7

LA COSCIENZA OSSERVATA

 

 

 

 

 

DEFINIZIONE DI «COSCIENZA»

Se apriamo un comune dizionario e cerchiamo la definizione di coscienza, probabilmente ci imbatteremo in una variazione su questo tema: « Stato di consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante ». Se scriviamo conoscenza al posto di consapevolezza e propria esistenza al posto di sé, otteniamo un’affermazione che coglie alcuni aspetti essenziali della mia idea di coscienza: uno stato della mente in cui vi è conoscenza della propria esistenza e di quella dell’ambiente circostante. La coscienza è uno stato della mente: se non vi è mente, non vi è coscienza; ed è uno stato della mente particolare, arricchito dalla percezione del particolare organismo in cui la mente sta operando; infine, lo stato della mente include la conoscenza, così che l’esistenza cui accennavo sopra sia contestualizzata, circondata di oggetti ed eventi. La coscienza è uno stato della mente al quale è stato aggiunto un processo del sé.

Lo stato della mente cosciente è esperito dalla prospettiva esclusiva, in prima persona, di ciascun organismo, e non è mai osservabile da nessun altro. L’esperienza è posseduta dall’organismo che l’ha vissuta e da lui soltanto; sebbene sia esclusivamente privata, possiamo tuttavia adottare nei suoi confronti un punto di vista relativamente « oggettivo ». Per esempio, io adotto un punto di vista di questo tipo quando cerco di cogliere una base neurale per il sé-oggetto, il mio «me materiale», Un «me materiale » arricchito, inoltre, è in grado di consegnare la conoscenza alla mente. In altre parole, il sé-oggetto può operare anche da soggetto della conoscenza, da conoscitore.

Possiamo ampliare questa definizione affermando in primo luogo che gli stati mentali coscienti hanno sempre un contenuto (riguardano sempre qualcosa) e che alcuni di quei contenuti tendono a essere percepiti come composizioni ben integrate di parti (per esempio, quando vediamo e udiamo una persona che parla e viene verso di noi); in secondo luogo, che gli stati mentali coscienti rivelano proprietà qualitative distinte attinenti ai diversi contenuti conosciuti (è qualitativamente diverso vedere o udire, toccare o gustare); e, in terzo luogo, che gli stati mentali coscienti contengono obbligatoriamente un aspetto del sentire; noi li sentiamo in un certo modo. Infine, la nostra definizione provvisoria deve affermare che gli stati mentali coscienti sono possibili solo quando ci troviamo in stato di veglia, anche se questo punto conosce una parziale eccezione, quando dormiamo, nella coscienza paradossa che ha luogo durante i sogni. In conclusione, nella sua forma normale, la coscienza è uno stato della mente che si manifesta quando siamo svegli e nel quale vi è una conoscenza privata e personale della nostra esistenza, quest’ultima contestualizzata rispetto all’ambiente, quale che esso sia in un dato momento. Necessariamente, questi stati mentali trattano conoscenze basate su materiali riconducibili a modalità sensoriali diverse - corporea, visiva, uditiva, eccetera - e manifestano proprietà qualitative diverse per i diversi flussi di informazioni sensoriali. Gli stati coscienti della mente sono sentiti.

Quando parlo della coscienza non mi riferisco soltanto allo stato di veglia, un comune quanto improprio accostamento derivante dal fatto che, quando si esce dallo stato di veglia, spesso si esce anche dallo stato di coscienza. (Affronterò questi temi nelle prossime pagine). La definizione chiarisce anche che il termine «coscienza» non si riferisce soltanto a un semplice processo della mente, privo del sé. Considerare la coscienza alla stregua della mente significa, purtroppo, fare un uso comune del termine: secondo me, un uso errato. Spesso si sente parlare di « qualcosa che è presente nella coscienza» intendendo dire «nella mente»; oppure si afferma che qualcosa è diventato un contenuto importante della mente, per esempio in frasi come questa: «Alla fine il problema del riscaldamento globale è penetrato nella coscienza delle nazioni occidentali»; diversi studi contemporanei concentrati sulla coscienza - un numero significativo -la trattano alla stregua della mente. Così come è usato in questo libro, inoltre, il termine conscious-ness [coscienza] non sta né per self-consciousness [imbarazzo] come nella frase «John era sempre più self-conscious [imbarazzato] mentre lei continuava a fissarlo»; né per conscience [coscienza, in senso morale], intesa come una funzione complessa che effettivamente richiede lo stato di coscienza ma si spinge ben oltre ed è attinente alla responsabilità morale. Infine, la mia definizione non si riferisce alla coscienza nel senso colloquiale inteso da James nell’espressione «flusso di coscienza», con la quale spesso si allude ai semplici contenuti della mente mentre scorrono nel tempo come acqua nel letto di un fiume, e non al fatto che tali contenuti incorporano aspetti più o meno sottili di soggettività. Spesso, nel contesto dei soliloqui shakespeariani o joyciani, i riferimenti alla coscienza fanno uso di questa accezione più semplice. È ovvio, d’altra parte, che gli autori originali stavano esplorando il fenomeno nella sua espressione più completa, scrivendo dalla prospettiva del sé di un personaggio: a tal punto ciò è vero, da spingere Harold Bloom a ipotizzare che probabilmente Shakespeare sia stato il primo a introdurre - da solo - il fenomeno della coscienza in letteratura. (Si veda peraltro la posizione diversa, del tutto plausibile, sostenuta da James Wood, secondo il quale la coscienza fece effettivamente il suo ingresso in letteratura attraverso il soliloquio, ma molto tempo prima: nella preghiera, per esempio, e nella tragedia greca).1

 

 

SMONTARE LA COSCIENZA

La coscienza e lo stato di veglia non sono la stessa cosa; essere svegli è tuttavia un prerequisito per essere coscienti. Nel sonno, a prescindere dal fatto che ci si addormenti in modo naturale o che si sia costretti a farlo da un anestetico, la coscienza - intesa nella sua forma normale - svanisce; la sola parziale eccezione è rappresentata da quel particolare stato di coscienza che accompagna i sogni e che, non essendo una forma di coscienza normale, non contraddice assolutamente il requisito della veglia.

Noi tendiamo ad accostarci allo stato di veglia considerandolo un fenomeno on/off, in pratica attribuendo un valore «0» al sonno e un valore « 1 » allo stato di veglia. In una certa misura questo è corretto, ma l’approccio tutto-o-nulla trascura sfumature ben note a chiunque. Il torpore e la sonnolenza sicuramente smorzano la coscienza, senza tuttavia portarla bruscamente a zero. L’atto di spegnere la luce non è un’analogia calzante; molto più centrata è l’idea di abbassarla usando un interruttore varialuce.

