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VIVERE CON LA COSCIENZA
PERCHÉ LA COSCIENZA SI AFFERMÒ
Nella storia della vita, l’ascesa e la caduta di tratti e funzioni dipende da quanto essi contribuiscono al successo degli esseri viventi. Il modo più diretto per spiegare come mai la coscienza si sia affermata nell’evoluzione consiste nel dire che essa ha contribuito significativamente alla sopravvivenza delle specie che ne erano dotate. La coscienza venne, vide e vinse. Poi fiorì rigogliosa e adesso sembra sia qui per restare.
Quale fu, in realtà, il suo contributo? La risposta sta in una grande varietà di vantaggi, più o meno palesi, nella gestione dei processi vitali. Anche ai livelli più semplici, la coscienza aiuta a ottimizzare, negli organismi che la possiedono, le risposte alle condizioni ambientali. Le immagini elaborate nella mente cosciente forniscono dettagli riguardanti l’ambiente, e quei dettagli possono essere usati per aumentare la precisione di una risposta quanto mai necessaria: per esempio, il movimento preciso che neutralizzerà una minaccia o garantirà la cattura di una preda. D’altra parte, la precisione delle immagini non è che una parte del vantaggio conferito da una mente cosciente. Ho il sospetto che in massima parte quel vantaggio derivi dal fatto che in una mente cosciente l’elaborazione delle immagini riferite all’ambiente è orientata da un particolare insieme di immagini interne: quelle dell’organismo del soggetto, così come esso viene rappresentato nel sé. Il sé mette a fuoco il processo della mente, impregna di motivazione l’avventura costituita dall’incontro con altri oggetti e altri eventi, e infonde nell’esplorazione del mondo esterno al cervello un particolare interesse per quello che è al tempo stesso il primo e il principale problema che l’organismo si trova ad affrontare: la regolazione efficace dei processi vitali. Quell’interesse è spontaneamente generato dal processo del sé, il cui fondamento risiede nei sentimenti corporei, primordiali e modificati. Il sé - che sente spontaneamente e intrinsecamente - segnala in modo diretto, come risultato della valenza e dell’intensità dei suoi stati affettivi, il grado di interesse e di necessità presenti in ogni istante.
Quando il processo della coscienza si fece più complesso - e quando furono messe in campo le funzioni della memoria, del ragionamento e del linguaggio, evolute insieme a essa -, vennero introdotti ulteriori vantaggi: associati alla coscienza, essi hanno in larga misura a che fare con la pianificazione e la deliberazione. In questi ambiti, i benefici garantiti dalla coscienza non si contano. Divenne possibile esaminare il futuro e ritardare o inibire le risposte automatiche. Un esempio di questa capacità evolutivamente nuova è la gratificazione ritardata: lo scambio calcolato di qualcosa di buono disponibile nel presente con qualcosa di meglio da riscuotere in seguito - oppure la rinuncia a qualcosa di buono adesso, se l’esame del futuro indica che avrà conseguenze negative. Questa tendenza della mente cosciente ci ha consentito una gestione più raffinata dell’omoeostasi fonda-mentale, e alla fine ha dato inizio all'omeostasi socioculturale (sulla quale tornerò in seguito in questo capitolo).
In molte specie non umane dotate di un cervello sufficientemente complesso, sono presenti numerosi comportamenti coscienti ed efficacissimi: gli esempi sono evidenti intorno a noi, in modo particolarmente spettacolare nei mammiferi. Negli esseri umani, però, grazie all’espansione della memoria, del ragionamento e del linguaggio, la coscienza ha raggiunto il suo attuale massimo sviluppo. Io ipotizzo che il suo picco derivò dal rafforzamento del sé conoscitore, con la sua capacità di svelare le difficoltà e le opportunità insite nella condizione umana. Alcuni forse diranno che in quella rivelazione risiede una tragica perdita - niente di meno che dell’innocenza -, se solo si considera tutto quello che essa ci insegna sui difetti della natura e sul dramma della condizione umana, tutte le tentazioni che mette davanti ai nostri occhi, e tutto il male che smaschera. Sia come sia, non ci è dato di scegliere. Di sicuro la coscienza ha consentito lo sviluppo della conoscenza e il progresso della scienza e della tecnologia: due modi con i quali possiamo tentare di gestire le difficoltà e le opportunità che essa stessa ha messo a nudo.
IL SÉ E LA QUESTIONE DEL CONTROLLO
Qualsiasi discussione sui vantaggi della coscienza deve tener conto delle evidenze sempre più numerose di questo fatto: vi sono molte occasioni in cui l’esecuzione delle nostre azioni è controllata da processi non coscienti. Questo si verifica abbastanza spesso, in ogni genere di contesto, e merita attenzione. È evidente nell’esecuzione di azioni che richiedono addestramento - dal guidare un’automobile al suonare uno strumento musicale - ed è costantemente presente nelle nostre interazioni sociali.
Solide o meno che siano, le prove a sostegno di una partecipazione non cosciente alle nostre azioni possono essere facilmente oggetto di interpretazioni erronee. È facile minimizzare il valore del controllo cosciente diretto dal sé, nel momento in cui numerosi esperimenti - a partire da quelli di Benjamin Libet e includendo quelli di Dan Wegner e Patrick Haggard - hanno dimostrato che l’impressione soggettiva di quando e perché sia stata iniziata un’azione può dimostrarsi sbagliata.1 È altrettanto facile usare questi fatti, insieme alle evidenze derivanti dalla psicologia sociale, per sostenere la necessità di rivedere il tradizionale concetto di responsabilità umana. Siamo davvero responsabili delle nostre azioni, se esse sono influenzate da fattori sconosciuti alla nostra ragione cosciente?
La situazione, tuttavia, è di gran lunga meno problematica di quanto potrebbe sembrare da queste reazioni superficiali e ingiustificate verso risultati la cui interpretazione è ancora in discussione. In primo luogo, la realtà di un’elaborazione non cosciente e il fatto che essa possa esercitare un controllo sul comportamento sono fuori di dubbio. Non solo: questo controllo non cosciente è una realtà desiderabile dalla quale - come vedremo - ricaviamo vantaggi tangibili. In secondo luogo, i processi non coscienti sono, in una misura sostanziale e per molti versi, sotto la guida della coscienza. In altre parole, vi sono due tipi di controllo delle azioni - cosciente e non cosciente -, ma il secondo può essere in parte plasmato dal primo. L’infanzia e l’adolescenza della specie umana sono di una lunghezza esorbitante, perché l’educazione dei processi non coscienti del nostro cervello e la creazione, all’interno dello spazio cerebrale non cosciente, di una forma di controllo che possa operare più o meno fedelmente secondo le intenzioni e gli obiettivi della coscienza richiedono un tempo molto, molto lungo. Possiamo descrivere questa lenta educazione come un processo di parziale trasferimento del controllo cosciente a un server non cosciente: non come una resa del controllo cosciente a forze che coscienti non sono e che, di certo, possono creare scompiglio nel comportamento umano. Patricia Churchland ha sostenuto in modo convincente questa posizione.2
Il valore della coscienza non è sminuito dalla presenza di processi non coscienti: anzi, la sua portata ne risulta amplificata, senza contare che, supponendo di essere in presenza di un cervello funzionante in modo normale, l’entità della responsabilità personale nei confronti di un’azione non risulta necessariamente ridotta dal fatto che alcune azioni sono eseguite da una sana e robusta componente non cosciente.
In fondo, la relazione fra processi coscienti e non è un ulteriore esempio dello strano sodalizio funzionale emergente dalla coevoluzione. La coscienza e il controllo cosciente diretto delle azioni emersero solo dopo che le menti non dotate di coscienza si erano affermate e gestivano la situazione ottenendo assai spesso, anche se non sempre, buoni risultati - né poteva essere altrimenti. Le prestazioni potevano essere migliorate. La coscienza maturò dapprima riducendo parte dei controlli non coscienti e poi esaminandoli spietatamente per eseguire azioni già programmate e decise. I processi non coscienti divennero un modo comodo e appropriato per eseguire il comportamento, offrendo così alla coscienza più tempo per ulteriori analisi e pianificazioni.
Quando torniamo a casa a piedi, senza pensare al tragitto ma alla soluzione di un problema, e arriviamo comunque a destinazione sani e salvi, abbiamo accettato i vantaggi assicurati da una capacità non cosciente, acquisita seguendo una curva di apprendimento, grazie a molti esercizi svolti in precedenza sotto il controllo della coscienza. Adesso tutto quello che essa deve monitorare, mentre camminiamo verso casa, è l’obiettivo generale del nostro movimento. Tutti gli altri processi coscienti restano disponibili, e possiamo farne un uso creativo.
In gran parte, lo stesso vale per le performance di musicisti e atleti. In questi casi, l’elaborazione cosciente è concentrata sul raggiungimento di particolari obiettivi: sull’arrivare a certe mete in certi momenti, evitando alcuni rischi insiti nell’esecuzione, e rilevando circostanze impreviste. Tutto il resto è esercizio, esercizio ed esercizio - la seconda natura che può guidarci sul palco della Carnegie Hall.
