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DALLA REGOLAZIONE DEI PROCESSI VITALI AL VALORE BIOLOGICO

 

 

 

 

 

LA REALTÀ IMPLAUSIBILE

Mark Twain pensava che la grande differenza tra realtà e fiction stesse nel fatto che quest’ultima deve essere credibile. La realtà può permettersi di essere implausibile, ma la. fiction no. Per tale motivo, la storia della mente e della coscienza che mi accingo a presentare qui non è conforme ai requisiti della fiction. È veramente controintuitiva: ribalta le nostre storie tradizionali, nega ripetutamente vecchi assunti e infrange non poche a-spettative. D’altra parte, nulla di tutto ciò rende la mia descrizione meno probabile.

L’idea che al di sotto della mente cosciente siano celati i processi mentali inconsci certo non è nuova: ventilata per la prima volta più di un secolo fa, e accolta dal pubblico con una certa sorpresa, oggi è un luogo comune. Quello che invece non è comunemente apprezzato, per quanto sia ben noto, è che molto prima di possedere una mente gli esseri viventi presentavano già comportamenti efficienti e adattativi che ricordano in tutto e per tutto quelli che emergono nelle creature dotate di mente e coscienza. Nel loro caso, però, quei comportamenti non potevano essere indotti dalla mente e meno che mai dalla coscienza. In breve, non è vero soltanto che i pro-cessi consci e inconsci coesistono: è vero anche che i processi inconsci importanti ai fini del mantenimento della vita possono esistere senza essere accompagnati da processi coscienti.

Per quanto riguarda la mente e la coscienza, l’evoluzione ha dato origine a cervelli di diverso tipo. Vi sono quelli che producono comportamento ma non sembrano possedere una mente o una coscienza: un esempio è il sistema nervoso di Aplysia californica, la lumaca marina divenuta famosa nel laboratorio del neurobiologo Eric Kandel. Un altro tipo di cervello produce invece l’intera gamma di fenomeni: comportamento, mente e coscienza; com’è ovvio, il cervello umano è l’esempio principale. Vi è poi un terzo tipo di cervello che produce senza dubbio il comportamento e con buona probabilità anche una mente, ma non è altrettanto chiaro se generi pure una coscienza, nel senso discusso qui: è questo il caso degli insetti.

Le sorprese, però, non si limitano all’idea che in assenza di mente e coscienza il cervello possa comunque produrre un comportamento degno del nome. Si è infatti constatato che creature viventi del tutto prive di cervello, persino singole cellule, presentano comportamenti apparentemente intelligenti e diretti a uno scopo: anche questo è un fatto scarsamente apprezzato.

Senza dubbio, la comprensione dei cervelli più semplici, che non producono né mente né coscienza, può fornirci informazioni utili sul modo in cui il cervello umano produce la mente cosciente. Mentre ci impegniamo in questa rassegna retrospettiva, però, è evidente che per spiegare l’ascesa di cervelli tanto antichi dobbiamo addentrarci in un passato sempre più remoto, fino a risalire al mondo delle forme di vita più semplici, senza mente e senza cervello: forme di vita prive di processi coscienti, mentali e cerebrali. In effetti, se vogliamo spiegare la base del cervello cosciente, dobbiamo spingerci sempre più vicino agli esordi della vita. E qui, ancora una volta, arriviamo a formulare idee non soltanto sorprendenti, ma anche tali da scuotere assunti comunemente accettati sul contributo che cervello, mente e coscienza offrono alla gestione dei processi vitali.

 

 

VOLONTÀ NATURALE

A questo punto, occorre narrare una storia. In un tempo molto lontano, durante il lunghissimo cammino dell’evoluzione, apparve la vita: questo accadde 3,8 miliardi di anni or sono, quando entrò in scena l’antenato di tutti i futuri organismi. Circa due miliardi di anni dopo, mentre prospere colonie di batteri sembravano aver preso possesso del pianeta, fu la volta di cellule singole dotate di nucleo. Anche i batteri erano organismi unicellulari, ma il loro dna non era contenuto in un nucleo. La comparsa di organismi unicellulari nucleati rappresentò un gran passo avanti: queste forme di vita, note tecnicamente come «cellule eucariotiche», appartenevano a un vasto gruppo di organismi denominati Protozoi. All’alba della vita, quelle cellule furono fra i primi organismi davvero indipendenti: ciascuna di esse poteva sopravvivere individualmente, senza dipendere da associazioni simbiotiche. Questi semplici organismi unicellulari sono qui con noi ancora oggi: amebe e parameci, creature vivaci e meravigliose, sono due buoni esempi.1

La cellula eucariotica è dotata di un’impalcatura (il citoscheletro) all’interno della quale si trova un nucleo (il centro di comando contenente il dna cellulare) e un citoplasma (il luogo in cui il combustibile viene trasformato in energia, sotto il controllo di organuli chiamati mitocondri) . Il corpo degli organismi pluricellulari è delimitato dalla cute, che è un confine fra il mondo interno e quello esterno: anche la cellula ha un confine simile, denominato « membrana cellulare ».

Sotto molti aspetti, una singola cellula è un’anteprima di quello che sarebbe diventato un organismo come il nostro. La si può considerare un’astrazione molto schematica di quello che noi stessi siamo. Il citoscheletro è l’impalcatura dell’organismo cellulare, proprio come lo scheletro osseo lo è per noi. Il citoplasma corrisponde all’interno del corpo, con tutti i suoi organi. Il nucleo è come il cervello e la membrana cellulare come la cute. Alcune cellule hanno perfino l’equivalente di arti - le ciglia - i cui movimenti coordinati consentono loro di nuotare.

La cellula eucariotica, con le sue componenti distinte, venne in essere grazie alla cooperazione di creature unicellulari più semplici - precisamente batteri -, che rinunciarono al loro status indipendente per essere parte di un nuovo, conveniente aggregato. Un certo tipo di batterio diede origine ai mitocondri; un altro tipo, simile alle spirochete, contribuì al citoscheletro e - nel caso di organismi amanti del nuoto - alle ciglia; e così via.2 La meraviglia sta nel fatto che ciascuno dei nostri organismi pluricellulari è assemblato seguendo questa stessa strategia fondamentale, e cioè aggregando miliardi di cellule in modo da formare tessuti, unendo poi diversi tipi di tessuti per ottenere organi, e infine collegando organi diversi per realizzare sistemi. Esempi di tessuti sono gli epiteli della cute, delle mucose e delle ghiandole endocrine; il tessuto muscolare; il tessuto nervoso; e il tessuto connettivo che mantiene tutti gli altri al loro posto. Ovvi sono gli esempi degli organi: cuore, intestino, cervello. Fra i sistemi possiamo menzionare il circolato-rio (l’ensemble formato da cuore, sangue e vasi sanguigni), l’immunitario e il nervoso. A causa di questa struttura cooperativa, il nostro organismo è una combinazione altamente differenziata di milioni di miliardi di cellule di vario genere, fra le quali sono naturalmente compresi i neuroni: i costituenti più caratteristici del cervello. Fra poco parlerò più diffusamente di entrambi.