A prescindere dal fatto che la nostra azione sia brusca o graduale, che cosa ci rivelano le luci nel momento in cui le accendiamo? Molto spesso svelano qualcosa che comunemente descriviamo come « mente » o « contenuti mentali ». E di che cosa è fatta la mente così svelata? Di configurazioni mappate nell’idioma di ogni possibile modalità sensoriale - configurazioni visive, uditive, tattili, muscolari, viscerali, quello che preferite, in meravigliose sfumature, toni, variazioni e combinazioni, che scorrono in modo ordinato o caotico -, in breve, immagini. In precedenza ho presentato le mie idee sull’origine delle immagini (cap. 3); qui, tutto quello che occorre è ricordare in primo luogo che le immagini sono la principale valuta di cui si serve la nostra mente; e in secondo luogo che il termine si riferisce a configurazioni riconducibili a tutte le modalità sensoriali, e non solo a quella visiva, come pure a configurazioni astratte non meno che concrete.

Il semplice atto fisiologico di accendere le luci - scuotere qualcuno che si è appisolato - si traduce necessariamente in uno stato di coscienza? Assolutamente no. Non occorre spingersi molto lontano per trovare prove che dimostrano il contrario. È capitato a tutti di svegliarsi spossati e sotto l’effetto del jetlag, da qualche parte oltreoceano, e di impiegare un paio di secondi - per fortuna un tempo breve anche se lì per lì appare lungo -per rendersi conto di dove ci si trovi realmente. Durante quel breve lasso di tempo siamo in presenza di una mente, di certo però non ancora organizzata con tutte le proprietà della coscienza. Se perdo coscienza perché la mia testa ha sbattuto contro un oggetto non proprio morbido, prima che mi « riprenda » passerà un altro intervallo di tempo, misericordiosamente breve, ma misurabile. Per inciso, quel « riprendersi » è un modo sintetico per dire «riprendere coscienza», ovvero ritornare a una mente orientata su di sé. Sebbene poco elegante, questa espressione contiene un esempio di ben fondata saggezza popolare. Riacquistare la coscienza dopo un trauma cranico chiuso - per usare il gergo della neurologia -può richiedere tempi lunghi, durante i quali la vittima non è perfettamente orientata in senso spaziale o temporale, e meno che mai personale.

Queste situazioni mostrano che le funzioni mentali complesse non sono monolitiche e possono letteralmente essere smontate, pezzo per pezzo. Sì, le luci sono accese e siamo svegli. (Un punto per la coscienza). Sì, la mente è «on», si stanno formando immagini di ciò che abbiamo di fronte; quelle rievocate dal passato, però, sono poche e distanziate. (Mezzo punto per la coscienza). No, ci sono ancora pochi elementi per indicare chi sia il proprietario di questa mente così labile, non vi è nessun sé che la reclami come cosa sua. (Zero punti per la coscienza) . Complessivamente, qui la coscienza non passa l’esame. Morale: per ottenere un punteggio che consenta la sua promozione, è indispensabile 1) essere svegli; 2) avere una mente operativa; e 3) avere, all’interno di quella mente, come protagonista dell’esperienza, un senso del sé automatico, spontaneo, non dedotto, non importa quanto sottile. Esprimendoci in termini poetici, potremmo dire che in stato di veglia e in presenza della mente - entrambi requisiti necessari per essere coscienti - l’aspetto distintivo della coscienza sia il pensiero stesso di sé. Per rendere la poesia più accurata, tuttavia, dovremmo dire «il pensiero stesso, sentito, di sé».

 

 

Il fatto che lo stato di veglia e la coscienza non siano la stessa cosa è evidente quando consideriamo quella particolare condizione di interesse neurologico nota come « stato vegetativo ». I pazienti in stato vegetativo non manifestano in alcun modo di essere coscienti. Come coloro che versano in stato di coma - una situazione simile ma più grave -, i soggetti in stato vegetativo non rispondono ad alcun messaggio proveniente dagli esaminatori e non danno alcun segno spontaneo di consapevolezza di sé o dell’ambiente circostante. Eppure, il loro elettroencefalogramma (il tracciato delle onde elettriche continuamente prodotte da un cervello vivo) mostra l’alternanza dei pattern caratteristici del sonno o dello stato di veglia. Quando il tracciato è quello tipico dello stato di veglia, i pazienti hanno spesso gli occhi aperti, anche se fissano lo spazio con un’espressione vuota senza dirigere lo sguardo verso oggetti particolari. Questo tipo di attività elettrica non si osserva mai nei pazienti in coma: una condizione in cui tutti i fenomeni associati alla coscienza (veglia, mente e sé) appaiono assenti.2

L’inquietante condizione rappresentata dallo stato vegetativo fornisce informazioni preziose anche su un altro aspetto della distinzione che sto tracciando. In uno studio che giustamente attirò l’attenzione, Adrian Owen riuscì a determinare, usando la risonanza magnetica funzionale, che il cervello di una donna in stato vegetativo presentava configurazioni di attività congruenti con le domande e le richieste specifiche formulate da un esaminatore. Inutile dire che era stata diagnosticata come priva di coscienza. La donna non rispondeva esplicitamente alle domande, non reagiva alle istruzioni impartitele, né dava spontaneamente alcuna prova di possedere una mente attiva. Lo studio della sua risonanza magnetica funzionale mostrava tuttavia che le regioni uditive della sua corteccia cerebrale si attivavano quando le venivano poste delle domande. Il tipo di attivazione ricordava quello che si riscontra in un soggetto normalmente cosciente che reagisca a domande simili. Ancora più impressionante era il fatto che quando si chiedeva alla paziente di immaginare di fare un giro in casa sua, le cortecce cerebrali presentavano una configurazione di attività del tipo osservabile nei soggetti normalmente coscienti che eseguano un compito simile. Sebbene in altre occasioni la donna non abbia più mostrato la medesima attività, da allora è stato studiato un piccolo numero di pazienti nei quali è stata rilevata un’attività simile, anche se non in tutti i tentativi effettuati.3 Uno di essi, in particolare, grazie a un training ripetuto, riuscì a evocare risposte in precedenza associate a o no.4

Questo studio mostra come anche in assenza di qualsiasi comportamento indicativo di uno stato di coscienza, possano esserci segni dell’attività cerebrale comunemente correlata ai processi mentali. In altre parole, le osservazioni dirette sul cervello offrono evidenze compatibili con una qualche conservazione sia dello stato di veglia, sia della mente; per contro, le osservazioni comportamentali non rivelano evidenza alcuna del fatto che la coscienza, nel senso prima descritto, accompagni tali operazioni. Questi importanti risultati possono essere prudentemente interpretati nel contesto delle numerose evidenze secondo le quali i processi mentali operano in modo non cosciente (si veda più avanti, in questo capitolo e nel capitolo 11). I risultati sono certamente compatibili con la presenza di un processo della mente e perfino con un processo del sé a livello minimo. Tuttavia, nonostante la loro importanza sia in termini scientifici sia in termini di gestione clinica dei pazienti, sono riluttante a considerare tali risultati come prove di una comunicazione cosciente o come una giustificazione ragionevole per abbandonare la definizione di coscienza discussa in precedenza.