Infine, l’interazione cooperativa fra processi consci e inconsci si applica anche, e in pieno, ai comportamenti morali. Essi costituiscono un insieme di capacità che richiedono addestramento e sono acquisite nel corso di molte sedute e in un lungo lasso di tempo; traggono forma da princìpi e ragioni articolati nella modalità cosciente, ma che hanno pure una «seconda natura» nell’inconscio cognitivo.
In conclusione, quello che si intende per deliberazione cosciente ha ben poco a che fare con la capacità di controllare le azioni nel momento in cui si svolgono, mentre riguarda quella di pianificare in anticipo e di decidere quali azioni vogliamo o non vogliamo eseguire. La deliberazione cosciente riguarda in larga misura decisioni prese nell’arco di tempi estesi, in alcuni casi nell’ordine di giorni o settimane, e comunque solo raramente inferiori ai minuti o ai secondi. Non riguarda, invece, decisioni prese in frazioni di secondo; le decisioni fulminee, infatti, sono generalmente considerate «irriflessive» e «automatiche».3 La deliberazione cosciente riguarda una riflessione sulla conoscenza. Noi ricorriamo a riflessione e conoscenza quando decidiamo in merito a questioni importanti della nostra vita. Usiamo la deliberazione cosciente per gestire questioni riguardanti gli amori e le amicizie, l’istruzione, le attività professionali e le relazioni con gli altri. Anche le decisioni attinenti, in senso più o meno stretto, al comportamento morale richiedono una deliberazione cosciente e hanno luogo nell’arco di tempi estesi. Non solo: queste decisioni sono elaborate in uno spazio mentale privato offline, che ha il sopravvento sulla percezione esterna. Il soggetto immerso nella deliberazione cosciente, il sé responsabile della prospezione del futuro, viene spesso distolto dalla percezione esterna e non presta attenzione ai suoi mutevoli elementi. Vi è un’ottima ragione per questa distrazione in termini di fisiologia cerebrale: come abbiamo visto, lo spazio cerebrale che elabora le immagini è la somma totale delle cortecce sensoriali di ordine inferiore; questo stesso spazio deve essere condiviso dai processi di riflessione cosciente e dalla percezione diretta; difficilmente riesce a gestire entrambi senza favorire uno dei due.
La deliberazione cosciente, sotto la guida di un solido sé costruito su una autobiografia ben organizzata e un’identità definita, è una conseguenza fondamentale della coscienza: esattamente il tipo di risultato che smentisce chi vede nella coscienza un epifenomeno inutile, un abbellimento senza il quale il cervello eseguirebbe le operazioni di gestione dei processi vitali senza problemi e con la stessa efficienza. Noi non possiamo condurre il nostro tipo di vita, negli ambienti fisici e sociali che sono diventati l’habitat della specie umana, senza la deliberazione cosciente riflessiva. È anche vero, però, che i prodotti della deliberazione cosciente sono significativamente limitati da una gran quantità di pregiudizi esercitati nella modalità non cosciente - alcuni fissati dalla biologia, altri acquisiti attraverso la cultura -e che il controllo non cosciente delle nostre azioni è anch’esso una questione con cui confrontarsi.
Nondimeno, decisioni importantissime sono prese molto tempo prima della loro esecuzione, quando possono essere simulate e verificate nella mente dotata di coscienza, là dove l’effetto dei pregiudizi inconsci può essere potenzialmente minimizzato dal controllo cosciente. Alla fine, l’esercizio delle decisioni può essere perfezionato con l’aiuto dell’elaborazione non cosciente, ovvero grazie alle operazioni sommerse effettuate dalla nostra mente su questioni di conoscenza e di ragionamento generali, alle quali spesso ci riferiamo con il termine di «inconscio cognitivo». Le decisioni coscienti cominciano con la riflessione, la simulazione e la verifica all’interno della mente cosciente; quel processo può poi essere completato e ripercorso nella mente non cosciente, da dove possono essere eseguite le azioni appena selezionate. Le componenti coscienti e non coscienti di questo dispositivo - fragile e complesso - di decisione ed esecuzione possono essere sviate dall’apparato degli appetiti e dei desideri; in questo caso, è probabile che un ricorso in extremis al veto si riveli inefficace. L’idea di un veto fulmineo ricorda una nota raccomandazione sulla questione della dipendenza da sostanze: « Basta dire no ». Questa strategia può essere adeguata per evitare l’innocuo movimento di un dito, ma non quando occorre bloccare un’azione resa urgente da un desiderio intenso o da un forte appetito: in altre parole, non nella situazione che si presenta nel caso di qualsiasi dipendenza da droghe, alcol, cibi particolarmente appetibili, o sesso. Riuscire a dire «no» richiede una lunga preparazione cosciente.
UNA DIVAGAZIONE SULL’INCONSCIO
Grazie al fatto che il nostro cervello ha felicemente combinato la nuova forma di controllo resa possibile dalla coscienza con quella che consisteva nella regolazione automatica inconscia, tali processi cerebrali più antichi, non coscienti, sono all’altezza dei compiti che devono eseguire per conto delle attività decisionali coscienti. Alcune evidenze utili possono essere ricavate da uno studio interessante condotto dallo psicologo olandese Ap Dijksterhuis.4 Per apprezzare l’importanza dei suoi risultati, dobbiamo descriverne il contesto. Dijksterhuis ha chiesto ai partecipanti al suo esperimento, che erano soggetti normali, di effettuare decisioni di acquisto in due condizioni diverse. In un caso dovevano applicare perlopiù la deliberazione cosciente; nell’altro, a seguito di una distrazione manipolata, erano invece messi in condizione di non poterlo fare.
Vi erano due tipi di oggetti da acquistare. Uno consisteva di oggetti casalinghi banali, come tostapane o asciugamani; l’altro di beni importanti, come case o automobili. Nell’uno e nell’altro caso, il soggetto riceveva un’ampia informazione sui pro e i contro di ciascun oggetto, una sorta di rapporto del consumatore completo di cartellino del prezzo. Questa informazione sarebbe risultata utile quando i partecipanti sarebbero stati esortati a scegliere l’oggetto « migliore » da acquistare. Al momento di decidere, però, Dijksterhuis consentiva ad alcuni soggetti di riflettere per tre minuti sulle informazioni prima di compiere la scelta, mentre agli altri negava quel privilegio, provvedendo a distrarli durante quello stesso intervallo di tempo. Per entrambi i tipi di oggetti, banali e non, i soggetti furono esaminati in entrambe le situazioni, con tre minuti di studio attento o di distrazione.
Che cosa possiamo prevedere sulla qualità delle decisioni? Sarebbe perfettamente ragionevole pensare che, nel caso degli oggetti casalinghi banali - considerata la scarsa rilevanza e la ridotta complessità del problema -, i soggetti avranno compiuto una buona scelta in entrambe le modalità, cosciente e non cosciente. Scegliere fra due tostapane, per quanto uno possa essere pignolo, certo non richiede una laurea in ingegneria. Per quanto riguarda l’acquisto degli oggetti più importanti, però, per esempio una berlina a quattro porte, ci aspetteremmo che i soggetti ai quali era consentito di studiare l’informazione avessero compiuto le scelte più felici.
I risultati furono sorprendentemente diversi da queste previsioni. Le decisioni prese senza una precedente riflessione cosciente si rivelarono migliori per entrambi i tipi di acquisto, ma soprattutto nel caso di oggetti importanti. La conclusione superficiale è la seguente: se stai comprando un’automobile o una casa, informati, ma poi non tormentarti e non preoccuparti troppo facendo confronti minuti e considerando tutti i possibili vantaggi e svantaggi. Compra e basta. Con buona pace della scelta cosciente e dei suoi fasti.
Naturalmente questi interessanti risultati non dovrebbero distogliere nessuno dall’esercizio della scelta consapevole. Quello che essi effettivamente indicano è che i processi non coscienti sono capaci di una qualche sorta di ragionamento, molto più di quanto in genere si riconosca loro, e che questo tipo di ragionamento, una volta che sia stato adeguatamente addestrato dall’esperienza passata e nei casi in cui il tempo stringe, può portare a decisioni positive. Nelle circostanze dell’esperimento, soprattutto nel caso di acquisti importanti, la riflessione attenta e cosciente protratta nel tempo non produce i risultati migliori. L’elevato numero di variabili da considerare e lo spazio esiguo a disposizione del ragionamento cosciente - esiguo per il limitato numero di oggetti a cui si può fare simultaneamente attenzione in un dato momento - riducono la probabilità di compiere la scelta ottimale, considerando anche la finestra temporale limitata. Lo spazio inconscio, al contrario, ha una capacità di gran lunga più ampia: può considerare e manipolare numerose variabili, producendo la scelta potenzialmente migliore in una finestra temporale ristretta.