La principale differenza fra le cellule degli organismi pluricellulari (i metazoi) e quelle degli organismi unicellulari è che mentre queste ultime devono badare a se stesse per ogni necessità, le prime vivono invece all’interno di società complesse, costituite da membri con caratteristiche altamente diverse. Molti compiti che le cellule degli organismi unicellulari devono svolgere da sole, negli organismi pluricellulari sono assegnati a tipi cellulari specializzati. Il quadro generale è paragonabile all’assegnazione dei diversi ruoli funzionali che ha luogo nella struttura di un organismo unicellulare. Gli organismi pluricellulari sono costituiti di numerosi organismi unicellulari, organizzati in modo cooperativo, e originariamente derivanti dalla combinazione di organismi più piccoli. L’economia di un organismo pluricellulare presenta molti settori, all'interno dei quali le cellule cooperano. Se tutto questo suona familiare e fa pensare alle società umane, è perché è proprio così: le analogie sono stupefacenti.

In un organismo pluricellulare il governo del sistema è altamente decentralizzato, sebbene sia dotato di centri di comando - come il sistema endocrino e il cervello -con notevoli capacità di analisi e decisione. Con rare eccezioni, tuttavia, le cellule degli organismi pluricellulari, compreso il nostro, hanno tutte le stesse componenti già presenti negli organismi unicellulari: membrana, cito-scheletro, citoplasma e nucleo. (I globuli rossi, la cui breve vita di centoventi giorni è interamente dedicata al trasporto dell’emoglobina, sono privi di nucleo, e rappresentano l’eccezione). Tutte quelle cellule, inoltre, hanno un ciclo vitale simile - nascita, sviluppo, senescenza, morte -, proprio come un organismo di grandi dimensioni. La vita di un singolo corpo umano è costituita da una moltitudine di vite simultanee e ben coordinate.

Per semplici che fossero e siano tuttora, le singole cellule avevano quella che sembrava una ferma e incrollabile determinazione a restare vive, fìntanto che i geni all’interno del loro microscopico nucleo ordinavano di farlo. Il governo della loro vita comprendeva una testarda insistenza a persistere, resistere e prevalere fino a quando alcuni dei geni presenti nel nucleo non avessero sospeso la volontà di vivere, permettendo loro di morire.

È difficile - lo so - immaginare che i concetti di « desiderio » e «volontà » siano applicabili a una singola cellula solitaria. Come è possibile che atteggiamenti e intenzioni - che noi associamo alla mente umana cosciente e intuiamo essere il risultato dei meccanismi del grande cervello umano - siano presentì a un livello così elementare? Eppure, quegli aspetti specifici del comportamento cellulare sono presentì - sono lì -, comunque si decida di chiamarli.3

La singola cellula - priva com’è di conoscenza cosciente e di accesso ai sofisticati dispositivi di scelta disponibili invece nel nostro cervello - sembra esprimere un atteggiamento: vuole vivere fino infondo la vita prescritta dai suoi geni. Per quanto possa sembrare strano, la volontà, insieme a tutto quanto è necessario per realizzarla, precede sia la conoscenza esplicita delle condizioni di vita, sia la riflessione relativa a esse, giacché chiaramente la singola cellula non possiede né l’una né l’altra. Il nucleo e il citoplasma interagiscono ed eseguono complesse computazioni mirate a mantenere in vita la cellula. Istante per istante, essi affrontano i problemi posti dalle condizioni di vita e adattano la cellula alla situazione contingente, in modo che essa possa sopravvivere. A seconda delle condizioni ambientali, ridispongono e ridistribuiscono le molecole al proprio interno e modificano la forma di sottocomponenti quali i microtubuli, dando prova di una precisione sbalorditiva. Reagiscono sia a un trattamento duro, sia a condizioni più miti. Ovviamente, l’installazione e l’istruzione delle componenti cellulari che eseguono questi adeguamenti adattativi è opera del materiale genetico della cellula.

Di solito cadiamo nella trappola di pensare che gli atteggiamenti, le intenzioni e le strategie alla base delle nostre sofisticate modalità di gestione dei processi vitali scaturiscano dal nostro grande cervello e dalla nostra mente complessa, dotata di coscienza. E perché non dovremmo? Si tratta di un modo ragionevole e parsimonioso di concepire la storia di tali processi, quando la si considera dalla cima della piramide, dalla nostra attuale situazione. La realtà, però, è che la mente cosciente si è limitata a rendere conoscibile il fondamentale know-how di quei processi. Come vedremo, i contributi decisivi offerti dalla mente cosciente all’evoluzione hanno luogo a un livello molto più alto; hanno a che fare con l’attività decisoria riflessiva offline e con le invenzioni culturali. Non sto assolutamente minimizzando l’importanza di quel livello elevato di gestione dei processi vitali: anzi, una delle principali idee sostenute in questo libro è che la mente umana cosciente abbia guidato l’evoluzione lungo un nuovo corso proprio perché ci ha consentito delle scelte, rendendo così possibile una regolazione socioculturale relativamente flessibile che, per esempio, va oltre l’organizzazione sociale complessa esibita in modo tanto spettacolare dagli insetti. Sto invece invertendo la sequenza narrativa della tradizionale descrizione della coscienza, in modo che la conoscenza implicita della gestione dei processi vitali preceda l’esperienza cosciente di tale conoscenza. Sto anche dicendo che la conoscenza implicita è molto sofisticata e pertanto non dovrebbe essere considerata primitiva. La sua complessità è enorme, e la sua intelligenza apparente è notevole.

Non sto abbassando il rango della coscienza; di sicuro sto invece elevando lo status della gestione non cosciente dei processi vitali, ipotizzando che essa costituisca il modello degli atteggiamenti e delle intenzioni della mente cosciente.

Ogni cellula del nostro corpo presenta il tipo di atteggiamento non cosciente appena descritto. Ma allora non potrebbe darsi che il nostro desiderio cosciente e tanto umano di vivere, o la nostra volontà di prevalere, siano affiorati inizialmente come aggregati delle volontà rudimentali di tutte le cellule del nostro corpo - come una voce collettiva levatasi in un canto di autoaffermazione?

L’idea di un gran numero di volontà espresse attraverso una singola voce non è una mera fantasia poetica: è invece legata alla realtà del nostro organismo, in cui effettivamente - all’interno di un cervello cosciente - esiste una voce, nella forma del sé. Ma come si fa a trasferire le volontà delle singole cellule e dei loro raggruppamenti - volontà prive di cervello e di mente - al sé di una mente dotata di coscienza che origina in un cervello? Affinché ciò accada, dobbiamo introdurre nella nostra narrazione un attore rivoluzionario che cambia le regole del gioco: la cellula nervosa, o neurone.