 

 

RIMUOVERE IL SÉ CONSERVANDO LA MENTE

Forse l’evidenza più convincente di una separazione fra lo stato di veglia e la mente da un lato, e il sé dall’altro, proviene da un’altra condizione neurologica: l’automatismo epilettico, che può far seguito a certe crisi. In tali situazioni, il comportamento del paziente si interrompe all’improvviso per un breve lasso di tempo in cui l’azione si blocca del tutto; segue poi un periodo, in generale anch’esso breve, durante il quale il soggetto riprende il comportamento attivo ma non dà alcun segno di un normale stato di coscienza. Il paziente, che rimane in silenzio, può muoversi nell’ambiente, ma le sue azioni - per esempio salutare con la mano o uscire da una stanza - non paiono avere uno scopo generale: possono avere un «miniscopo», per esempio prendere un bicchier d’acqua e bere, ma nulla indica che questa finalità in chiave minore sia inserita in un contesto più ampio. Il paziente non fa alcun tentativo di comunicare con l’osservatore, né risponde ai tentativi di comunicare messi in atto da quest’ultimo.

Quando ci rechiamo nello studio di un medico, il nostro comportamento rientra in un contesto generale che ha a che fare con gli obiettivi specifici della visita, con il programma generale della nostra giornata, e con i piani e le intenzioni più ampie della nostra vita, su scale temporali diverse, rispetto alle quali la visita può avere o meno una qualche rilevanza. Tutto quello che facciamo, sulla «scena» dello studio medico, prende forma da questi molteplici contenuti, anche se - per comportarci in modo coerente - non occorre che li teniamo tutti in mente. Lo stesso vale per il medico, relativamente al suo ruolo nella stessa scena. In uno stato di coscienza attenuata, invece, tutta l’influenza esercitata dallo sfondo è ridotta a poco o nulla; il comportamento è controllato da stimoli immediati, del tutto avulsi dal contesto più ampio. Se si ha sete, per esempio, l’atto di prendere in mano un bicchiere e di bere ha un senso, e non occorre che quell’azione si connetta a un contesto più ampio.

Ricordo bene il primo paziente in cui osservai questa condizione: lo ricordo perché il suo comportamento mi apparve del tutto inedito, inatteso e inquietante. Nel bel mezzo della nostra conversazione, l’uomo smise di parlare e cessò completamente di muoversi. Il suo volto divenne inespressivo, e i suoi occhi aperti fissavano oltre me, la parete alle mie spalle. L’uomo rimase immobile per diversi secondi. Non cadde dalla sedia, né si addormentò; non ebbe convulsioni né contrazioni. Lo chiamai per nome, ma non ci fu risposta. Quando ricominciò a muoversi un poco, fece schioccare le labbra. Il suo sguardo si spostò e sembrò momentaneamente concentrarsi su una tazza da caffè posata sul tavolo, fra noi due. Sebbene fosse vuota, la prese ugualmente in mano, e fece l’atto di bere. Io insistevo a parlargli, ma lui non rispondeva. Gli chiesi che cosa stesse succedendo, e non rispose. Il suo volto era ancora inespressivo, e non mi guardava. Lo chiamai per nome, ma continuò a non rispondermi. Alla fine si alzò in piedi, si voltò, e andò lentamente verso la porta. Lo chiamai ancora: si fermò, mi guardò, e il suo volto assunse un’aria perplessa. Lo chiamai di nuovo, e lui disse: « Che c’è? ».

Il paziente aveva avuto una crisi di assenza (un tipo di crisi epilettica), seguita da un periodo di automatismo. Era stato, al tempo stesso, presente e assente: di certo era sveglio, e di sicuro aveva esibito un comportamento; in parte attento e presente fisicamente, come persona era tuttavia un «disperso». Molti anni dopo descrissi quel paziente come « assente ingiustificato » e quella descrizione rimane calzante.5

Senza dubbio l’uomo era sveglio nel pieno senso del termine. Aveva gli occhi aperti, e il tono muscolare gli permetteva di muoversi nella stanza. Senza dubbio compì delle azioni, le quali però non indicavano un piano organizzato. Non aveva uno scopo generale e non riconosceva le circostanze della situazione; il suo comportamento non era appropriato, e le sue azioni presentavano una coerenza minima. Senza dubbio il cervello di quell’uomo stava formando delle immagini mentali, sebbene non si possa fornire alcuna garanzia circa la loro abbondanza o la loro coerenza. Affinché la mano raggiunga una tazza, la prenda, la porti alle labbra e la rimetta sul tavolo, il cervello deve formare immagini - ne deve formare moltissime - quanto meno visive, cinestetiche e tattili; altrimenti la persona non sarebbe in grado di eseguire tutti i movimenti in modo corretto. Se questo depone a favore della presenza della mente, però, non produce alcuna evidenza della presenza di un sé. L’uomo sembrava non sapere chi fosse, dove si trovasse, chi fossi io, e perché fosse lì di fronte a me.

In effetti, non solo mancava ogni prova di una tale conoscenza esplicita: non vi era nemmeno alcuna indicazione di una guida implicita del suo comportamento, quella sorta di pilota automatico che ci consente di tornare a casa a piedi, senza concentrarci in modo cosciente sul percorso da seguire. Inoltre, nel comportamento dell’uomo non vi era alcun segno di emozione: una significativa indicazione, questa, di una grave compromissione della coscienza.

Casi come questo forniscono prove stringenti, forse a tutt’oggi le uniche definitive, di uno spartiacque fra due funzioni - la veglia e la mente - che rimangono disponibili; e un’altra funzione - il sé - che, comunque si giudichi la situazione, non lo è più. Quell'uomo non aveva alcuna percezione della propria esistenza e aveva una percezione difettosa dell’ambiente circostante.

Come accade molto spesso quando si analizza il comportamento complesso di un essere umano nel momento in cui esso viene disturbato dalla malattia cerebrale, le categorie usate per costruire ipotesi sulla funzione del cervello e per spiegare le osservazioni sono tutt’altro che rigide. Lo stato di veglia e la mente non sono « cose » tutto-o-nulla. Il sé, naturalmente, non è una cosa; è un processo dinamico, mantenuto a livelli ragionevolmente stabili durante gran parte delle nostre ore di veglia e tuttavia - durante quel periodo, soprattutto all’inizio e alla fine - soggetto a variazioni di maggiore e minore entità. Lo stato di veglia e la mente, come sono qui concepiti, sono anch’essi processi, e mai cose rigide. Trasformare i processi in cose è un mero artefatto del nostro bisogno di comunicare agli altri idee complicate, in modo rapido ed efficace.

Nel caso appena descritto, possiamo assumere con sicurezza l’integrità dello stato di veglia e la presenza del processo della mente. Non possiamo dire però quanto fosse ricco tale processo, ma solo che era sufficiente per orientarsi nell’universo limitato che l’uomo stava affrontando. Quanto alla coscienza, chiaramente non era normale.