Lo studio di Dijksterhuis, oltre a quanto ci insegna circa l’elaborazione non cosciente in generale, mette in rilievo altre importanti questioni. Una riguarda il tempo necessario per una decisione. Forse saremmo anche in grado di scegliere il migliore ristorante in assoluto per la cena di stasera, se avessimo a disposizione tutto il pomeriggio per esaminare le ultime recensioni, il costo dei vari piatti sul menù e la qualità dei locali, e poi per confrontare tutto questo con le nostre preferenze, il nostro umore e il saldo del nostro conto in banca. Ma non abbiamo tutto il pomeriggio. Il tempo conta, e dobbiamo dedicarne alla decisione una quantità «ragionevole». La ragionevolezza dipende, naturalmente, dall’importanza della questione che si sta decidendo. Visto che non abbiamo tutto il tempo di questo mondo, invece di fare un ingente investimento in grandi calcoli, conviene ricorrere a qualche scorciatoia. Di positivo c’è che le registrazioni di emozioni passate ci aiuteranno in queste scorciatoie, e che il nostro inconscio cognitivo è una buona fonte di tali registrazioni.
Tutto questo per dire che mi piace moltissimo l’idea che il nostro inconscio cognitivo sia capace di ragionamento e disponga di uno «spazio» di operazione più ampio della sua controparte cosciente. Tuttavia, un elemento critico per spiegare questi risultati riguarda l’esperienza emozionale che il soggetto ha avuto in precedenza con oggetti «importanti» simili a quelli contemplati nell’esperimento. Lo spazio non cosciente è aperto e adatto a questa manipolazione implicita, ma in larga misura funziona in modo vantaggioso perché certe opzioni sono inconsciamente marcate da un pregiudizio connesso a fattori appresi in precedenza, legati a emozioni e sentimenti. Io credo che le conclusioni sul valore della elaborazione non cosciente siano corrette, ma la nostra idea di quello che accade sotto la fredda superficie della coscienza si arricchisce molto quando consideriamo, fra i processi non coscienti, anche l’emozione e il sentimento.
L’esperimento di Dijksterhuis illustra la cooperazione di facoltà consce e inconsce. Da sola, l’elaborazione inconscia non potrebbe svolgere il lavoro: negli esperimenti descritti, i processi inconsci fanno moltissimo, ma ciò avviene perché i soggetti hanno beneficiato di anni di deliberazione cosciente durante i quali i loro processi non coscienti sono stati ripetutamente addestrati. Va detto anche che, mentre i processi non coscienti eseguono tutte le loro analisi, i soggetti rimangono perfettamente coscienti. I pazienti incoscienti - anestetizzati o in coma - non prendono decisioni riguardanti il mondo reale, non più di quanto possano godersi il sesso. Ancora una volta, a rivelarsi vincente è la felice sinergia dei livelli impliciti ed espliciti. Noi ci appoggiamo regolarmente all’inconscio cognitivo, durante tutta la giornata, e deleghiamo alla sua esperienza, con discrezione, un certo numero di compiti, compresa l’esecuzione di risposte.
Demandare una prestazione esperta allo spazio non cosciente: è proprio questo che facciamo quando perfezioniamo un’abilità in modo tanto raffinato da non essere più consapevoli dei passaggi tecnici necessari per eseguirla in modo competitivo. Noi sviluppiamo le nostre abilità alla chiara luce della coscienza, ma poi lasciamo che esse sprofondino nell’ampio sotterraneo della nostra mente, dove non ingombrano più lo spazio esiguo a disposizione della riflessione cosciente.
Gli esperimenti di Dijksterhuis rappresentano un arricchimento che va ad aggiungersi a uno sforzo di ricerca tuttora in corso sul ruolo delle influenze non coscienti nei compiti che implicano un’attività decisionale. Agli inizi di quelle ricerche, il nostro gruppo aveva presentato evidenze decisive a tale proposito.5 Per esempio, dimostrammo che - quando soggetti normali sono impegnati in un gioco di carte che comporta sia guadagni, sia perdite, in condizioni di rischio e di incertezza - i giocatori cominciano ad adottare una strategia vincente un po’ prima di essere in grado di spiegare perché lo stiano facendo. Per alcuni minuti, prima dell’adozione della strategia vantaggiosa, il cervello dei soggetti produce risposte psicofisiologiche differenziali ogniqualvolta essi pensano di prendere una carta da uno dei mazzi « cattivi», quelli cioè che promuovono le perdite, mentre la prospettiva di prendere ima carta da un mazzo « buono » non genera tali risposte. La bellezza di questo risultato sta nel fatto che le risposte psicofisiologiche - nello studio originale misurate mediante conduttanza cutanea -non sono percepibili né dal soggetto, né da un osservatore a occhio nudo. Esse hanno luogo al di sotto del radar della coscienza del soggetto: furtive proprio come lo spostamento comportamentale verso la strategia vincente.6
Che cosa accada esattamente non è ancora del tutto chiaro, ma di qualsiasi cosa si tratti non richiede lo stato di coscienza nell’istante presente. Può darsi che l’equivalente inconscio di una sensazione viscerale cosciente «scuota», per così dire, il processo decisorio, influenzando la computazione non cosciente e impedendo la selezione dell’oggetto sbagliato. Con ogni probabilità è in corso, a livello non cosciente, nei sotterranei della mente, un importante processo di ragionamento che produce risultati senza che i passaggi intermedi siano mai conosciuti. Quale che sia, il processo dà luogo all’equivalente di un’intuizione senza il riconoscimento consapevole del fatto che si è pervenuti alla soluzione, la quale viene offerta semplicemente, senza clamore.
Le prove di un’elaborazione non cosciente sono andate costantemente accumulandosi. Le nostre decisioni economiche non sono guidate dalla pura razionalità e sono significativamente influenzate da potenti pregiudizi, per esempio l’antipatia per le perdite e il piacere che traiamo dai guadagni.7 Il modo in cui interagiamo con gli altri è influenzato da moltissimi pregiudizi che hanno a che fare con il genere, la razza, i modi, gli accenti e l’abbigliamento. Il contesto in cui ha luogo l’interazione introduce i propri pregiudizi, legati a questioni di familiarità e struttura. Gli interessi e le emozioni che stavamo sperimentando prima dell’interazione hanno anch’essi un ruolo importante, come lo ha l’ora del giorno: abbiamo fame? siamo sazi? Noi esprimiamo in modo esplicito, oppure segnaliamo indirettamente, le nostre preferenze per i volti umani, e lo facciamo a una velocità fulminea, senza aver avuto il tempo per un’elaborazione consapevole dei dati che avrebbero sostenuto una corrispondente inferenza ragionata: a maggior ragione, questo è un motivo per stare particolarmente attenti quando si tratta di decisioni importanti nella nostra vita pubblica, come in quella privata.8 Va benissimo lasciare che l’influenza inconscia delle emozioni passate ci guidi nella scelta di una casa purché, prima di firmare il contratto, ci fermiamo a riflettere attentamente sull’opzione offerta dall’inconscio. Rianalizzando i dati, a prescindere dal modo in cui abbiamo giudicato intuitivamente la situazione, potremmo concludere che la scelta non è valida, per esempio perché le nostre esperienze passate in questo campo sono atipiche, viziate dal pregiudizio, o insufficienti. Questo è importante soprattutto se stiamo esprimendo un voto in qualità di elettori o di giurati.
Uno dei principali problemi che affronta chi vota nelle elezioni politiche e nelle aule di tribunale è rappresentato dall’intensità dei fattori emozionali/non coscienti. A tal punto la forza di tali fattori è riconosciuta, che negli ultimi decenni è stato sviluppato - come fosse un’industria - un apparato assolutamente mostruoso per influenzare l’elettorato, insieme a metodi meno pubblicizzati, ma ugualmente sofisticati, per orientare la scelta dei giurati.
La riflessione e la rivalutazione, il controllo dei dati e la riconsiderazione del problema sono essenziali. Qui vi è una grande occasione di investire altro tempo nella decisione: preferibilmente prima di entrare nella cabina elettorale o di mettere il proprio voto nelle mani del primo giurato.
Tutti questi risultati esemplificano situazioni in cui le influenze non coscienti - emozionali o no - e i passaggi non consapevoli del ragionamento hanno una relazione con l’esito di un compito. I soggetti tuttavia sono perfettamente coscienti sia quando vengono loro fomite le premesse del compito, sia quando ha luogo la decisione, e vengono informati dei risultati delle loro azioni. È chiaro che questi sono esempi di componenti non coscienti di decisioni altrimenti coscienti. Essi ci lasciano intravedere la complessità e la varietà dei meccanismi che stanno dietro alla facciata del controllo cosciente (che si suppone perfetto), senza tuttavia negare le nostre facoltà di scelta e senza sollevarci dalla responsabilità delle nostre azioni.
UNA NOTA SULL’INCONSCIO GENOMICO
Occorre, qui, una breve nota riguardante l’inconscio genomico, una delle forze nascoste con le quali la deliberazione cosciente deve venire a patti. Che cosa intendo con l’espressione «inconscio genomico»? Molto semplicemente, la colossale quantità di istruzioni, contenute nel nostro genoma, che guidano la costruzione dell’organismo conferendogli i caratteri distintivi del nostro fenotipo - sia nel corpo in senso stretto, sia nel cervello - e che contribuiscono ulteriormente al suo funzionamento. Le istruzioni per lo schema fondamentale dei nostri circuiti cerebrali sono contenute nel genoma, e quello schema contiene a sua volta il primissimo repertorio di know-how non cosciente grazie al quale il nostro organismo può essere governato. Il know-how ha a che fare in primo luogo, e soprattutto, con la regolazione dei processi vitali - questioni di vita e di morte - e con la riproduzione; ma proprio a causa della centralità di quei problemi, lo schema promuove diversi comportamenti che possono sembrare decisi dalla cognizione cosciente, ma che in realtà sono guidati dalle disposizioni non coscienti. Le preferenze spontanee che manifestiamo precocemente nell’arco della nostra vita - preferenze riguardanti quello che mangiamo e beviamo, i compagni e l’habitat che scegliamo - sono in parte guidate dall’inconscio genomico, sebbene nel corso di tutto lo sviluppo possano essere modulate e modificate dall’esperienza individuale.