Da quanto ci è dato di capire, i neuroni sono cellule uniche, diverse da tutte le altre presenti nell’organismo e perfino da altri tipi di cellule cerebrali, come le cellule gliali. Che cosa li rende tanto diversi e così speciali? Dopo tutto, non hanno anch’essi un corpo cellulare dotato di nucleo, citoplasma e membrana? Non ridispongono anch’essi le molecole al proprio interno, esattamente come avviene nelle altre cellule dell’organismo? Non si adattano forse anche loro all’ambiente? Certo, i neuroni fanno tutto questo; essi sono, in tutto e per tutto, cellule dell’organismo come le altre; eppure, sono anche speciali.

Se vogliamo spiegare perché, dobbiamo considerare due loro caratteristiche precipue: una funzionale e l’altra strategica. La fondamentale differenza funzionale dei neuroni rispetto alle altre cellule ha a che fare con la loro capacità di produrre segnali elettrochimici in grado di modificare lo stato di altre cellule. Non che siano stati i neuroni a inventare i segnali elettrici: organismi unicellulari come i parameci, per esempio, sono anch’essi in grado di produrli e se ne servono per controllare il proprio comportamento. I neuroni però usano i segnali per influenzare altre cellule: più precisamente, altri neuroni, cellule muscolari e cellule endocrine (che secernono sostanze chimiche). La modificazione dello stato delle altre cellule è alla base dell’attività che dapprima costituisce e controlla il comportamento e in seguito contribuisce alla creazione della mente. I neuroni possono mettere a segno un’impresa del genere perché producono e propagano una corrente elettrica lungo il loro prolungamento tubolare denominato assone. A volte la trasmissione avviene su distanze macroscopiche, per esempio quando il segnale viaggia per molti centimetri lungo gli assoni che dalla corteccia motrice vanno al tronco encefalico o dal midollo spinale all’estremità di un arto. Giunta al terminale dell’assone, in corrispondenza della sinapsi, la corrente elettrica induce la liberazione di una sostanza chimica - un trasmettitore - che a sua volta agisce sulla cellula successiva della catena. Se quest’ultima è una fibra muscolare, ne consegue un movimento.4

Non vi è più alcun mistero sul modo in cui i neuroni facciano tutto questo. Come in altre cellule dell’organismo, anche nei neuroni i versanti interno ed esterno della membrana presentano una carica elettrica dovuta alla concentrazione di ioni quali il sodio o il potassio. I neuroni però sfruttano lo stato di polarizzazione, ovvero una grande differenza tra la carica presente all’interno e all’esterno della membrana. Se, in un punto preciso della membrana, questa differenza viene drasticamente ridotta, si ha una depolarizzazione locale che avanza lungo l’assone come un’onda: quell’onda è l’impulso elettrico. Quando i neuroni si depolarizzano, diciamo che si trovano in stato di « on », oppure che « scaricano ». In sintesi, i neuroni sono come le altre cellule, tuttavia possono inviare segnali in grado di influenzare altri elementi cellulari, modificando così ciò che essi fanno.

La differenza funzionale appena descritta è responsabile di una fondamentale differenza strategica; i neuroni esistono a vantaggio di tutte le altre cellule dell’organismo. Essi non sono essenziali per i processi fondamentali della vita, come possono facilmente testimoniare le creature viventi che non li possiedono. In organismi pluricellulari complicati, però, i neuroni assistono il corpo nella gestione dei processi vitali. Questo è il loro scopo ed è lo scopo del cervello che, nel loro insieme, essi costituiscono. Dalle meraviglie della creatività alle alte vette della spiritualità, tutte le sbalorditive realizzazioni del cervello per le quali nutriamo una grandissima ammirazione sembrano essere state realizzate grazie all’impegno dei neuroni a gestire i processi vitali nel corpo in cui abitano.

I neuroni assistono le altre cellule anche negli organismi con cervelli modesti, costituiti da reti di cellule nervose organizzate in gangli. Lo fanno ricevendo segnali dalle altre cellule del corpo e promuovendo la liberazione di sostanze chimiche (per esempio un ormone secreto da una cellula endocrina e che raggiunge le altre cellule dell’organismo modificandone la funzione), oppure promuovendo il movimento (per esempio eccitando le fibre muscolari e inducendone così la contrazione). Nel cervello sofisticato delle creature complesse, però, le reti di neuroni finiscono per mimare la struttura di alcune parti di quello stesso corpo a cui appartengono. Finiscono cioè con il rappresentare lo stato del corpo per il quale lavorano, mappandolo - in senso letterale - e costituendone una sorta di surrogato virtuale, un doppio neurale. Inoltre - e questo è un particolare molto importante -, i neuroni restano connessi per tutta la vita al corpo che mimano. Come vedremo, mimare il corpo rimanendovi connessi contribuisce magnificamente alla funzione della gestione.

In breve, le cellule nervose si riferiscono al corpo, e questo loro incessante puntare a esso è il tratto definitorio dei neuroni, dei circuiti neuronali e del cervello: io credo che sia la ragione per cui la volontà di vivere delle cellule del nostro corpo - una volontà nascosta - possa essere stata tradotta in una volontà cosciente, fondata sulla presenza di una mente. Le volontà cellulari nascoste finiscono per essere mimate dai circuiti cerebrali. Il fatto che i neuroni e il cervello siano concentrati sul corpo fornisce anche, curiosamente, qualche indicazione sul modo in cui il mondo esterno sarà mappato nel cervello e nella mente. Come spiegherò nella seconda parte, quando un cervello crea una mappa del mondo esterno al corpo, lo fa grazie alla mediazione di quello stesso corpo. Quando quest’ultimo interagisce con il proprio ambiente, gli organi di senso - per esempio gli occhi, le orecchie e la cute - subiscono alcune modificazioni; il cervello crea allora una mappa di quelle modificazioni, e così il mondo esterno al corpo acquista indirettamente una qualche rappresentazione a livello cerebrale.

Nel chiudere questo inno alla peculiarità e alla grandezza dei neuroni, desidero aggiungere una nota sulla loro origine, riconducendoli in tal modo a una natura più modesta. Da un punto di vista evolutivo, i neuroni derivarono probabilmente da cellule eucariotiche che erano solite modificare la propria forma e produrre estensioni di forma tubolare mentre si spostavano percependo l’ambiente circostante, incorporando nutrimento e - più in generale - affrontando le sfide della vita. Gli pseudopodi di un’ameba danno un’idea di tale processo. I prolungamenti tubolari di questo organismo, creati al momento attraverso una ridisposizione interna dei microtubuli, vengono smantellati una volta che la cellula ha eseguito il suo compito. Tuttavia, quando - da temporanei che erano - divennero permanenti, questi prolungamenti diedero origine ad assoni e dendriti, le componenti tubolari che rendono tanto peculiari i neuroni. Era nato un sistema stabile di cavi e antenne, ideale per emettere e ricevere segnali.5

Che importanza ha tutto questo? Sebbene presentino un funzionamento molto caratteristico che ha aperto la strada al comportamento complesso e alla mente, i neuroni hanno conservato una stretta affinità con le altre cellule dell’organismo. Se ci limitiamo a considerare neuroni e cervello come strutture radicalmente diverse, tralasciando le loro origini, rischiamo di separare in modo eccessivo il cervello dal corpo: più di quanto sia giustificabile considerando la sua genealogia e il suo funzionamento. Io sospetto che lo sconcerto sul modo in cui gli stati del sentire emergono nel cervello derivi in gran parte dal fatto che viene trascurata la relazione profonda esistente fra corpo e cervello.