Come interpretare la situazione di quell’uomo dalla prospettiva di quanto so oggi? Io credo che la sua capacità di assemblare una funzione del sé fosse gravemente compromessa: aveva perso la capacità di generare, istante per istante, la maggior parte delle operazioni che gli avrebbero fornito una supervisione automatica - da legittimo proprietario - della propria mente. Quelle operazioni, accanto a elementi della sua identità, del suo passato recente e del suo futuro programmato, gli avrebbero fornito anche un senso dell’agire. Con ogni probabilità, i contenuti mentali normalmente controllati da un processo del sé erano impoveriti: in quelle circostanze, l’uomo era confinato in un presente senza scopo e decontestualizzato. Il sé, inteso come «me materiale», era andato in larga misura perduto, e - cosa ancor più sicura - altrettanto assente era il sé come conoscitore.

Essere sveglio, avere una mente e avere un sé sono processi cerebrali diversi, costruiti grazie all’attività di componenti cerebrali pure diverse. Ogni giorno, all’interno del nostro cervello, questi processi si fondono senza soluzione di continuità in uno straordinario continuum funzionale, permettendo e rivelando diverse manifestazioni del comportamento. Non si tratta però di « compartimenti » veri e propri; non sono stanze divise da pareti rigide: i processi biologici non sono assoluta-mente simili agli artefatti umani. Nondimeno - pur nel loro modo di essere biologico, disordinato e confuso -essi sono separabili, e se non cerchiamo di scoprire in che cosa differiscano e dove avvenga la sottile transizione di uno nell’altro, non avremo alcuna probabilità di capire come funzioni l’insieme nel suo complesso.

Sono dell’idea che, se un individuo è sveglio e se nella sua mente sono presenti dei contenuti, la coscienza derivi dall’aggiunta, alla mente, di una funzione del sé che orienta i contenuti mentali in direzione delle sue esigenze, dando così luogo alla soggettività. La funzione del sé non è una sorta di omuncolo onnisciente, ma piuttosto l’emergere, all’interno di quel processo di screening virtuale che noi chiamiamo mente, di un ulteriore elemento virtuale: un immaginario protagonista dei nostri eventi mentali.

 

 

COMPLETAMENTO DI UNA DEFINIZIONE OPERATIVA

Sappiamo bene che, quando una malattìa neurologica distrugge la coscienza, le risposte emozionali sono assenti, e si può presumere che lo siano anche i sentimenti che a quelle risposte corrispondono. I pazienti con disturbi della coscienza non danno segni di emozione. Il loro volto ha un’espressione vuota, assente. Mancano tutti i piccoli segni di attività muscolare: un aspetto importante visto che perfino una « faccia da poker » è emotivamente animata e tradisce segni sottili di aspettativa, insincerità, disprezzo e simili. I pazienti con una qualsiasi variante di mutismo acinetico o di stato vegetativo, per non parlare dei soggetti in coma, mostrano pochissime espressioni, sempre ammesso che ne presentino. Lo stesso vale per l’anestesia profonda, ma - come è prevedibile - non per il sonno, in cui l’espressione delle emozioni può comparire nelle fasi che consentono la coscienza paradossa.

Da un punto di vista comportamentale, gli stati mentali coscienti degli altri sono contraddistinti da un comportamento di veglia, coerente, diretto a uno scopo, che comprende segni di reazioni emozionali in atto. Molto presto nella nostra vita, sulla base delle descrizioni verbali dirette che udiamo, impariamo che tali reazioni emozionali sono sistematicamente accompagnate dai sentimenti. In seguito, osservando gli esseri umani intorno a noi, assumiamo che essi stiano provando particolari sentimenti anche nel caso in cui non una singola parola sia da loro proferita o a loro indirizzata. In effètti, anche l’espressione emozionale più sottile può svelare, a una mente sensibile, ben sintonizzata ed empatìca, la presenza di sentimenti, per quanto silenziosi essi siano. Questo processo di attribuzione dei sentimenti non ha assoluta-mente nulla a che fare con il linguaggio. È basato sull’osservazione esperta - frutto di addestramento - delle posture e delle espressioni facciali mentre vanno incontro a modificazione.

Perché le emozioni segnalano in modo tanto significativo che la coscienza è presente? Perché l’esecuzione effettiva della maggior parte delle emozioni è opera del grigio periacqueduttale (gpa) , in stretta cooperazione con il nucleo del tratto solitario (nts) e il nucleo parabrachiale (npb): le strutture che, nell’insieme, generano sentimenti corporei (quali i sentimenti primordiali) e le loro variazioni, che noi chiamiamo « sentimenti delle emozioni». Questo ensemble viene spesso compromesso dalle lesioni neurologiche responsabili della perdita di coscienza; le stesse strutture possono esser rese disfunzionali dall’azione di certi anestetici che ne fanno il proprio bersaglio.

Come vedremo nel capitolo 8, nello stesso modo in cui i segni delle emozioni sono una parte dello stato di coscienza osservabile dall’esterno, così le esperienze dei sentimenti del corpo sono una parte vitale e profonda della coscienza, osservabile in prima persona da un’angolazione introspettiva.

 

 

TIPI DI COSCIENZA

La coscienza fluttua. Al di sotto di una certa soglia non è attiva, mentre opera al massimo dell’efficienza in corrispondenza dei vari livelli di quella che possiamo chiamare la sua «scala di intensità». Faremo qualche esempio di questi livelli, che sono molto diversi: in certi momenti, abbiamo sonno e siamo sul punto di cadere fra le braccia di Morfeo; in altri momenti, partecipiamo a un intenso dibattito che richiede un’acuta consapevolezza dei diversi dettagli affioranti nella discussione. Lungo la scala di intensità, la variazione copre tutte le sfumature intermedie fra ottundimento e massima capacità di penetrazione.