La psicologia riconosce da tempo l’esistenza dei fondamenti inconsci del comportamento e li ha studiati a proposito dell’istinto, dei comportamenti automatici, delle pulsioni e delle motivazioni. A essere cambiata, in tempi recenti, è la comprensione del fatto che l’installazione precoce di queste disposizioni nel cervello umano è sotto una considerevole influenza genetica e che, nonostante tutto il plasmare e rimodellare che intraprendiamo come individui dotati di coscienza, la portata di queste disposizioni - che sono di una pervasività sbalorditiva - è tale da toccare un’ampia gamma di temi. Questo è notevole soprattutto per quanto riguarda alcune delle disposizioni sulle quali sono state costruite le strutture culturali. L’inconscio genetico ha avuto qualcosa da dire sul primo formarsi delle arti, dalla musica alla pittura e alla, poesia. Ha avuto qualcosa a che fare con la prima strutturazione dello spazio sociale, compresa l’istituzione di convenzioni e regole. Come Freud e Jung sicuramente percepirono, ha avuto qualcosa a che fare anche con molti aspetti della sessualità umana. Ha contribuito moltissimo alle fondamentali narrazioni della religione e ai tradizionali intrecci delle opere di teatro e dei romanzi che ruotano in misura non trascurabile intorno alla forza dei programmi emozionali ispirati dal genoma. È una gelosia cieca - impermeabile al buonsenso, alle prove stringenti e alla ragione - quella che spinge Otello a uccidere una Desdemona assolutamente innocente, e Karenin a punire l’adultera Anna con tanta durezza. Il catastrofico rancore di Iago probabilmente non avrebbe avuto effetto se non fosse stato per la naturale vulnerabilità di Otello alla gelosia. L’asimmetria cognitiva della sessualità maschile e femminile, molti parametri della quale sono scolpiti nel nostro genoma, ispira il comportamento di questi personaggi e li manterrà per sempre attuali. L’intensa aggressività maschile di Achille, Ettore e Ulisse ha, allo stesso modo, radici profonde nell’inconscio genetico. Lo stesso si potrebbe dire di due personaggi, Edipo e Amleto, annientati per aver infranto il tabù dell’incesto o per l’inclinazione non dichiarata a infrangerlo. L’interpretazione freudiana di questi personaggi senza tempo si fonde con le loro origini evolutive, sottolineando alcuni aspetti frequentissimi della natura umana. Il teatro e il romanzo - come pure il cinema, loro erede del Novecento - hanno grandemente beneficiato dell’inconscio genomico.
L’inconscio genomico è in parte responsabile della grande somiglianza che contraddistingue il repertorio del comportamento umano. È davvero straordinario, allora, che noi costantemente ci discostiamo dagli universali monotoni creando invece, grazie all’arte o alla semplice magia di un incontro umano, un insieme infinito, che incanta e stupisce, di variazioni sul tema della vita.
IL SENTIMENTO DELLA VOLONTÀ COSCIENTE
Quanto spesso siamo guidati da un inconscio cognitivo ben esercitato, addestrato sotto la supervisione della riflessione cosciente a osservare ideali, desideri e progetti coscientemente concepiti? E quanto spesso siamo guidati da pregiudizi, appetiti e desideri biologicamente antichi, inconsci, profondamente radicati? Ho il sospetto che la maggior parte di noi, deboli peccatori dalle buone intenzioni, operi su entrambi i registri: più sull’uno o più sull’altro, a seconda della situazione e dell’ora della giornata.
Quale che sia il registro al livello del quale stiamo operando, virtuoso o meno, nell’attimo del suo svolgimento l’azione è inevitabilmente accompagnata dall’impressione - a volte falsa, a volte no - di aver agito, in quel luogo e in quell’istante, sotto il pieno controllo del nostro sé, completamente impegnato in quello che stavamo facendo. Quell’impressione è un sentimento: un sentimento che affiora quando il nostro organismo si impegna in una nuova percezione o inizia una nuova azione, null’altro che il sentimento di conoscenza che ho già discusso come parte integrante del sé. Questa prospettiva è condivisa da Dan Wegner, il quale descrive la volontà cosciente come «il marcatore somatico della identità autoriale, un’emozione che autentica il sé quale proprietario dell’azione. Con il sentimento di compiere un’azione, noi abbiamo una sensazione cosciente di volontà associata all’azione».9 In altre parole, non siamo meri «automi coscienti», come ci considerava T.H. Huxley un secolo fa, incapaci di controllare la nostra esistenza.10 Quando la mente è informata delle azioni intraprese dall’organismo, il sentimento associato all’informazione indica che quelle azioni sono state generate dal sé. Sia l’informazione, sia l’autenticazione delle azioni in corso sono essenziali per motivare la deliberazione delle azioni future. Senza quel tipo di informazione, sentita e validata, noi non saremmo in grado di assumerci la responsabilità morale delle azioni intraprese dal nostro organismo.
EDUCARE L'INCOSCIO COGNITIVO
Un maggiore controllo sulle stravaganze del comportamento umano, può derivare soltanto dall’accumulo di conoscenza e dalla considerazione dei fatti così scoperti. Prendersi il tempo necessario per analizzare i fatti, valutare l’esito delle decisioni e ponderare i loro risultati emozionali: questa è la via per costruire quella sorta di guida pratica altrimenti nota come saggezza. Grazie a essa, possiamo riflettere e sperare di orientare il nostro comportamento nel contesto delle convenzioni culturali e delle norme etiche che hanno ispirato la nostra biografia e il mondo in cui viviamo. Possiamo anche reagire a quelle convenzioni e a quelle norme, affrontare il conflitto che segue quando ci opponiamo a esse, e addirittura tentare di modificarle. Il conflitto affrontato dagli obiettori di coscienza è uh buon esempio in tal senso.
Non meno importante, dobbiamo essere consapevoli del peculiare ostacolo affrontato dalle decisioni ponderate coscientemente: esse devono farsi strada nell’inconscio cognitivo in modo da permeare l’apparato che porta all’azione, e noi dobbiamo facilitare quell’influenza. Un modo per rimuovere l’ostacolo sarebbe un intenso esercizio cosciente delle procedure e delle azioni che vorremmo veder realizzate in modo inconscio: un processo di pratica ripetuta che porta a padroneggiare una abilità di prestazione, un programma d’azione psicologico che viene composto coscientemente per poi essere spostato sotto la superficie della coscienza.
Qui non sto inventando niente di nuovo: sto semplicemente descrivendo un meccanismo pratico dedotto da quelle che presumo debbano essere le operazioni neurali della decisione e dell’azione. Per millenni, i leader capaci sono pervenuti a soluzioni simili quando chiedevano ai propri seguaci di osservare rituali controllati, i cui effetti collaterali devono essere stati la graduale imposizione di decisioni prese coscientemente sui processi d’azione inconsci. Il fatto che quei rituali spesso comportassero la creazione di emozioni amplificate, dolore compreso, non sorprende: si tratta di un mezzo, scoperto empiricamente, per imprimere il meccanismo desiderato nella mente umana. Quello che sto immaginando, però, va ben oltre i rituali civili e religiosi, e si spinge ad abbracciare questioni di vita quotidiana riconducibili a molti campi diversi. In particolare, sto pensando a questioni attinenti alla salute e al comportamento sociale. Il fatto che noi educhiamo in modo insufficiente i nostri processi inconsci probabilmente spiega, per esempio, perché tanti falliscano miseramente quando si tratta di comportarsi correttamente in merito alla dieta e all’esercizio fisico. Noi crediamo di avere il controllo della situazione, ma spesso non l’abbiamo affatto, come dimostrano le epidemie di obesità, ipertensione e cardiopatie. La nostra costituzione biologica ci rende inclini a consumare quello che non dovremmo; d’altra parte, le tradizioni culturali ispirate e plasmate da quella costituzione biologica, come pure l’industria pubblicitaria che fa leva su di essa, fanno altrettanto. Non vi è alcun complotto, qui: è solo natura. Forse in questo contesto la costruzione di abilità ritualizzate sarebbe opportuna, se servisse.