Occorre poi fare un’ulteriore distinzione fra i neuroni e le altre cellule dell’organismo. Per quanto ne sappiamo, i neuroni non si riproducono - in altre parole, non si dividono - né si rigenerano, o perlomeno non lo fanno in una misura significativa. Praticamente, tutte le altre cellule dell’organismo lo fanno, sebbene esista anche qualche altra eccezione, come le cellule del cristallino, nell’occhio, e le fibrocellule muscolari del cuore: per loro, dividersi non sarebbe una buona idea. Con ogni probabilità, se le cellule del cristallino andassero incontro a divisione, durante il processo la trasparenza del mezzo sarebbe ridotta. Se a dividersi fossero le cellule del cuore (anche se fosse interessato un solo settore alla volta, un po’ come quando si pianifica attentamente la ristrutturazione di una casa), l’azione della pompa cardiaca ne risulterebbe seriamente compromessa, proprio come accade quando un infarto del miocardio danneggia la funzionalità di un settore del cuore introducendo uno squilibrio nella fine coordinazione delle sue quattro camere. E il cervello? Ancora non abbiamo una comprensione profonda del modo in cui i circuiti neuronali conservino i ricordi, tuttavia è probabile che la divisione dei neuroni metterebbe a soqquadro gli archivi dove sono depositate le esperienze di tutta la vita: esperienze che, grazie all’apprendimento, vengono impresse in particolari configurazioni di neuroni che scaricano all’interno di circuiti complessi. Per lo stesso motivo, la divisione comprometterebbe anche il sofisticato know-how - originariamente impresso dal genoma nei circuiti neurali - che prescrive al cervello come coordinare le funzioni vitali. La divisione dei neuroni potrebbe segnare la fine dei processi di regolazione specie-specifici e forse non consentirebbe lo sviluppo dell’individualità del comportamento e della mente, e ancor meno la formazione di identità e personalità. A rendere plausibile questo cupo scenario vi sono le conseguenze ben note dei danni che interessano alcuni circuiti neuronali e che sono indotti dagli ictus o dalla malattia di Alzheimer.

Nella maggior parte delle altre cellule del nostro organismo, la divisione è una funzione altamente disciplinata, così da avvenire senza compromettere l’architettura dei diversi organi e, più in generale, quella dell’organismo. Esiste un Bauplan da rispettare. Durante tutta la vita, più che a una vera e propria ristrutturazione, l’organismo va incontro a un continuo restauro. Nella casa del nostro corpo noi non abbattiamo muri; né costruiamo ex novo una cucina o un’ala per gli ospiti. Il restauro è molto sottile ed estremamente meticoloso: per buona parte della nostra vita, la sostituzione delle cellule avviene in modo così eccellente che il nostro aspetto rimane immutato. D’altra parte, quando consideriamo le conseguenze dell’invecchiamento sull’aspetto esterno del nostro organismo o sul funzionamento dei nostri sistemi interni, ci rendiamo conto di come, a poco a poco, la sostituzione cominci a essere meno impeccabile. Le cose non si trovano più esattamente allo stesso posto. La cute del volto invecchia, i muscoli perdono tonicità, la gravità si fa sentire, con ogni probabilità gli organi non funzionano più molto bene. È proprio a quel punto che dovrebbe entrare in scena un bravo chirurgo plastico di Beverly Hills, coadiuvato da cure specialistiche efficaci e dispendiose.

 

 

RESTARE VIVI

Che cosa occorre perché una cellula si mantenga in vita? Molto semplicemente: una buona manutenzione e buone relazioni esterne. Ciò significa saper affrontare in modo efficace la miriade di problemi posti dalla vita. Tanto in una cellula singola, quanto in grandi creature il cui organismo ne conta milioni di miliardi, la vita necessita della trasformazione di nutrienti adatti in energia, il che, a sua volta, richiede la capacità di risolvere numerosi problemi: in primo luogo, trovare i prodotti da cui ricavare energia; e poi introdurli nell’organismo, convertirli in atp (la valuta energetica universale), eliminare le scorie e usare l’energia per qualsiasi processo occorra espletare al fine di perpetuare questa routine: trovare ciò che serve, incorporarlo, e così via. Ecco i problemi cui deve far fronte un’umile cellula: procurarsi il nutrimento, consumarlo, digerirlo e fare in modo che esso garantisca la necessaria fornitura di energia.

Se i meccanismi di gestione della vita sono così essenziali è perché la vita è difficile: si tratta infatti di uno stato precario, reso possibile solo quando, nell’organismo, viene simultaneamente soddisfatto un gran numero di condizioni. In organismi come il nostro, per esempio, le quantità di ossigeno e di CO2 possono variare solo all’interno di intervalli ristretti, come pure l’acidità (il pH) del mezzo in cui le diverse molecole si spostano da una cellula all’altra. Lo stesso vale per la temperatura, delle cui variazioni siamo profondamente consapevoli quando abbiamo la febbre oppure, più spesso, quando ci lamentiamo del clima troppo caldo o troppo freddo; e vale anche per la quantità di nutrienti fondamentali - zuccheri, grassi e proteine - presenti nel sangue circolante. Ogni volta che queste variabili si discostano da quello stretto intervallo virtuoso, ci sentiamo a disagio e se passa molto tempo senza che interveniamo per rimediare, subentra l’agitazione. Questi stati mentali e questi comportamenti ci segnalano che le ferree leggi della regolazione della vita sono state violate; sono sollecitazioni dirette a mente e coscienza, provenienti dai territori dei processi non coscienti: sollecitazioni che ci chiedono di trovare soluzioni ragionevoli a una situazione non più gestibile con dispositivi automatici fuori dàl controllo della coscienza.