Oltre che in base all’intensità, tuttavia, la coscienza può essere valutata anche secondo un altro criterio, legato al suo raggio di estensione, alla sua portata. Un raggio minimo consente comunque una percezione del sé, come quando stiamo bevendo una tazza di caffè a casa nostra senza preoccuparci della provenienza della tazza o del caffè, né di come la bevanda influirà sul nostro battito cardiaco, e nemmeno di quello che dobbiamo fare quel giorno. Siamo tranquillamente presenti in quel particolare momento, e questo è tutto. Ora, immaginiamo di essere seduti a bere un’analoga tazza di caffè in un ristorante, in attesa di incontrare nostro fratello che vuole discutere a proposito dell’eredità dei nostri genitori e del comportamento da tenere con una sorellastra che ha agito in modo strano. Anche in questo caso siamo molto presenti e completamente calati nella situazione, come direbbero a Hollywood, tuttavia ora siamo trasportati in molti altri luoghi, uno dopo l’altro, insieme a molte altre persone oltre a nostro fratello, e proiettati in situazioni che non abbiamo ancora vissuto ma che sono frutto della nostra immaginazione, ricca e bene informata. Frammenti e spezzoni della nostra vita passata, rapidamente resi disponibili, si offrono alla rievocazione; e nell’esperienza del momento entrano anche frammenti e spezzoni di quello che la nostra vita potrebbe (o non potrebbe) diventare, immaginati in passato o adesso. Ci troviamo in tutti i luoghi e in molte epoche trascorse e future della nostra vita. Ma noi - il me che è in noi - non usciamo mai dalla vista. Tutti questi contenuti sono inestricabilmente legati a un singolo punto di riferimento. Anche se ci concentriamo su un evento remoto, la connessione resta: il centro tiene. Questa è la coscienza ad ampio raggio, di vasta portata - uno dei grandiosi risultati del cervello umano e uno dei tratti definitori dell’umanità. Questo è il tipo di processo cerebrale che ci ha portato alla civiltà, nel punto in cui siamo, nel bene e nel male. Questo è il tipo di coscienza illustrata nelle opere letterarie, cinematografiche e musicali, la coscienza celebrata dalla riflessione filosofica.

Io ho dato un nome a questi due tipi di coscienza: quella caratterizzata da una portata minima è la coscienza nucleare, la percezione del qui e ora, libera dal peso di troppo passato, e gravata da poco o nessun futuro. Essa ruota intorno a un sé nucleare e riguarda la personalità ma non necessariamente l’identità. La coscienza di vasta portata è invece quella che io chiamo estesa o autobiografica, giacché si manifesta nel modo più intenso quando entra in gioco una parte sostanziale della vita dell’individuo e quando le sue attività sono dominate sia dal passato vissuto, sia dal futuro anticipato. Essa riguarda al tempo stesso la personalità e l’identità ed è presidiata da un sé autobiografico.

Molto spesso, quando pensiamo alla coscienza, abbiamo in mente quella di vasta portata, associata a un sé autobiografico. La mente dotata di questo tipo di coscienza si allarga e abbraccia senza sforzo contenuti reali e immaginari. Le ipotesi circa il modo in cui il cervello produce gli stati coscienti devono prendere in considerazione la coscienza sia a questo livello elevato, sia al livello nucleare.

Oggi ritengo che le variazioni di portata della coscienza siano di gran lunga più erratiche di come le immaginavo un tempo; quella portata va costantemente allargandosi o restringendosi come se fosse controllata da un cursore. Gli spostamenti, in un senso o nell’altro, possono aver luogo all’interno di un dato evento, molto rapidamente, a seconda del bisogno. Questa fluidità e questo dinamismo della portata della coscienza non sono poi così diversi dai rapidi cambiamenti di intensità che come sappiamo hanno luogo nel corso della giornata e dei quali abbiamo già parlato. Quando durante una conferenza ci annoiamo, la nostra coscienza si smorza e possiamo addirittura appisolarci, perdendola del tutto. Mi auguro che questo non stia capitando proprio adesso ai miei lettori.

Il punto di gran lunga più importante è che i livelli di coscienza fluttuano seguendo l’andamento della situazione. Per esempio, quando ho distolto lo sguardo dalla pagina per mettermi a pensare, e i delfini che mi nuotavano vicino hanno catturato la mia attenzione, io non stavo impegnando il mio sé autobiografico in tutta la sua portata, perché non ne avevo alcun bisogno; viste le esigenze del momento, sarebbe stato uno spreco, sia di capacità di elaborazione cerebrale, sia di energia. Del resto, il sé autobiografico non mi serviva neanche per far fronte ai pensieri che hanno preceduto la scrittura delle frasi qui sopra. Se però un intervistatore mi si siede di fronte e vuole sapere come e perché sono diventato un neurologo e un neuroscienziato e non un ingegnere o un regista, ecco che devo impegnare il mio sé autobiografico. In tal caso, il mio cervello soddisfa quell’esigenza.

 

 

Il livello di coscienza cambia rapidamente anche quando sogniamo ad occhi aperti, una cosa che ora va di moda chiamare mind-wandering: vagare con la mente, divagare. Potrebbe allo stesso modo essere chiamata self-wandering, vagare con il sé, dal momento che i sogni a occhi aperti richiedono non solo una digressione rispetto ai contenuti dell’attività in corso, ma anche una discesa al livello del sé nucleare. I prodotti della nostra immaginazione « offline » affiorano in primo piano: progetti, occupazioni, fantasie... il tipo di immagini che prolifera quando siamo bloccati in tangenziale. Tuttavia, la coscienza « online » ridotta al sé nucleare e distratta Verso un altro argomento è ancora una coscienza normale. Lo stesso non si può dire della coscienza dei sonnambuli, o di chi è sotto ipnosi o sperimenta sostanze che « alterano la mente ». Nel caso di queste ultime, il repertorio degli stati di coscienza risultanti è lungo e vario e comprende le aberrazioni più creative della mente e del sé. Anche lo stato di veglia può disintegrarsi: il punto d’arrivo fin troppo comune di queste avventure è rappresentato dal sonno o dallo stupore.

In conclusione, il grado in cui il sé protagonista è presente nella nostra mente varia moltissimo a seconda delle circostanze, passando da una rappresentazione di chi noi siamo molto dettagliata e perfettamente contestualizzata, a un vago indizio del fatto che possediamo la nostra mente, i nostri pensieri e le nostre azioni. Devo tuttavia insistere sull’idea che, anche nella sua forma più esile e vaga, il sé è una presenza necessaria nella mente. Affermare che quando sto scalando una montagna, o quando sto scrivendo questa frase, il sé non possa in alcun modo essere rintracciato non è assolutamente corretto. In queste circostanze, di sicuro esso non occupa una posizione di primo piano; si ritira convenientemente sullo sfondo e lascia spazio, nel nostro cervello impegnato a creare immagini, a tutte le altre cose che necessitano spazio di elaborazione (per esempio la superficie della roccia, oppure i pensieri che voglio affidare alla pagina) . Mi arrischio però a dire che se il processo del sé dovesse venir meno e scomparire del tutto, la mente sarebbe disorientata e perderebbe la capacità di raccogliere le proprie componenti. I pensieri andrebbero a ruota libera, senza essere rivendicati da un proprietario. La nostra efficacia nell’interagire con il mondo reale crollerebbe a livelli minimi o si annullerebbe del tutto, e a chi ci osservasse noi appariremmo perduti. Che aspetto avremmo? Appariremmo privi di coscienza, incoscienti.

Temo che non sia facile trattare il sé perché, a seconda della prospettiva adottata, può essere moltissime cose. Può essere un « oggetto » di ricerca per psicologi e neuroscienziati; può essere una fonte di conoscenza per la mente in cui emerge; può essere una presenza appena avvertita e ritirarsi dietro un sipario, oppure una presenza assertiva, proprio sotto le luci di scena; può essere confinato al qui e ora, oppure abbracciare la storia d’una vita intera; infine, alcuni di questi diversi registri possono mescolarsi, come quando un sé conoscitore ha una qualità autobiografica pur essendo quasi impercettibile; o quando è presente in modo prominente, ma interessato soltanto al qui e ora. Il sé è davvero una festa mobile.