Lo stesso vale per l’epidemia di dipendenza da sostanze. Una ragione per la quale così tanti individui sviluppano una dipendenza a ogni sorta di droghe, per non parlare dell’alcol, ha a che fare con le pressioni esercitate dall’omeostasi. Nel corso di una giornata normale, noi affrontiamo inevitabilmente frustrazioni, ansie e difficoltà che alterano l’equilibrio omeostatico e di conseguenza possono farci sentire male: forse angosciati, scoraggiati o tristi. Un effetto delle cosiddette sostanze d’abuso è quello di ripristinare - rapidamente e transitoriamente - l’equilibrio perduto. In che modo? Io credo che esse modifichino l’immagine «sentita» che il cervello si forma del proprio corpo. Lo stato di squilibrio omeostatico viene rappresentato, a livello neurale, come un paesaggio corporeo intralciato e problematico. Dopo l’assunzione di certe sostanze, a certi dosaggi, il cervello rappresenta a se stesso un organismo che funziona in modo più fluido. La sofferenza corrispondente all’immagine sentita in precedenza si trasforma in un temporaneo piacere. Il sistema cerebrale degli appetiti è stato sequestrato, e il risultato finale non è certo l’agognato riequilibrio dell’omeostasi, almeno non per molto. Nondimeno, respingere la possibilità di una rapida correzione della sofferenza richiede uno sforzo enorme, anche a chi già sa che la correzione sarà di breve durata e che le conseguenze di quella scelta possono essere terribili. Nel quadro generale che ho tracciato, vi è un’ovvia ragione per questo stato di cose. In condizioni naturali, l’esigenza omeostatica non cosciente detiene il controllo e può essere contrastata solo da una forza contraria potente e bene addestrata. Sembra che Spinoza avesse visto giusto quando diceva che un’emozione dalle conseguenze negative poteva essere contrastata solo da un’altra emozione, più intensa. Questo forse significa che addestrare il processo inconscio a declinare educatamente di per sé non rappresenta una soluzione: il dispositivo inconscio deve essere addestrato dalla mente cosciente a rispondere a suon di emozioni.
CERVELLO E GIUSTIZIA
I concetti di controllo conscio e inconscio ispirati alla biologia sono rilevanti sia ai fini del modo in cui viviamo, sia, soprattutto, del modo in cui dovremmo vivere. Forse, però, in nessun caso la rilevanza è maggiore che nelle questioni riguardanti il comportamento sociale, in particolare quel settore noto come comportamento morale, e l’infrazione dei patti sociali codificati nelle leggi.
La civiltà, e in special modo il suo aspetto attinente alla giustizia, ruota intorno al concetto che gli esseri umani sono coscienti in una maniera che è preclusa agli animali. In linea di massima, le culture hanno evoluto sistemi giudiziari che adottano un approccio di buonsenso alle complessità del processo decisorio e mirano a proteggere le società da coloro che violano le leggi stabilite. Comprensibilmente, e con rare eccezioni, il peso dato alle informazioni offerte dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive è stato trascurabile.
Ora vi è un timore crescente che le informazioni sulla funzione cerebrale, conosciuta sempre meglio, possano mettere in discussione l’applicazione delle leggi: un problema che i sistemi giuridici hanno in linea di massima schivato evitando di prendere in considerazione quelle informazioni. La risposta, però, dev’essere sfumata. Il fatto che qualunque individuo capace di conoscenza sia responsabile delle proprie azioni non implica che la neurobiologia della coscienza sia irrilevante tanto ai fini giudiziari, quanto ai fini dell’educazione che deve preparare i futuri adulti a un’esistenza sociale adattativa. Al contrario, avvocati, giudici, legislatori, politici ed educatori devono tutti conoscere la neurobiologia della coscienza e del processo decisorio: tale conoscenza è importante per promuovere leggi realistiche e preparare le future generazioni al controllo responsabile delle proprie azioni.
In certi casi di disfunzione cerebrale, anche una capacità riflessiva esercitata al meglio può non riuscire a controllare certe forze, a prescindere dal fatto che esse siano o meno coscienti. Stiamo appena cominciando a comprendere il profilo di questi casi, tuttavia sappiamo, per esempio, che i pazienti con certi tipi di lesione prefrontale possono non essere in grado di controllare gli impulsi. Questi individui non esercitano un controllo normale sulle proprie azioni. Come dovranno essere giudicati se finiranno nelle maglie della giustizia? Come criminali o come pazienti neurologici? Secondo me, forse, come entrambe le cose. La loro malattia neurologica non dovrebbe in alcun modo giustificare le loro azioni, anche se può spiegare alcuni aspetti di un crimine. D’altra parte, se costoro sono neurologicamente malati, di fatto sono dei pazienti, e la società deve trattarli di conseguenza. A tal proposito, la tragedia è che stiamo appena cominciando a comprendere questi aspetti della malattia neurologica: una volta formulata la diagnosi, abbiamo ben poco da offrire in termini di terapia. Questo però non limita in alcun modo la responsabilità della società sia per quanto riguarda la comprensione e il dibattito pubblico sulle conoscenze disponibili, sia relativamente alla necessità di ulteriori ricerche su queste materie.11
Alcuni altri pazienti, nei quali il danno prefrontale è concentrato a livello ventromediale, giudicano ipotetici dilemmi morali in modo molto pragmatico e utilitaristico: ai fini di quanto vi è di più nobile nello spirito umano, si tratta di un approccio di valore scarso o nullo. Per esempio, se si sottopone a questi pazienti un ipotetico caso di tentato omicidio che, nonostante l’intenzione, non ha dato luogo a una morte, essi non giudicano la situazione significativamente diversa da quella di un’uccisione accidentale e involontaria. In effetti, potrebbero addirittura trovare la prima situazione più accettabile.12 La maniera in cui tali individui interpretano le motivazioni, gli intenti e le conseguenze è a dir poco non convenzionale, anche se probabilmente nella loro vita quotidiana non farebbero male a una mosca. Abbiamo ancora molto da imparare sul modo nel quale il cervello umano elabora i giudizi riguardanti il comportamento e controlla le azioni.
NATURA E CULTURA
La storia della vita ha la forma di un albero con molti rami, ciascuno dei quali porta a diverse specie; anche quelle che non si trovano all’apice dei rami più alti possono rivelare una superba intelligenza nel loro contesto zoologico, ed è rispetto a quel contesto che dovremmo giudicare le loro prestazioni. Quando osserviamo l’albero della vita in prospettiva, però, non possiamo non riconoscere che effettivamente gli organismi procedono dal più semplice al più complesso: è dunque ragionevole chiedersi quando, nella storia della vita, sia emersa la coscienza e che cosa abbia comportato. Che cosa implicò per la vita la sua comparsa? Se esaminiamo l’evoluzione biologica come un’ascesa non premeditata, la risposta ragionevole è che essa apparve piuttosto tardi, in corrispondenza dei rami più alti dell’albero della vita. Non vi è alcun segno di coscienza nel brodo primordiale o nei batteri, e neppure negli organismi unicellulari o in quelli pluricellulari più semplici, e tanto meno nei funghi o nelle piante: tutte forme di vita interessanti che presentano complicati dispositivi per la regolazione dei processi vitali, gli stessi dei quali successivamente la coscienza avrebbe migliorato le prestazioni. Nessuno di questi organismi ha un cervello, e meno che mai una mente: in assenza di neuroni, il comportamento è limitato e la mente non è possibile; e se non vi è mente, non vi è nemmeno la coscienza come tale, ma solo i suoi precursori.
Quando comparvero i neuroni, come variazione sul tema rappresentato dalle altre cellule del corpo, la vita cambiò in modo straordinario. Costituiti dalle stesse componenti presenti nelle altre cellule, essi sbrigano le loro funzioni generali esattamente allo stesso modo; eppure, sonò speciali. Diventano portatori di segnali, dispositivi di elaborazione capaci di trasmettere e ricevere messaggi. In virtù di quelle capacità di segnalazione, i neuroni si organizzano in circuiti e reti complesse. A loro volta, questi ultimi rappresentano eventi che hanno luogo in altre cellule e, direttamente o indirettamente, influenzano sia le funzioni di altri elementi cellulari, sia le proprie. I neuroni riguardano da vicino le altre cellule del corpo, tuttavia non perdono essi stessi quello status solo perché hanno acquisito la capacità di trasmettere segnali elettrochimici, di inviare quei segnali a moltissimi siti dell’organismo e di costituire circuiti e sistemi di enorme complessità. I neuroni sono cellule del corpo, e come tutte le cellule del corpo (dalle quali differiscono principalmente per la capacità di mettere a segno virtuosismi loro esclusivi) dipendono essenzialmente dai nutrienti e sono fermamente determinati a vivere a lungo, se possibile quanto l’organismo loro proprietario. La separazione corpo-cervello è stata in qualche modo esagerata, giacché i neuroni che costituiscono il cervello sono cellule del corpo, e questo ha effettivamente attinenza con il problema mente-corpo.