Quando si misurano tutti quei parametri attribuendo loro dei numeri, si scopre che l’intervallo all’interno del quale essi normalmente variano è estremamente ristretto. In altre parole, la vita impone che l’organismo conservi a ogni costo, nel proprio dinamico paesaggio interno, letteralmente decine e decine di parametri entro i loro relativi intervalli. Tutte le operazioni di gestione cui ho accennato prima - procurarsi le fonti di energia, incorporare e trasformare i prodotti energetici, eccetera -mirano a mantenere i parametri chimici dell’organismo (il milieu interno) entro quell’intervallo magico, compatibile con la vita, detto omeostatico; il processo grazie al quale si raggiunge questo equilibrio è detto omeostasi. Questi termini non troppo eleganti furono coniati nel Novecento dal fisiologo Walter Cannon, il quale aveva approfondito ed esteso le scoperte di Claude Bernard, biologo francese del secolo precedente; questi aveva coniato un’espressione più bella - milieu intérieur (ambiente/mezzo interno) - per indicare il brodo chimico in cui la lotta per la vita, per quanto inaccessibile alla vista, ha ininterrottamente luogo. Purtroppo, sebbene gli elementi essenziali della regolazione dei processi vitali (regolazione che coincide con il processo dell’omeostasi) siano ormai noti da più di un secolo e vengano quotidianamente applicati in biologia generale e in medicina, il loro significato più profondo, in termini di neurobiologia e di psicologia, non è stato ancora apprezzato.6

 

 

LE ORIGINI DELL’OMEOSTASI

In che modo l’omeostasi fu introdotta negli organismi? In che modo le singole cellule acquisirono il loro programma di regolazione dei processi vitali? Per affrontare questi interrogativi occorre impegnarsi in una ostica forma di ingegneria inversa: un’impresa mai facile, giacché abbiamo trascorso gran parte della nostra storia scientifica ponendoci nella prospettiva degli organismi interi, e non in quella delle molecole e dei geni da cui essi hanno inizio.

Il fatto che l’omeostasi sia iniziata in modo inconsapevole a livello di organismi senza coscienza, senza mente e senza cervello, solleva una domanda: dove, e in che modo, l’intenzione omeostatica mise radici nella storia della vita? Tale domanda ci conduce dalle singole cellule ai geni, e da questi ultimi a molecole semplici, più semplici del DNA e dell’RNA. L’intenzione omeostatica può sorgere da quei semplici livelli e può perfino essere legata ai processi fisici elementari che governano le interazioni fra le molecole - per esempio, le forze con cui due molecole si attraggono, si respingono, o si combinano, in modo costruttivo o distruttivo. Le molecole si respingono o si attraggono; si uniscono e cooperano in modo esplosivo, oppure rifiutano di farlo.

Per quanto riguarda gli organismi, a conferire loro la capacità omeostatica furono chiaramente le reti geniche derivanti dalla selezione naturale. Che tipo di conoscenza possedevano (e tuttora possiedono) le reti geniche, per poter trasmettere queste sagge istruzioni agli organismi di cui stavano guidando l’esordio? Dove origina il valore, qual è il suo « primordio » quando ci spingiamo al di sotto del livello dei tessuti e delle cellule, fino a quello dei geni? Forse, quel che serve è un’organizzazione specifica dell'informazione genetica. A livello delle reti geniche l’origine prima del valore consisteva di un’organizzazione dell’espressione genica tale da promuovere la costruzione di organismi « omeostaticamente competenti».

Sé ci spingiamo a livelli ancora più semplici, però, dobbiamo trovare risposte più profonde. Sono in corso importanti dibattiti per chiarire in che modo il processo della selezione naturale abbia prodotto il cervello di cui gli esseri umani sono attualmente dotati. La selezione naturale ha operato a livello dei geni, di interi organismi, di gruppi di individui, o a tutti i livelli appena citati? Dalla prospettiva del gene, e affinché i geni sopravvivessero nell’arco delle generazioni, le reti geniche dovettero tuttavia costruire organismi che fossero mortali e al tempo stesso capaci di successo, e in grado di servire da veicoli. E affinché gli organismi si comportassero in modo da riscuotere quel successo, i geni dovevano guidarne l’assemblaggio fornendo loro alcune istruzioni essenziali.

In buona parte, quelle istruzioni dovevano riguardare la messa a punto di dispositivi capaci di operare una regolazione efficiente dei processi vitali. I nuovi dispositivi controllavano la distribuzione di ricompense, l’applicazione di punizioni e la previsione delle circostanze che l’organismo avrebbe affrontato in futuro. In breve, le istruzioni geniche condussero alla costruzione di dispositivi in grado di eseguire quelle che poi - in organismi complessi come gli esseri umani - fiorirono come emozioni, nel senso più ampio del termine. Il primo abbozzo di questi dispositivi apparve in organismi senza cervello, senza mente e senza coscienza, ovvero nelle singole cellule discusse in precedenza; essi raggiunsero tuttavia la massima complessità negli organismi in possesso di tutti e tre gli attributi: cervello, mente e coscienza.7

 

 

L’omeostasi è sufficiente a garantire la sopravvivenza? No davvero, infatti tentare di correggere gli squilibri omeostatici, una volta che essi si siano instaurati, è una prassi inefficace e rischiosa. L’evoluzione risolse questo problema introducendo dispositivi che in primo luogo consentissero agli organismi di prevedere gli squilibri e che, in secondo luogo, offrissero loro la motivazione necessaria per esplorare ambienti probabilmente in grado di offrire soluzioni utili.

 

 

SINGOLE CELLULE, ORGANISMI PLURICELLULARI E MACCHINE ARTIFICIALI

Le singole cellule e gli organismi pluricellulari hanno diversi aspetti in comune con le macchine artificiali. L’attività degli organismi viventi o delle macchine realizza un obiettivo; l’attività è costituita da diversi processi componenti; questi ultimi sono eseguiti da parti anatomiche distinte che espletano compiti di ordine inferiore; eccetera. La somiglianza è molto suggestiva e sta alla base di metafore che funzionano a doppio senso e con le quali descriviamo sia gli esseri viventi, sia le macchine. Parliamo del cuore come di una pompa, dell’apparato circolatorio come di un impianto idraulico, dell’azione degli arti come di quella di altrettante leve, eccetera. Allo stesso modo, quando parliamo di una funzione indispensabile in una macchina complessa, la indichiamo come il suo «cuore», e parliamo dei suoi dispositivi di controllo come del suo «cervello». Le macchine che operano in modo imprevedibile sono definite « capricciose ». Questo approccio - in linea di massima decisamente illuminante - è anche responsabile dell’idea, non molto utile, che il cervello sia un computer digitale e la mente una sorta di software da lanciare su di esso. Il problema reale di queste metafore, però, scaturisce dal fatto che trascurano lo status, fondamentalmente diverso, delle componenti materiali degli organismi viventi e delle macchine costruite dall’uomo. Confrontiamo, per esempio, una moderna meraviglia dell'ingegneria aeronautica, il Boeing 777, con un organismo vivente, piccolo o grande che sia. È possibile enucleare facilmente un certo numero di somiglianze: vi sono i centri di comando nella forma dei computer in cabina; i canali di « feed-forward» che portano informazioni a quei computer, e che regolano le informazioni trasmesse alla periferia mediante canali di « feedback »; una sorta di metabolismo dato dal fatto che i motori si alimentano con il combustibile e trasformano l’energia; eccetera. Persiste tuttavia una differenza fondamentale: ogni organismo vivente è, per natura, dotato di regole e dispositivi omeostatici globali; in caso di malfunzionamento, il corpo dell’or-ganismo muore; fatto ancor più importante, ogni componente del corpo dell’organismo (e con questo intendo dire ogni singola cellula) è, di per se stessa, un organismo vivente, dotato per sua natura di regole e disposi-tivi omeostatici propri, e soggetto allo stesso rischio di morte in caso di malfunzionamento. La struttura del magnifico 777 non ha nulla di paragonabile, dalla fusoliera in lega metallica ai materiali che costituiscono i chilometri di cavi e i sistemi idraulici presenti al suo interno. Nel 777, i meccanismi « omeostatici » di livello superiore, condivisi dai suoi intelligenti computer di bordo e dai due piloti necessari per farlo volare, mirano a preservare la sua struttura intera, in toto, e non le sue componenti fisiche macro- e microscopiche.