 

 

COSCIENZA UMANA E NON UMANA

Proprio come la coscienza non è una cosa, i suoi diversi tipi - nucleare ed estesa/autobiografica - non sono categorie rigide. Ho sempre immaginato molte gradazioni fra i due estremi della scala. L’introduzione di questi diversi tipi di coscienza ha tuttavia un vantaggio pratico: ci consente di suggerire che i gradini più bassi della scala della coscienza non siano affatto un’esclusiva umana. Con ogni probabilità, sono presenti in numerose specie diverse dalla nostra, purché in possesso di un cervello abbastanza complesso per costruirli. Il fatto che la coscienza umana, nella sua forma più alta, sia immensamente complicata, di vasta portata e pertanto distintiva è talmente ovvio che non occorre parlarne. Il lettore rimarrebbe sorpreso tuttavia nel constatare come in passato alcune mie osservazioni analoghe abbiano offeso certe persone: o perché stavo attribuendo troppo poca coscienza alle specie non umane, o perché stavo sminuendo la natura eccezionale della coscienza umana estendendola anche agli animali. Auguratemi buona fortuna, quindi...

Nessuno è in grado di dimostrare in modo soddisfacente che gli esseri non umani e privi di linguaggio abbiano una coscienza, nucleare o d’altra natura; tuttavia, è ragionevole triangolare le evidenze sostanziali a nostra disposizione e concludere che si tratta di un’evenienza altamente probabile.

La triangolazione dovrebbe procedere in questo modo: 1) se una specie presenta comportamenti spiegati meglio ammettendo un cervello con processi mentali, invece che con mere disposizioni per l’azione (come i riflessi) ; e 2) se la specie ha un cervello con tutte le componenti descritte nei prossimi capitoli come necessarie per dotare la mente umana di coscienza; 3) allora, caro lettore, quella specie è cosciente. In fondo, io sono pronto a interpretare ogni manifestazione del comportamento animale tale da indicare la presenza dei sentimenti come segno del fatto che la coscienza non può essere molto lontana.

La coscienza nucleare non necessita del linguaggio, e deve averlo preceduto: nelle specie non umane - ovviamente - ma anche negli esseri umani. Probabilmente, in individui privi di una coscienza nucleare, il linguaggio non sarebbe evoluto. Perché mai avrebbero dovuto averne bisogno? Al contrario, ai livelli più alti della scala, la coscienza autobiografica fa in larghissima misura affidamento sul linguaggio.

 

 

QUELLO CHE LA COSCIENZA NON È

Per comprendere il significato della coscienza, e i vantaggi del suo emergere negli esseri viventi, occorre avere una misura completa della situazione che la precedette: in altre parole, dobbiamo farci un’idea di quello che gli esseri viventi con cervelli normali e menti completamente funzionali erano in grado di fare prima che la loro specie possedesse una coscienza e prima che quest’ultima arrivasse a dominare la vita mentale del suo possessore. Di fronte alla dissoluzione della coscienza in un paziente epilettico o in chi si trovi in stato vegetativo, un osservatore ingenuo potrebbe farsi l’idea sbagliata che i processi normalmente al di sotto del livello della coscienza siano banali o di efficacia limitata. È chiaro però che lo spazio inconscio della nostra stessa mente nega un’idea simile. Qui mi riferisco non solo all’inconscio freudiano (la cui tradizione è celebre nel bene e nel male), identificato con particolari tipi di contenuto, contesto e processo. Mi riferisco piuttosto al vasto inconscio costituito da due ingredienti: uno attivo, composto da tutte le immagini formate su qualsiasi argomento e di qualsiasi sentore, immagini che forse non possono competere per aggiudicarsi l’attenzione del sé e pertanto rimangono in larga misura sconosciute; e uno silente, costituito dal deposito di registrazioni codificate, dal quale possono essere formate immagini esplicite.

Un tipico fenomeno da cocktail party rivela benissimo la presenza della componente non cosciente. Mentre siamo impegnati in una conversazione con un ospite, noi stiamo tecnicamente udendo altre conversazioni - un frammento qui, un frammento lì - proprio ai margini del flusso di coscienza, o per meglio dire, del flusso principale. Udire, però, non significa necessariamente ascoltare, e meno che mai ascoltare con attenzione e sintonizzarsi su quanto viene udito. Perciò si sentono inavvertitamente molte cose che non richiedono le prestazioni del nostro sé. Poi, tutt’a un tratto, scatta qualcosa, un frammento di conversazione si unisce a tutti gli altri, ed ecco emergere uno schema razionale riguardante alcune delle cose che stavamo ascoltando senza farci coinvolgere. In quell’istante prende forma un significato che « attrae » il sé e che letteralmente ci allontana dalle parole del nostro ospite. Il quale si accorge della nostra momentanea distrazione, e così - respingendo l’argomento che sta penetrando il flusso della nostra coscienza -ecco che torniamo all’ultimo concetto ribadito da quel signore e, senza troppa convinzione, con l’aria di giustificarci, gli chiediamo: «Mi scusi, può ripetere? ».

Per quanto se ne sa, questo fenomeno è la conseguenza di diverse circostanze. In primo luogo, il cervello produce in continuazione una quantità sovrabbondante di immagini. Quello che vediamo, udiamo e tocchiamo, insieme a quello che costantemente andiamo rievocando - stimolati da nuove immagini percettive, ma anche senza alcuna ragione identificabile -, è responsabile di un gran numero di immagini esplicite, accompagnate da un corteo, ugualmente folto, di altre immagini riguardanti lo stato in cui si trova il corpo durante tutta questa attività.

In secondo luogo, il cervello tende a organizzare questa profusione di materiale proprio come farebbe un montaggista, conferendole un qualche tipo di struttura narrativa coerente in base alla quale certe azioni causano certi effetti. Ciò richiede la selezione delle immagini giuste, il loro ordinamento in una sequenza di unità temporali e quadri spaziali: non è un compito facile, poiché dalla prospettiva del loro proprietario non tutte le immagini sono uguali. Rispetto ai suoi bisogni, alcune sono più rilevanti di altre, e pertanto sono accompagnate da sentimenti diversi. Le immagini hanno un valore diverso. Per inciso, quando dico «il cervello tende a organizzare » invece che «il sé organizza» lo faccio di proposito. In alcune occasioni il lavoro di montaggio procede in modo spontaneo, con una minima guida da parte del sé. In queste circostanze, la riuscita dell’operazione dipende da come i nostri processi non consci sono stati « ben istruiti » dal nostro sé maturo. Tornerò su questo punto nell’ultimo capitolo.