Una volta che i neuroni trovano posto all’interno di organismi capaci di movimento, la vita cambia in un modo che la natura non ha concesso alle piante. Ha così inizio, nella complessità funzionale, un inarrestabile progresso che porta da comportamenti sempre più elaborati ai processi mentali e infine alla coscienza. Un segreto alla base di questo aumento di complessità è stato ormai chiarito: ha a che fare sia con il numero di neuroni disponibili in un dato organismo, sia, cosa non meno importante, con le loro modalità di organizzazione in circuiti su scala sempre più ampia, fino ad arrivare a regioni cerebrali macroscopiche che formano sistemi caratterizzati da intricati rapporti funzionali. La ragione per cui non è possibile accostarsi ai problemi del comportamento e della mente affidandosi in modo esclusivo all’indagine riguardante i singoli neuroni, o le molecole che agiscono su di essi, o i geni implicati nel controllo del loro ciclo vitale sta proprio nel numero delle cellule nervose e nell’importanza delle loro modalità di organizzazione. Lo studio di singole cellule, di microcircuiti, di molecole e di geni è indispensabile per comprendere il problema in modo esaustivo. Tuttavia, se la ménte e il comportamento delle scimmie antropomorfe e degli esseri umani sono tanto differenti, è proprio a causa del numero degli elementi cerebrali in gioco e delle loro modalità di organizzazione.
I sistemi nervosi si svilupparono per gestire i processi vitali e amministrare il valore biologico; inizialmente assistiti nel loro compito da disposizioni per le quali non occorreva un cervello, alla fine furono coadiuvati dalle immagini, e cioè dalla mente. L’emergere di quest’ultima produsse miglioramenti spettacolari nella regolazione dei processi vitali di numerose specie, anche quando le immagini erano prive di dettagli fini e duravano solo l’istante della percezione, svanendo completamente subito dopo. Il cervello degli insetti sociali è un esempio di queste prestazioni, sorprendentemente sofisticate ma in un certo senso prive di flessibilità, vulnerabili all’interruzione delle sequenze comportamentali e non ancora in grado di conservare le rappresentazioni in uno spazio temporaneo della memoria di lavoro. In numerose specie diverse dalla nostra, il comportamento basato sulla presenza della mente divenne molto complesso, ma è plausibile ritenere che la flessibilità e la creatività tipiche delle prestazioni umane non siano potute emergere soltanto grazie alla presenza di una mente generica. Occorreva, invece, che essa diventasse protagonista, che fosse arricchita da un processo del sé affiorante al suo interno.
Una volta che il sé affiora nella mente, il gioco della vita cambia, non senza qualche incertezza iniziale. Le immagini del mondo interno e di quello esterno possono essere organizzate in modo coesivo intorno al proto-sé ed essere orientate dalle esigenze omeostatiche dell’organismo. I dispositivi di ricompensa e punizione, come pure gli impulsi e le motivazioni, che hanno plasmato i processi della vita negli stadi precedenti dell’evoluzione, contribuiscono poi con lo sviluppo di emozioni complesse. È a questo punto che l’intelligenza sociale comincia a essere flessibile. Infine, la presenza del sé nucleare è seguita da un’espansione dello spazio di elaborazione mentale, della memoria e della rievocazione convenzionali, della memoria di lavoro e del ragionamento. La regolazione dei processi vitali si concentra su un individuo che a poco a poco va definendosi meglio. Da ultimo emerge il sé autobiografico, e con la sua entrata in scena la regolazione della vita cambia radicalmente.
Se la natura può essere considerata indifferente, incurante e senza scrupoli, ecco che negli esseri umani la coscienza crea la possibilità di mettere in discussione quel suo modo di essere. L’emergere della coscienza umana è associato a sviluppi evolutivi che hanno interessato il cervello, il comportamento e la mente, e che hanno infine condotto alla creazione della cultura, una novità radicale nella storia naturale. La comparsa dei neuroni, accompagnata dalla diversificazione del comportamento e dalla preparazione all’emergere della mente, costituisce un evento epocale nella grandiosa traiettoria della vita. L’evento epocale successivo, però, è la comparsa di un cervello cosciente divenuto infine capace di riflettere su se stesso dando prova di flessibilità. È qui che si apre la strada che porterà a ribattere alle imposizioni di una natura incurante con una risposta ribelle, per quanto imperfetta.
Come si sviluppò la mente indipendente e ribelle? Qui si può soltanto fare qualche speculazione, e le pagine che seguono non sono che l’abbozzo di un quadro di immensa complessità la cui descrizione non può trovare spazio in un unico libro, meno che mai in un singolo capitolo. Possiamo tuttavia essere certi che il ribelle non si sviluppò all’improvviso. Le menti costituite da mappe di diverse modalità sensoriali si rivelarono utili per migliorare la regolazione dei processi vitali; anche quando divennero immagini mentali propriamente sentite, però, le mappe non erano indipendenti, e certo nemmeno ribelli. Le immagini «sentite» dell’interno dell’organismo contribuirono ad aumentare le probabilità di sopravvivenza e crearono uno spettacolo potenzialmente bello, sebbene non vi fosse nessuno a guardarlo. Quando le mentí per la prima volta aggiunsero alla propria dotazione un sé nucleare, ovvero nel momento in cui effettivamente ebbe inizio la coscienza, ci stavamo avvicinando alla meta, senza però averla ancora raggiunta. La presenza di un semplice protagonista fu un chiaro vantaggio, perché generava una connessione stabile fra le esigenze legate alla regolazione dei processi vitali da un lato e, dall’altro, la profusione di immagini mentali formate dal cervello e riferite al mondo circostante. La guida del comportamento fu ottimizzata. Ma l’indipendenza di cui sto parlando poté affiorare solo una volta che il sé ebbe raggiunto una complessità sufficiente a svelare un quadro più completo della condizione umana: quando gli organismi viventi furono in condizioni di capire che erano sì in gioco il dolore e la perdita, ma anche il piacere, la prosperità e la follia; quando vi furono domande da porre sul passato e sul futuro dell’umanità; quando l’immaginazione fu in grado di mostrare il modo in cui era forse possibile ridurre la sofferenza, minimizzare la perdita e rendere più probabili felicità e fantasie. È qui che il ribelle cominciò a guidare l’esistenza umana in nuove direzioni, alcune insubordinate, altre accomodanti, ma tutte basate sulla riflessione attraverso la conoscenza: all’inizio mitica, in seguito scientifica -ma pur sempre conoscenza.
IL SÉ VIENE ALLA MENTE
Che meraviglia sarebbe scoprire dove e quando un robusto sé affiorò nella mente e cominciò a generare quella rivoluzione biologica che chiamiamo cultural Nonostante l’impegno continuamente profuso nella ricerca da parte di coloro che interpretano e datano le testimonianze umane sopravvissute nel tempo fino a noi, non siamo in grado di soddisfare queste curiosità. Di certo la maturazione del sé avvenne in modo lento e graduale, ma non uniforme, e il processo ebbe luogo in diverse parti del mondo, ma non necessariamente nella stessa epoca. Sappiamo, tuttavia, che i nostri antenati umani più diretti erano su questa Terra circa duecentomila an-
ni fa e che circa trentamila anni or sono gli esseri umani producevano pitture rupestri, sculture e incisioni sulla roccia, fondevano i metalli e fabbricavano gioielli - e forse facevano anche musica. Si ritiene che le pitture della grotta Chauvet nell’Ardèche risalgano a trentaduemila anni fa, mentre le grotte di Lascaux - con centinaia di pitture complesse e migliaia di incisioni, in una complicata miscela di figure e segni astratti - erano già una sorta di Cappella Sistina diciassettemila anni fa. In quei luoghi, era chiaramente già all'opera una mente capace di rappresentazione simbolica. L’esatta relazione fra l’emergere del linguaggio e l’esplosione dell’espressione artistica e della fabbricazione di strumenti sofisticati che contraddistingue Homo sapiens non è nota. Sappiamo però che da decine di migliaia di anni gli esseri umani eseguivano rituali funebri abbastanza elaborati da richiedere una preparazione speciale del morto e l’equivalente delle lapidi. È difficile immaginare che comportamenti del genere potessero essersi affermati in assenza di un esplicito interesse per la vita, di un primo tentativo di interpretare l’esistenza e assegnarle un valore, di certo emozionale, ma anche intellettuale. Ed è inconcepibile che quell’interesse o quell’interpretazione potessero sorgere in assenza di un robusto sé.