 

 

IL VALORE BIOLOGICO

Dal mio punto di vista, la dotazione più essenziale di qualsiasi essere vivente, in qualsiasi istante, è l’insieme equilibrato dei parametri chimici compatibili con una vita in buona salute: questo si applica allo stesso modo a un essere umano e a un’ameba. Tutto il resto scaturisce da quell’insieme di parametri, e la sua importanza non può essere sopravvalutata.

Il concetto di valore biologico è ubiquitario nel pensiero moderno sul cervello e la mente. Tutti abbiamo un’idea, o forse diverse idee, su che cosa significhi la parola valore, ma che cosa intendiamo per valore biologico? Consideriamo qualche altro interrogativo: perché prendiamo praticamente ogni cosa intorno a noi - cibo, case, oro, gioielli, dipinti, azioni, servizi e perfino gli altri esseri umani - e assegniamo loro un valore? Perché tutti passano tanto tempo a calcolare guadagni e perdite legati a quegli oggetti? Perché gli oggetti hanno sempre un cartellino del prezzo attaccato? Perché quest’incessante valutazione? E con quale metro misuriamo quel valore? A un primo sguardo potrebbe sembrare che queste domande siano fuori luogo in una conversazione su cervello, mente e coscienza. In realtà sono pertinenti e come vedremo il concetto di valore è fondamentale per comprendere l’evoluzione, lo sviluppo e l’attuale attività del cervello istante per istante.

Di tutte le domande poste qui sopra, solo quella sul cartellino del prezzo ha una risposta abbastanza semplice e diretta. Gli oggetti indispensabili e quelli difficili da ottenere, in quanto molto richiesti e relativamente rari, hanno un costo più elevato. Ma perché hanno bisogno di un prezzo? Può darsi, per esempio, che non vi sia una quantità sufficiente di ogni cosa perché tutti possano averne un poco; l’attribuzione del prezzo è un modo per gestire lo scollamento molto reale che esiste fra la quantità disponibile di qualcosa e la domanda di cui essa è oggetto. Il prezzo introduce una restrizione e crea una sorta di ordine di precedenza nell’accesso agli oggetti. Ma perché non vi è abbastanza di tutto per tutti? Una delle ragioni, a questo proposito, ha a che fare con la distribuzione non omogenea dei bisogni. Alcuni oggetti sono assolutamente necessari, altri lo sono meno, e alcuni non lo    sono affatto. È solo quando introduciamo il concetto di bisogno, che arriviamo finalmente al punto cruciale del valore biologico: c’è un individuo che lotta per restare vivo; e ci sono i bisogni irreprimibili che insorgono nella sua lotta. Per stabilire come mai, a monte di tutto questo, assegniamo un valore agli oggetti, e spiegare la scelta del metro di cui ci serviamo per farlo, è necessario il    riconoscimento di questi due problemi: la conservazione della vita e i bisogni che ne discendono. Per quanto riguarda gli esseri umani, la conservazione della vita è solo parte di un problema più ampio: per cominciare, tuttavia, concentriamoci sulla sopravvivenza.

Finora, le neuroscienze hanno affrontato questi interrogativi imboccando una singolare scorciatoia: hanno identificato diverse sostanze chimiche che sono in un modo o nell’altro associate a stati di ricompensa o punizione e quindi, per estensione, al valore. Il nome di alcune delle più note fra esse - dopamina, noradrenalina, serotonina, cortisolo, ossitocina, vasopressina - suonerà familiare al lettore. I neuroscienziati hanno anche identificato alcuni nuclei cerebrali che sintetizzano queste molecole e le inviano ad altre parti del cervello e al resto del corpo. (I nuclei cerebrali sono raggruppamenti di neuroni localizzati in regioni subcorticali quali il tronco encefalico, l’ipotalamo e il prosencefalo basale; non vanno confusi con i nuclei presenti all'interno delle cellule eucariotiche, che sono semplici compartimenti contenenti la maggior parte del dna cellulare) .8

I complicati meccanismi neurali in cui sono implicate le molecole associate al «valore» rappresentano un tema importante, su cui molti neuroscienziati sono oggi impegnati a far luce. Che cosa induce i nuclei a liberare quelle molecole? Dove sono liberate, precisamente, nel cervello e nel resto del corpo? Che cosa accade con la loro liberazione? In un modo o nell’altro, le discussioni sulle nuove affascinanti scoperte tradiscono le nostre aspettative proprio quando passiamo alla domanda fondamentale: Dove si trova il motore dei sistemi del valore ? Qual è il primordio biologico del valore? In altre parole, che cosa mette in moto questo sofisticatissimo macchinario? Perché esso ebbe inizio? E perché è diventato quello che è diventato?

Senz’ombra di dubbio, le note molecole e i loro nuclei di origine sono componenti importanti del meccanismo del valore, ma non sono la risposta alle nostre domande. Io considero il valore indissolubilmente legato al bisogno, e il bisogno alla vita. Nelle quotidiane attività sociali e culturali noi formuliamo valutazioni che hanno una connessione diretta o indiretta con l’omeostasi. Quella connessione spiega perché i circuiti del cervello umano siano stati dedicati in modo tanto dispendioso non solo alla previsione e al rilevamento di perdite e guadagni, ma anche al timore delle prime e alla promozione dei secondi. Ciò spiega, in altre parole, perché gli esseri umani siano ossessionati dall’assegnazione di un valore.

Direttamente o indirettamente, il valore ha a che fare con la sopravvivenza; in particolare, nel caso degli esseri umani, ha a che fare anche con la qualità di quella sopravvivenza, nella forma di benessere. Il concetto di sopravvivenza - e, per estensione, il concetto di valore biologico - può essere applicato a diverse entità biologiche, a partire dalle molecole e dai geni fino a interi organismi. Considererò dapprima la prospettiva degli organismi in toto.