In terzo luogo, a ogni istante solo un piccolo numero di immagini può essere mostrato chiaramente - può essere attivo e quindi ricevere attenzione -, perché lo spazio delle immagini è molto scarso. Il significato reale di tutto questo è che gli «schermi» metaforici sui quali il nostro cervello mostra le immagini selezionate e ordinate cronologicamente sono molto limitati. Nell’odierno gergo informatico, significa che il numero di finestre che possiamo aprire sullo schermo del pc è limitato. (Nell’èra digitale, in particolare nella generazione diventata adulta confrontandosi con il multitasking, il limite superiore dell’attenzione, nel cervello umano, si sta rapidamente innalzando: Un fenomeno che probabilmente in un futuro non troppo lontano modificherà alcuni aspetti della coscienza - sempre che non l’abbia già fatto. Infrangere i limiti dell’attenzione comporta ovvi benefici, e le abilità associative generate dal multitasking sono un vantaggio straordinario; possono tuttavia esserci alcuni costi compensativi in termini di apprendimento, consolidamento della memoria ed emozione. Non abbiamo idea di quali possano essere tali costi).

Questi tre vincoli (abbondanza di immagini, tendenza a organizzarle in narrazioni coerenti e scarsità di spazio per la visualizzazione esplicita) si sono affermati da tempo nell’evoluzione e hanno imposto l’adozione di strategie di gestione efficaci che impedissero loro di recar danno all’organismo. Considerando che nel corso dell’evoluzione la selezione naturale favorì la creazione di immagini perché esse permettono di valutare l’ambiente in modo più preciso e quindi di rispondere meglio a esso, probabilmente la gestione strategica delle immagini evolse precocemente molto prima della coscienza, procedendo in modalità bottom-up, dal basso verso l’alto. La strategia fu quella di selezionare automaticamente le immagini più preziose per la gestione dei processi vitali in corso: lo stesso identico criterio che presiede alla selezione naturale dei dispositivi per la creazione di immagini. Considerando la loro importanza per la sopravvivenza, le immagini più preziose furono « messe in risalto » tramite la loro associazione con fattori emozionali. Probabilmente il cervello ottiene questo effetto generando uno stato emozionale che accompagna l’immagine, in una traccia parallela. L’intensità dell’emozione serve da « marcatore » per l’importanza relativa dell’immagine. Questo è il meccanismo descritto nell’ipotesi del «marcatore somatico»:6 non occorre che quest’ultimo sia un’emozione completamente sviluppata, esperita esplicitamente come sentimento (questa è la « sensazione viscerale » ) ; può essere invece un segnale implicito, legato all’emozione, di cui il soggetto è inconsapevole, nel qual caso ci riferiamo a esso come a un pregiudizio. L’idea dei marcatori somatici è applicabile non soltanto ai livelli più elevati della cognizione, ma anche a questi stadi precoci dell’evoluzione. L’ipotesi del marcatore somatico offre un meccanismo per spiegare in primo luogo il modo in cui il cervello eseguirebbe una selezione delle immagini sulla base del valore, e in secondo luogo il modo in cui quella selezione si tradurrebbe in una sequenza continua di immagini opportunamente montate. In altre parole, il principio usato per la selezione delle immagini fu connesso alle esigenze di gestione dei processi vitali. Ho il sospetto che lo stesso principio presiedesse all’organizzazione delle strutture primordiali della narrazione, comprendenti il corpo dell’organismo, il suo status, le sue interazioni e i suoi movimenti nell’ambiente.

Io sostengo che tutte le strategie sopra delineate cominciarono a evolvere molto tempo prima che emergesse una coscienza, non appena fu creato un numero sufficiente di immagini, forse non appena iniziarono a fiorire vere e proprie menti. Con ogni probabilità, il vasto inconscio ha fatto parte dell’organizzazione della vita per un lungo - lunghissimo - tempo, e il fatto curioso è che è ancora con noi, come una sorta di immenso sotterraneo al di sotto della nostra limitata esistenza cosciente.

Per quale motivo la coscienza si affermò, una volta che venne offerta agli organismi quale possibile opzione? Perché! dispositivi cerebrali in grado di costruire la coscienza furono favoriti dalla selezione naturale? Una possibile risposta, che esamineremo alla fine del libro, è che generare, orientare e organizzare immagini del corpo e del mondo esterno considerandole in termini di esigenze dell’organismo aumentò la probabilità di una gestione efficiente dei processi vitali e di conseguenza le probabilità di sopravvivenza. La coscienza aggiunse infine la possibilità di conoscere l’esistenza dell’organismo e la sua lotta per la sopravvivenza. Ovviamente, tale conoscenza dipendeva non soltanto dalla creazione e dalla visualizzazione di immagini esplicite, ma anche dalla loro archiviazione sotto forma di registrazioni implicite. La conoscenza stabiliva una connessione fra la lotta per l’esistenza e un organismo unificato e identificabile. Una volta che questi stati di conoscenza cominciarono a essere affidati alla memoria, fu possibile metterli in relazione con altri fatti registrati, e cominciare così ad accumulare conoscenze sull’esistenza individuale. A loro volta, le immagini contenute nella conoscenza potevano es-sere richiamate e manipolate in un processo di ragionamento che preparò la via alla riflessione e alla deliberazione. L’apparato di elaborazione delle immagini potè allora essere guidato dalla riflessione e usato per l’anticipazione efficace delle situazioni, la previsione dei loro possibili esiti, l’orientamento nel futuro possibile e l’invenzione di soluzioni per la gestione della vita.

La coscienza permise all’organismo di diventare consapevole della propria condizione. L’organismo non aveva più meri sentimenti che potevano essere sentiti; aveva sentimenti che potevano essere conosciuti, in un particolare contesto. La conquista della conoscenza - in contrapposizione all’essere e al fare - fu un punto di svolta cruciale.

 

 

Precedentemente alla comparsa del sé e della coscienza normale, gli organismi avevano già perfezionato un apparato per la regolazione della vita, al di sopra del quale venne poi aggiunta la coscienza. Alcune premesse erano già presenti prima di essere conosciute dalla mente cosciente, e l’apparato della regolazione dei processi vitali era evoluto intorno a esse. La differenza fra la regolazione della vita prima e dopo che comparisse la coscienza ha semplicemente a che fare con la differenza fra automazione e deliberazione. Prima della coscienza, la regolazione della vita era interamente automatica; una volta affiorata la coscienza, la regolazione conserva la sua automaticità, ma va gradualmente spostandosi sotto l’influenza della deliberazione orientata sul sé.

