in faccia: «Ci penserò e vi farò sapere».

Lo mandiamo all'Ucciardone, in un'area riservata e sotto la tutela del Gom, Gruppo operativo mobile, il nucleo speciale della polizia penitenziaria. Proprio per quel segnale di «apertura», scegliamo di non interrogarlo subito. Di lasciarlo un po' a riflettere.

Il 23 maggio 1996 a Palermo si ricorda la strage di Capaci. Sono passati tre giorni dall'arresto. Una moltitudine di cortei antimafia attraversa la città. Ci sono i ragazzi del Borgo Vecchio e dello Zen, i bambini di Brancaccio e le donne con «i lenzuoli». Ci sono politici e magistrati. C'è, soprattutto, tanta gente comune che si dirige verso l'albero Falcone, la pianta che cresce sotto l'abitazione del magistrato assassinato e che è diventato un totem della legalità.

La folla si ferma davanti al palazzo di Giustizia. Applaude il procuratore Gian Carlo Caselli. Una vera ovazione. Dopo anni di lutti e di paura si respira una nuova aria.

Guardo la scena da una finestra della procura. In genere evito di andare alle commemorazioni. Mi infondono tristezza. Preferisco ricordare dentro di me e lavorare: ammuttare carte, spingere le carte, come diciamo dalle nostre parti. E di lavoro, dopo l'arresto di Brusca, ce n'è tantissimo. Sono le cinque del pomeriggio quando, nel mio ufficio, squilla il telefono. È una comunicazione urgente dall'Ucciardone.

È il colonnello Enrico Ragosa, comandante del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Con il suo accento genovese e la sua inconfondibile voce roca, baritonale, mi dice: «Comandi, dottore. Il bambino ha bisogno d'affetto!» e riattacca. Capisco al volo: è la svolta!

Un messaggio cifrato, stile Radio Londra: Giovanni Brusca decide di arrendersi e di collaborare con la giustizia.

Bandiera bianca. Settantadue ore dopo quella timida apertura con gli uomini della squadra mobile, il boss dai mille nascondigli e dalle camicie di seta, l'uomo dei telecomandi e degli orologi, l'ultimo dei mohicani dello stragismo corleonese, ha deciso di passare al «nemico».

Come un bambino, adesso, chiede l'affetto dello Stato.