Lo sviluppo della scrittura, circa cinquemila anni fa, fornisce diverse solide evidenze: quando appaiono i poemi omerici, che probabilmente risalgono a meno di tremila anni fa, il sé autobiografico era indubbiamente già affiorato nella mente umana. Io comunque simpatizzo con Julián Jaynes, quando ritiene probabile che, nell’intervallo relativamente breve intercorso fra gli eventi narrati nell 'Iliade e quelli dell’ Odissea, nella mente umana sia accaduto qualcosa di fondamentale.13 Mentre andava accumulandosi la conoscenza sugli esseri umani e sull’universo, può darsi benissimo che la continua riflessione abbia alterato la struttura del sé autobiografico, portando a una stretta unione di aspetti relativamente disparati dell’elaborazione mentale; il coordinamento dell’attività cerebrale, dapprima guidato dal valore e poi dalla ragione, stava lavorando a nostro vantaggio. Comunque siano andate le cose, il sé che io immagino capace di ribellione è uno sviluppo recente, la cui distanza da noi è nell’ordine delle migliaia di anni: un mero istante, nel tempo evolutivo. Quel sé attinge a caratteristiche del cervello umano che con ogni probabilità furono acquisite durante il lungo periodo del Pleistocene: esso dipende dalla capacità del cervello di trattenere ampie registrazioni mnemoniche non solo relative alle capacità motorie, ma anche a fatti ed eventi: in particolare a fatti ed eventi personali, che costituiscono l’impalcatura della biografia, della personalità e dell’identità individuale. Dipende dall’abilità di ricostruire e manipolare le registrazioni mnemoniche in uno spazio di lavoro cerebrale parallelo allo spazio percettivo: un’area offline dove il tempo può essere momentaneamente sospeso e le decisioni possono quindi essere liberate dalla tirannia della risposta immediata. Dipende dalla capacità del cervello di produrre non solo rappresentazioni mentali che imitino pedissequamente e mimeticamente la realtà, ma anche rappresentazioni simboliche di azioni, oggetti e individui. Il sé ribelle dipende dalla capacità del cervello di comunicare gli stati mentali, soprattutto gli stati del sentire, attraverso gesti del corpo e delle mani, come pure attraverso la voce, nella forma di tonalità musicali e linguaggio verbale. Da ultimo, esso dipende dall’invenzione di sistemi di memoria esterna, paralleli a quelli presenti in ciascun cervello - e qui intendo le rappresentazioni offerte dai primi dipinti, incisioni e sculture, come pure gli strumenti, i gioielli, l’architettura funeraria e, molto tempo dopo l’emergere del linguaggio, le testimonianze scritte, che di certo sono state fino a tempi recentissimi la varietà più importante di memoria esterna.
Una volta che il sé autobiografico può operare sulla base della conoscenza impressa nei circuiti cerebrali e nelle registrazioni esterne fissate sulla pietra, sull’argilla o sulla carta, gli esseri umani diventano capaci di agganciare le proprie esigenze biologiche individuali all’insieme delle conoscenze collettive. Comincia così un lungo processo di indagine, riflessione e risposta, che nel corso di tutta la storia umana registrata si esprime nei miti, nelle religioni, nelle arti e nelle varie strutture escogitate per governare il comportamento sociale: i princìpi etici, i sistemi giudiziari, l’economia, la politica, la scienza e la tecnologia. Le conseguenze ultime della coscienza si realizzano grazie alla memoria, acquisita attraverso un filtro costituito dal valore biologico e animata dalla ragione.
LE CONSEGUENZE DI UN SÉ CAPACE DI RIFLESSIONE
Immaginiamo i primi esseri umani, quando il linguaggio verbale si era ormai affermato da qualche tempo come mezzo di comunicazione. Immaginiamo individui coscienti il cui cervello era dotato di molte delle capacità che riscontriamo negli esseri umani odierni e che cercavano in larga misura le stesse cose che cerchiamo noi oggi: cibo, sesso, riparo, sicurezza, comodità, dignità, forse trascendenza. In quell’ambiente, la competizione per le risorse era un problema dominante, le occasioni di conflitto saranno state numerose e la cooperazione era essenziale. Il comportamento era orientato dalle ricompense, dalle punizioni e dall’apprendimento. Supponiamo che quegli esseri umani possedessero una gamma di emozioni simili alle nostre: senza dubbio erano presenti attaccamento, disgusto, paura, gioia, tristezza e rabbia accanto a emozioni che governavano la socialità, per esempio la fiducia, la vergogna, il senso di colpa, la compassione, il disprezzo, l’orgoglio, la soggezione e l’ammirazione. Supponiamo anche che quei primi esseri umani fossero già animati da un’intensa curiosità riguardante sia il loro ambiente fisico, sia gli altri esseri viventi, a prescindere dal fatto che appartenessero o meno alla loro stessa specie. Se gli studi condotti nel secolo scorso su tribù relativamente isolate possono farci in qualche modo da guida, essi erano anche curiosi nei confronti di se stessi e raccontavano storie sulle proprie origini e il proprio destino. È relativamente facile immaginare quale fosse il motore alla base di quella curiosità. Questi esseri umani primitivi avranno provato affetto e attaccamento per altri individui ai quali erano legati -soprattutto i partner sessuali e la prole, e avranno vissuto il dolore derivante dalla rottura di quei legami, dall’assistere alla sofferenza degli altri, o dal vivere la sofferenza in prima persona. Avranno anche vissuto, da protagonisti e da testimoni, momenti di gioia e di soddisfazione, riscuotendo successi in attività diverse: la caccia, il corteggiamento, la ricerca di un riparo, la guerra, l’allevamento dei bambini.
Presumibilmente questa sistematica scoperta del dramma insito nell’esistenza umana e delle sue possibili compensazioni avvenne solo dopo il completo sviluppo della coscienza: una mente munita di un sé autobiografico capace di guidare il pensiero riflessivo è l’accumulo di conoscenza. Alla fine, date le loro probabili capacità intellettuali, i primi esseri umani si saranno interrogati circa il proprio stato nell’universo: qualcosa di simile alle domande che a distanza di migliaia di anni tormentano anche noi oggi: da dove veniamo? dove andiamo? Ed è a quel punto che matura il sé ribelle. È a quel punto che vengono sviluppati i miti per spiegare la condizione umana e i suoi meccanismi; ed è sempre a quel punto che vengono elaborate convenzioni e norme sociali che portano alla nascita di una autentica moralità, la quale si colloca al di sopra di comportamenti premorali come l’altruismo di parentela e l’altruismo reciproco, comportamenti che la natura aveva esibito molto prima che emergesse il sé riflessivo; è a quel punto, infine, che a partire dai miti, e intorno a essi, vengono create narrazioni religiose mirate sia a spiegare le ragioni alla base del dramma umano, sia a imporre le nuove leggi designate a mitigarlo. In breve, la coscienza riflessiva non solo amplificò la rivelazione sull’esistenza, ma consentì agli individui che ne erano dotati di cominciare a interpretare la propria condizione e ad agire.
Io ipotizzo che il motore alla base di questi sviluppi culturali sia l' impulso omeostatico. Le spiegazioni che si fondano esclusivamente sulla significativa espansione cognitiva prodotta da cervelli più grandi e più intelligenti non riescono a giustificare gli straordinari sviluppi della cultura. In una forma o nell’altra, tali sviluppi manifestano lo stesso obiettivo di quell’omeostasi automatica alla quale ho alluso in tutto il libro: rispondono al rilevamento di uno squilibrio nei processi vitali, e cercano di correggerlo rispettando i vincoli della biologia umana e dell’ambiente fìsico e sociale. L’elaborazione di norme morali e di leggi, insieme allo sviluppo di sistemi giudiziari, rispose al rilevamento di squilibri causati da comportamenti sociali che mettevano in pericolo gli individui e il gruppo. I dispositivi culturali creati per reagire alle deviazioni dall’equilibrio miravano a ripristinarlo tanto negli individui quanto nel gruppo. Il contributo dei sistemi politici ed economici - come pure, per esempio, lo sviluppo della medicina - costituì una risposta ai problemi funzionali che si presentavano nello spazio sociale e che richiedevano di essere corretti all’interno di quello spazio, affinché non compromettessero la regolazione dei processi vitali negli individui costituenti il gruppo. Gli squilibri a cui mi sto riferendo sono definiti da parametri sociali e culturali, e pertanto il loro rilevamento ha luogo al livello più alto della mente cosciente, nella stratosfera del cervello, e non a livello sottocorticale. Io chiamo questo processo generale « omeostasi socioculturale ». In termini neurali, l’omeostasi socioculturale comincia a livello corticale - sebbene le reazioni emozionali suscitate dallo squilibrio impegnino immediatamente anche i processi dell’omeostasi fondamentale, a testimonianza, ancora una volta, della regolazione ibrida dei processi vitali esercitata dal cervello umano. Essa ha luogo a livello alto, poi basso, poi nuovamente alto, con un andamento oscillatorio che spesso flirta con il caos evitandolo d’un soffio. La riflessione cosciente e la pianificazione dell’azione introducono nel controllo dei processi vitali nuove possibilità, al di sopra dell’omeostasi automatica, in quella che è una straordinaria novità della fisiologia. La riflessione cosciente può anche mettere in discussione e modulare l’omeostasi automatica; può anche decidere di fissare un intervallo omeostatico ottimale a un livello superiore rispetto a quello necessario per la sopravvivenza, e più costante-mente favorevole a uno stato di benessere: il benessere immaginato, sognato, anticipato può ora motivare attivamente le azioni umane. L’omeostasi socioculturale fu aggiunta come un nuovo strato funzionale della gestione dei processi vitali; l'omeostasi biologica, comunque, rimase.