Le fondamenta dei processi della coscienza sono pertanto gli stessi processi inconsci responsabili della regolazione della vita: le disposizioni cieche che regolano le funzioni metaboliche e che hanno sede nei nuclei del tronco encefalico e nell’ipotalamo; le disposizioni che erogano ricompense e punizioni e promuovono impulsi, motivazioni ed emozioni; e l’apparato per la creazione delle mappe che costruisce immagini sia a livello percettivo, sia richiamandole alla memoria, apparato in grado di scegliere e montare quelle immagini nel film che noi conosciamo come mente. Sebbene non sia che l’ultima arrivata nella gestione dei processi vitalizia coscienza sposta tutto il gioco a un livello più alto. Abilmente, essa conferma al loro posto i vecchi meccanismi, lasciando che continuino a svolgere compiti senza troppe pretese.

 

 

L’INCONSCIO FREUDIANO

Il contributo più interessante di Freud alla coscienza si trova nel suo ultimo articolo, scritto nella seconda metà del 1938 e ancora incompiuto alla morte dell’autore.7 L’ho letto solo recentemente, sollecitato dall'invito a tenere una conferenza su Freud e le neuroscienze. È quel tipo di incombenza che bisognerebbe energicamente declinare; io invece mi lasciai tentare e accettai. Trascorsi intere settimane a studiare gli scritti di Freud, oscillando fra l’irritazione e l’ammirazione, come sempre mi capita quando leggo le sue opere. Alla fine di questa gran fatica arrivai a quell’ultimo articolo, scritto a Londra, nel quale Freud adotta l’unica posizione sulla questione della coscienza che io trovi plausibile. La mente è un risultato del tutto naturale dell’evoluzione ed è in larga misura non cosciente, interna e celata: arriva a essere conosciuta grazie alla stretta finestra della coscienza. Questa è esattamente la mia prospettiva. La coscienza offre un’esperienza diretta della mente, ma l’agente dell’esperienza è un sé, ovvero un informatore interno e imperfettamente costruito, non un osservatore esterno attendibile. Il fatto che la mente sia radicata nel cervello non può essere apprezzato in maniera diretta né dall’interno (dall’osservatore naturale), né dall’esterno (dallo scienziato). Il radicamento della mente nel cervello deve essere immaginato nella quarta prospettiva, ed è su quella base che andranno formulate le ipotesi.

Per avvicinarsi a un tale obiettivo, è necessario un programma di ricerca.

Sebbene l’inconscio di Freud fosse un’idea dominata dal sesso, egli era consapevole dell’immensa portata e del potere dei processi mentali che hanno luogo sotto la superficie della coscienza. Freud, per inciso, non era isolato, giacché nel pensiero psicologico dell’ultimo quarto dell’Ottocento l’idea dell’elaborazione inconscia era molto diffusa. Né Freud era isolato nelle sue incursioni nel tema del sesso, una materia le cui basi scientifiche erano anch’esse oggetto di esplorazione in quel periodo.8

Quando si concentrò sui sogni, Freud mise certamente le mani su una ricca fonte di dati. Quella mossa seni benissimo ai suoi scopi, in quanto gli fornì il materiale per i suoi studi. A quella stessa fonte hanno attinto anche artisti, compositori, scrittori,e ogni genere di menti creative alla ricerca di immagini originali, che cerchino di liberare se stesse dai ceppi della coscienza. È qui in gioco una tensione assai interessante: menti creative molto coscienti vanno consapevolmente alla ricerca dell’inconscio come fonte e, in qualche caso, come metodo per le loro imprese coscienti. Questo non contraddice in alcun modo l’idea che la creatività non possa essere sbocciata - e meno che mai fiorita - in assenza della coscienza. Semplicemente, sottolinea quanto la nostra vita mentale sia straordinariamente ibrida e flessibile.

Nei sogni, in quelli belli come negli incubi, il ragionamento è a dir poco allentato, e mentre la causalità può essere rispettata, l’immaginazione si libera dei freni -e tanto peggio per la realtà. I sogni offrono, tuttavia, un’evidenza diretta dei processi mentali non coadiuvati dalla coscienza. La profondità dell’elaborazione inconscia alla quale essi attingono è considerevole. Per chi è riluttante ad accettarlo, gli esempi più convincenti probabilmente scaturiscono dai sogni legati alle semplici questioni di regolazione dei processi vitali. Un esempio è quello di chi, dopo una cena a base di cibi molto salati, fa sogni elaborati sull’acqua fresca e la sete. Qui mi pare di sentire il lettore chiedere: che cosa intende quando dice che durante i sogni la mente «non è coadiuvata dalla coscienza» ? Non è forse vero che se è possibile ricordare un sogno vuol dire che si era coscienti durante il suo svolgimento? Be’, in molti casi questo è vero. Durante i sogni è presente un qualche tipo di coscienza anomala, definita in modo appropriato dal termine paradossa. Quello che sto sostenendo, però, è che nel sogno il processo dell'immaginazione non sia guidato da un sé regolare, funzionante in modo appropriato, dello stesso tipo di cui ci serviamo quando riflettiamo e deliberiamo. (L’eccezione è costituita dai cosiddetti sogni lucidi, che il sognatore ben addestrato riesce, in una certa misura, a dirigere). La nostra mente, conscia o meno che sia, è probabilmente regolata dal mondo esterno, i cui input contribuiscono all’organizzazione dei suoi contenuti. Una volta privata di quel battistrada esterno, per la mente sarebbe facile perdersi nei sogni.9

Quella del ricordare o meno i sogni è una vexata quaestio. Noi sogniamo moltissimo, diverse volte per notte, sia quando ci troviamo nella fase di sonno REM (movimenti oculari rapidi) sia - sebbene molto meno - durante le fasi di sonno a onde cerebrali lente, note come « sonno non REM ». Sembra tuttavia che ricordiamo meglio i sogni che hanno luogo quando stiamo per riprendere coscienza e riaffioriamo, più o meno gradualmente, in superficie.

Io cerco con tutte le mie forze di ricordare i sogni che faccio; a meno che non li metta per iscritto, però, essi svaniscono senza lasciare traccia: è sempre stato così. La cosa non sorprende troppo se pensiamo che, quando ci svegliamo, l’apparato di consolidamento della memoria è a malapena attivato, come il forno di un panettiere appena acceso all’alba.

L’unico tipo di sogno che di solito ricordavo un po’ meglio, forse a causa della sua frequenza, era un incubo ricorrente, non troppo inquietante, che mi si presentava alla vigilia di una conferenza. Erano tutte variazioni sullo stesso tema: sono in ritardo, spaventosamente in ritardo, e mi manca qualcosa di essenziale. O le mie scarpe sono introvabili; oppure, sul mio viso, quella che dovrebbe essere un’ombra quasi impercettibile si sta trasformando in una barba di due giorni, e in giro non c’è traccia del rasoio; o ancora, l’aeroporto è chiuso per nebbia e io sono rimasto a terra. Sono tormentato e a volte imbarazzato, come quando (nel sogno, naturalmente) sono salito a parlare sul podio con un bell’abito di Armani ma a piedi scalzi. Ecco, perché, in albergo, rinuncio a farmi lucidare le scarpe, e non le lascio mai fuori dalla camera.