 

 

IL VALORE BIOLOGICO NEGLI ORGANISMI «IN TOTO»

Detto in parole povere, per l’organismo nella sua interezza il valore più importante consiste nel sopravvivere in buona salute fino a un’età compatibile con il successo riproduttivo. È proprio per consentire questo che la selezione naturale ha perfezionato i meccanismi omeostatici. Di conseguenza, in un contesto biologico, l’origine più remota del valore e della valutazione consiste nel mantenimento dello stato fisiologico dei tessuti di un organismo all’interno di un intervallo omeostatico ottimale. Questo vale allo stesso modo per gli organismi pluricellulari e per quelli in cui il « tessuto » vivente è limitato a un’unica cellula.

L’intervallo omeostatico ideale non è assoluto, ma varia a seconda del contesto in cui si trova un organismo. In prossimità dei suoi estremi, la vitalità del tessuto declina e aumenta il rischio di malattia e morte, mentre all’interno di un certo settore dell’intervallo i tessuti prosperano e funzionano con maggiore efficienza ed economia. In condizioni sfavorevoli, la possibilità di operare nei pressi degli estremi dell’intervallo - sia pure soltanto per brevi periodi - è un importante vantaggio; sono comunque da preferirsi situazioni in cui i processi vitali hanno luogo in prossimità dell’intervallo di maggior efficienza. È ragionevole concludere che per l’organismo l’origine prima del valore, il suo primordio, sia impressa nelle configurazioni dei parametri fisiologici. Il valore biologico sale o scende lungo una scala di efficienza dei processi vitali, riferita a un particolare stato fisico. In un certo senso, il valore biologico è un surrogato dell’efficienza fisiologica.

La mia ipotesi è che gli oggetti e i processi con i quali ci confrontiamo nella vita quotidiana acquistino il loro valore in rapporto a questo valore biologico originario, oggetto di selezione naturale. I valori che gli esseri umani attribuiscono a oggetti e attività avrebbero qualche relazione, non importa quanto indiretta o remota, con le due condizioni seguenti: in primo luogo, il generale mantenimento del tessuto vivente all’interno dell’intervallo omeostatico adatto al suo attuale contesto; in secondo luogo, la particolare regolazione necessaria affinché il processo operi nella regione dell’intervallo omeostatico associata al benessere, sempre nel contesto attuale.

 

 

Per l’organismo nella sua interezza, allora, l’origine prima del valore, il suo primordio, è lo stato fisiologico del tessuto vivente all’interno di un intervallo omeostatico adatto alla sopravvivenza. Nel cervello, la continua rappresentazione dei parametri chimici consente a dispositivi cerebrali non coscienti di rilevare e misurare le loro deviazioni dall’intervallo omeostatico e quindi di agire come sensori dell’entità dei bisogni interni dell’organismo. A sua volta, la deviazione dall'intervallo omeostatico così misurata consente ad altri dispositivi cerebrali di ordinare azioni correttive e di promuovere opportuni incentivi o disincentivi, a seconda dell’urgenza della risposta. Un semplice repertorio di tali attività costituisce la base per la previsione di condizioni future.

Nei cervelli in grado di rappresentare gli stati interni sotto forma di mappe, cervelli potenzialmente dotati di mente e coscienza, i parametri associati all’intervallo omeostatico corrispondono - ai livelli di elaborazione cosciente - all’ esperienza del dolore e del piacere. Succès-sivamente, nei cervelli capaci di linguaggio, quelle esperienze possono ricevere etichette linguistiche specifiche, così da poter essere chiamate con il loro nome: piacere, benessere, disagio, dolore.

Se si prende un dizionario e si cerca la parola valore, si trova qualcosa di simile a questa definizione: «equivalente relativo di un bene (monetario, materiale o di altra natura); merito; importanza; mezzo di scambio; quantità di qualcosa che può essere scambiata per ottenere qualcos’altro; qualità di una cosa che la rende desiderabile o utile; utilità; costo; prezzo ». Come si vede, il valore biologico è alla base di tutti questi significati.

 

 

IL SUCCESSO DEI NOSTRI ANTENATI PIÙ REMOTI

Che cosa decretò il successo tanto brillante degli organismi-veicoli? Che cosa aprì la strada a creature complesse come noi? Ai fini della nostra comparsa, un ingrediente importante sembra essere stato il movimento: qualcosa di cui le piante non dispongono, ma di cui noi e alcuni altri animali siamo invece dotati. Le piante possono avere dei tropismi: alcune sono in grado di orientarsi cercando il sole o evitando l’ombra; e alcune, come la carnivora dionea, riescono addirittura a catturare insetti distratti. Nessuna pianta, però, può sradicarsi e andarsene a cercare un ambiente migliore da un’altra parte: è il giardiniere che deve farlo per lei. La tragedia delle piante, che peraltro esse ignorano, è che le loro cellule, circondate da una parete rigida come un corsetto, non potranno mai modificare la propria forma in modo sufficiente per diventare neuroni. Le piante non hanno cellule nervose: quindi, non avranno mai una mente.

Anche gli organismi indipendenti non dotati di cervello hanno sviluppato un ingrediente importante: la capacità di rilevare modificazioni delle condizioni fisiologiche, sia all’interno del proprio perimetro sia nell’am-biente circostante. Perfino i batteri reagiscono alla luce del sole, e anche a moltissime sostanze chimiche; posti in una capsula Petri, essi risponderanno all’immissione di una sostanza tossica raggruppandosi e allontanandosi dalla minaccia. Anche le cellule eucariotiche rilevavano l’equivalente di stimoli tattili e vibrazioni. I cambiamenti avvertiti nell’ambiente interno o esterno potevano indurle al movimento da un luogo all’altro. Ma per rispondere a una situazione in modo efficace, la struttura che in una singola cellula equivale al cervello deve anche disporre di un protocollo di reazione: un insieme di regole estremamente semplici, in base alle quali prendere la «decisione di muoversi» quando sono soddisfatte particolari condizioni.

In breve, i requisiti minimi che questi semplici organismi dovevano possedere per avere successo e trasmettere i propri geni alla generazione successiva erano la capacità di rilevare le caratteristiche dell’ambiente interno ed esterno, un protocollo di reazione e il movimento. Il cervello evolse come dispositivo in grado di migliorare le operazioni di rilevamento, decisione e movimento gestendole in modo sempre più efficiente e differenziato.

Il movimento venne infine perfezionato grazie allo sviluppo della muscolatura striata, il tipo di tessuto muscolare di cui oggi gli esseri umani si servono per camminare e parlare. Come vedremo nel capitolo 3, la capacità di rilevare le condizioni interne dell’organismo - capacità che oggi chiamiamo enterocezione - si espanse fino a controllare un gran numero di parametri, fra i quali per esempio il pH, la temperatura, la presenza o assenza di numerose sostanze chimiche, lo stato di tensione della muscolatura liscia. Per quanto riguarda le caratteristiche dell’ambiente esterno, il loro rilevamento - che nell’insieme designiamo con il termine esterocezione - finì per comprendere l’olfatto, il gusto, la sensibilità al contatto e alle vibrazioni, l’udito e la vista.