Armati di riflessione cosciente, organismi evoluti secondo un modello centrato sulla regolazione dei processi vitali e sulla tendenza verso l’equilibrio omeostatico escogitarono forme di conforto per chi soffriva, ricompense per chi aiutava i sofferenti, imposizioni per coloro che causavano danni, norme di comportamento mirate a impedire il male e a promuovere il bene, e un insieme composito di azioni punitive e preventive, di penalizzazioni ed elogi. Fu allora affrontato il problema di come rendere tutta questa saggezza comprensibile, trasmissibile, persuasiva, realizzabile - in una parola, di come farla attecchire -, e venne trovata una soluzione nel racconto di storie, qualcosa cui il cervello ricorre in modo spontaneo e implicito. La narrazione implicita ha creato il nostro sé, e non dovrebbe sorprendere che pervada l’intero tessuto delle società e delle culture umane. Né dovrebbe sorprendere che le narrazioni socioculturali abbiano preso a prestito la loro autorità da esseri mitici che si presumeva avessero più potere e conoscenza degli umani: esseri la cui esistenza spiegava ogni genere di spiacevole situazione e che erano in grado di offrire aiuto e modificare il futuro. Nei cieli della Mezzaluna Fertile o nel Valhalla del mito, quegli esseri hanno esercitato una grande fascinazione sulla mente umana.
Individui e gruppi, che grazie al loro cervello erano capaci di inventare queste narrazioni o di usarle per migliorare se stessi e le società in cui vivevano, ebbero abbastanza successo perché le caratteristiche di quel cervello fossero favorite dalla selezione sia a livello individuale, sia di gruppo, e perché la loro frequenza aumentasse a ogni generazione.14
L’idea che esistano due ampie categorie di omeostasi, quella fondamentale e quella socioculturale, non deve essere interpretata come se la seconda fosse una costruzione puramente «culturale» e la prima puramente « biologica »: biologia e cultura sono profondamente interattive. L’omeostasi socioculturale è plasmata dalle operazioni di molte menti i cui cervelli sono stati costruiti in un certo modo sotto la guida di genomi specifici. Abbiamo prove sempre più numerose del fatto che gli sviluppi culturali possono portare profonde modificazioni nel genoma umano. Si tratta di una prospettiva affascinante: per esempio, l’allevamento di animali da latte e la presenza di latte e derivati nella dieta ha portato alla modificazione della costituzione genetica relativamente alla tolleranza al lattosio.15
Io sospetto che alla base dell’emergere delle arti vi sia esattamente lo stesso impulso omeostatico che ha plasmato i miti e le religioni, coadiuvato dalla stessa curiosità intellettuale e dallo stesso impulso a cercare spiegazioni. Se si pensa che Freud considerava le arti come un antidoto per le nevrosi indotte dalla religione, tutto questo può sembrare ironico, ma io non ho nessuna intenzione di fare dell’ironia. Questi due sviluppi poterono effettivamente avere origine dalle stesse premesse. Se l’esigenza di gestire i processi vitali fu inizialmente una delle ragioni per l’emergere della musica, della danza, della pittura e della scultura, in seguito la capacità di migliorare la comunicazione e di organizzare la vita sociale costituirono altre due importanti ragioni, conferendo alle arti ulteriore resistenza.
Chiudiamo gli occhi per un istante, e immaginiamo gli esseri umani di molto, moltissimo tempo fa, forse addirittura prima della comparsa del linguaggio, ma comunque già dotati di mente e coscienza, già armati di emozioni e sentimenti, già consapevoli di che cosa significhi essere tristi o gioiosi, trovarsi in pericolo o comodi e al sicuro, godere per un guadagno o subire una perdita, provare piacere o dolore. E adesso immaginiamo come avranno espresso quegli stati dei quali la loro mente era consapevole. Forse avranno intonato richiami: per segnalare il pericolo o per salutarsi, per radunarsi, per esprimere gioia o il dolore del lutto. Forse avranno mormorato a bocca chiusa, o addirittura cantato, giacché l’apparato di fonazione umano è uno strumento musicale normalmente in dotazione al corpo umano. Oppure, giacché la cassa toracica è un tamburo naturale, immaginiamo un tambureggiamento, come dispositivo per concentrare la mente, o anche come strumento di organizzazione sociale - un rullo di tamburo per organizzarsi, un rullo di tamburo per chiamare alle armi. Oppure immaginiamo di soffiare in un flauto primitivo ricavato da un osso: ecco uno strumento di incantesimo, seduzione, consolazione, gioiosa allegria. Non era ancora Mozart, e certo non era Tristano e Isotta, ma la via era stata tracciata. Sogniamo un altro po’.
Quando arti come la musica, la danza e la pittura erano agli esordi, probabilmente gli esseri umani intendevano servirsene per comunicare ad altri informazioni su minacce e opportunità, sulla propria tristezza o la propria gioia e sulla forma da dare al comportamento sociale. Parallelamente alla comunicazione, tuttavia, le arti avranno anche prodotto una compensazione omeostatica. Se non l’avessero fatto, si sarebbero mai affermate? Tutto questo accadeva anche prima di una meravigliosa scoperta: e cioè che quando gli esseri umani riuscivano a pronunciare parole e le univano formando frasi, non tutti i suoni erano uguali. Essi avevano accenti naturali, e gli accenti potevano avere rapporti particolari nel tempo: creare dei ritmi, e certi ritmi avranno generato piacere. A quel punto poté nascere la poesia, e la tecnica poté infine alimentare la prassi della musica e della danza.
L’emergere delle arti fu possibile solo dopo che il cervello ebbe acquisito certe caratteristiche mentali che con ogni probabilità si erano affermate nell’arco di un lungo periodo evolutivo, ancora una volta durante il Pleistocene. Vi sono molti esempi di tali aspetti: fra gli altri, la reazione emotiva di piacere nei confronti di certe forme e di certi pigmenti, presenti in oggetti naturali ma applicabili anche a oggetti fabbricati dall’uomo e utilizzabili per decorare il corpo; la reazione piacevole a certe caratteristiche del suono e a certi tipi di organizzazione dei suoni in rapporto al timbro, al ritmo, come pure alle diverse tonalità e alle loro relazioni; ancora, la reazione emotiva a certi tipi di organizziazione spaziale e ai paesaggi che comprendono panorami aperti e sono in prossimità di acqua e vegetazione.16
Può darsi che l’arte sia iniziata come dispositivo omeostatico a beneficio dell’artista e del ricevente, e anche come mezzo di comunicazione. Alla fine - sia da parte dell’artista, sia da parte del pubblico - gli usi si fecero alquanto vari. L’arte divenne un mezzo privilegiato per trattare informazione fattuale ed emozionale ritenuta importante per gli individui e la società, una funzione consolidata nelle prime forme di poesia epica, teatro e scultura. L’arte divenne anche un mezzo per indurre emozioni e sentimenti in grado di arricchire chi ne fruiva: qualcosa in cui, nel tempo, la musica ha dimostrato di eccellere. Fatto non meno importante, l’arte divenne un modo per esplorare la propria mente e quella degli altri, un mezzo per provare e riprovare specifici aspetti della vita, e per esercitare il giudizio e l’azione morali. Da ultimo, le arti - poiché hanno radici profonde nella biologia e nel corpo degli esseri umani, ma possono anche elevarli alle più alte vette del pensiero e del sentimento - divennero un modo per ottenere il perfezionamento omeostatico, perfezionamento che gli esseri umani finirono per idealizzare e che desideravano raggiungere: la controparte biologica di una dimensione spirituale nelle questioni umane.
In breve, le arti si affermarono nell’evoluzione perché avevano un valore in termini di sopravvivenza e contribuivano allo sviluppo del concetto di benessere. Erano utili per cementare i gruppi e per promuovere l’organizzazione sociale; contribuivano alla comunicazione; compensavano gli squilibri causati da emozioni quali la paura, la rabbia, il desiderio e il dolore; e probabilmente, come indicano Chauvet e Lascaux, inaugurarono il lungo processo di affermazione delle registrazioni esterne della vita culturale.
È stato ipotizzato che l’arte sia sopravvissuta perché rendeva gli artisti più attraenti come partner sessuali, assicurando loro un maggior successo; basta pensare a Picasso per sorridere e convenirne. Probabilmente però le arti si sarebbero affermate anche solo sulla base del loro valore terapeutico.
Di fronte alla sofferenza umana, alla felicità mai raggiunta e all’innocenza perduta, le arti erano una compensazione inadeguata; nondimeno, erano e restano una compensazione, un modo per controbilanciare le calamità naturali e il male compiuto dagli esseri umani: esse sono uno dei doni straordinari offertoci dalla coscienza.
E qual è il più grande di quei doni? Forse la capacità di navigare nel futuro, solcando i mari della nostra immaginazione, guidando il vascello del sé in un porto vantaggioso e sicuro. Questo dono più grande di tutti gli altri dipende ancora una volta dall’intersezione tra il sé e la memoria. La memoria, temperata dai sentimenti personali, è ciò che consente agli esseri umani non solo di immaginare il benessere - sia quello individuale, sia quello collettivo di un’intera società -, ma anche di inventare il modo e i mezzi per ottenerlo e amplificarlo. È la memoria che, senza sosta, colloca il sé in un fugace qui e ora, fra un passato vissuto fino in fondo e un futuro anticipato, costantemente schiacciato tra i molti ieri già vissuti e i domani che sono ancora soltanto una mera possibilità. Il futuro, da un orizzonte lontano ed evanescente, ci trascina in avanti, e ci dà la volontà di continuare il nostro viaggio nel presente. Forse era questo che intendeva T.S. Eliot quando scrisse: «Il tempo passato e il tempo futuro / ciò che poteva essere e ciò che è stato / tendono a un solo fine, che è sempre presente ».17