Affinché sensibilità e movimento siano della massima utilità, il protocollo di reazione deve in qualche modo somigliare a un piano strategico d’impresa a trecento-sessanta gradi, nel quale siano implicitamente contenute le condizioni che ispirano la politica aziendale. A tutti i livelli di complessità, il piano omeostatico che troviamo nelle diverse creature consiste esattamente in questo: un insieme di linee guida che l’organismo deve seguire per raggiungere i suoi obiettivi. L’essenza delle linee guida è molto semplice: in presenza di X, fai Y.

Quando esaminiamo lo spettacolo dell’evoluzione, rimaniamo sbalorditi dai suoi numerosi importanti risultati. Consideriamo, per esempio, lo sviluppo degli occhi: non solo di quelli che somigliano ai nostri, ma anche di altre varietà che svolgono la loro funzione usando mezzi leggermente diversi. Non meno stupefacente è il prodigio dell’ecolocalizzazione, che permette ai pipistrelli e ai gufi di andare a caccia nell’oscurità più completa, facendosi guidare da una squisita capacità di localizzare i suoni nello spazio tridimensionale. Di certo non meno spettacolare è l’evoluzione di un protocollo di reazione capace di portare l’organismo a uno stato di omeostasi.

 

 

La logica che giustifica l’esistenza di un protocollo di reazione è il raggiungimento di un obiettivo omeostatico. Come ho accennato in precedenza, perd, anche in presenza di un obiettivo chiarissimo, affinché un protocollo di reazione sia eseguito in modo efficace, occorre qualcos’altro. Perché una certa azione sia realizzata in maniera efficiente e corretta, occorre che vi sia un incentivo, così che in determinate circostanze alcuni tipi di risposta siano favoriti rispetto ad altri. Per i tessuti viventi, infatti, alcune circostanze possono essere così negative da richiedere con urgenza la rapida attuazione di una correzione drastica, letteralmente fulminea. Allo stesso modo, per i tessuti viventi, alcune opportunità possono essere talmente favorevoli che le reazioni positive nei loro confronti devono essere selezionate e intraprese in tempi brevi. Proprio qui troviamo i complessi dispositivi alla base di quelle che, dalla nostra prospettiva umana, abbiamo chiamato «ricompensa» e «punizione»: i protagonisti nella coreografia dell’esplorazione motivata. Si noti che nessuna di queste operazioni necessita di una mente, e meno che mai di una mente dotata di coscienza. All'interno o all’esterno di un organismo non vi è alcun «soggetto» ufficiale che si comporti come un «dispensatore di ricompense » o come un « dispensatore di punizioni». Nondimeno, «ricompense» e «punizioni» sono somministrate in base allo schema dei protocolli di reazione. Tutta l’operazione è cieca e « senza soggetto », proprio come le reti geniche. L’assenza della mente e del sé è perfettamente compatibile con « intenzioni » e «scopi» spontanei e impliciti. La fondamentale «intenzione » dello schema è quella di conservare stato e struttura; tuttavia, a partire da queste molteplici intenzioni, è possibile risalire a uno « scopo » di più ampia portata: la sopravvivenza.

Quello che sto suggerendo è che i meccanismi di incentivazione sono necessari per ottenere una guida efficace del comportamento, ovvero un’esecuzione ben riuscita ed economica del piano strategico della cellula. Sto anche ipotizzando che tanto i meccanismi di incentivazione, quanto la guida del comportamento non siano emersi da processi coscienti di deliberazione e riflessione. Non vi era infatti alcuna conoscenza esplicita e nessun sé pensante.

Gli organismi che, come il nostro, sono dotati di mente e coscienza hanno gradualmente acquisito la conoscenza dei processi che guidano i meccanismi di incentivazione. La mente cosciente non fa che rivelare il meccanismo evolutivo di regolazione dei processi vitali esistente da tempo. Quel meccanismo, però, non è stato creato dalla mente cosciente. La storia reale ribalta le nostre intuizioni: la sequenza storica reale è invertita.

 

 

LO SVILUPPO DEGLI INCENTIVI

Come si svilupparono gli incentivi? Evidentissimi negli organismi il cui cervello è in grado di misurare quanto sia necessaria una certa correzione, gli incentivi comparvero tuttavia in organismi semplicissimi. Affinché avesse luogo la misurazione, il cervello necessitava di una rappresentazione 1) dello stato del tessuto vivente in tempo reale, 2) del suo stato desiderabile corrispondente all’obiettivo omeostatico e 3) di un semplice confronto. A tale scopo fu sviluppata una scala interna che indicasse la distanza dello stato attuale dall'obiettivo; al tempo stesso, per facilitare la correzione, furono adottate molecole che con la loro presenza acceleravano alcune risposte. Noi percepiamo ancora gli stati del nostro organismo grazie a una scala di quel genere: è qualcosa che facciamo in modo assolutamente inconscio, anche se ogni volta che abbiamo (molta) fame, o non ne abbiamo affatto, siamo perfettamente coscienti delle conseguenze di tale misurazione.

Quelli che percepiamo come sentimenti di dolore o piacere, o come punizioni o ricompense, corrispondono direttamente agli stati integrati dei tessuti viventi, così come essi si succedono nella naturale gestione dei processi vitali di un organismo. Le mappe cerebrali degli stati in cui i parametri tissutali si discostano significativamente dall’intervallo omeostatico, andando in una direzione non favorevole alla sopravvivenza, sono esperite con una qualità che abbiamo chiamato « dolore » e «punizione». Allo stesso modo, quando i tessuti operano nel settore più favorevole dell’intervallo omeostatico, le mappe cerebrali degli stati corrispondenti sono esperite con una qualità che abbiamo chiamato « piacere» e «ricompensa».

Gli agenti implicati nell’orchestrazione di questi stati tissutali sono denominati ormoni e neuromodulatori ed erano già presenti nei semplici organismi costituiti da un’unica cellula. Noi sappiamo come operano queste molecole: per esempio, quando un dato tessuto sta rischiando la propria salute a causa di un livello pericolosamente basso di nutrienti, negli organismi dotati di cervello quest’ultimo rileva il cambiamento e determina l’entità del bisogno e l’urgenza con cui il cambiamento deve essere corretto. Questo accade in modo inconscio; nei cervelli dotati di mente e coscienza, d’altra parte, lo stato corrispondente a questa informazione può diventare conscio. Se e quando ciò accade, il soggetto sperimenta un sentimento negativo che può spaziare dal disagio al dolore. Con o senza coscienza del processo, l’organismo intraprende una catena di risposte correttive chimiche e neurali alla quale contribuiscono molecole che accelerano il processo. Nel caso di un cervello cosciente, però, la conseguenza di tale processo molecolare non è la mera correzione dello squilibrio: è anche da un lato la riduzione di un’esperienza negativa qual è il dolore, e dall’altro un’esperienza di piacere/ricompensa. Quest’ultima deriva in parte dallo stato favorevole alla vita ora probabilmente raggiunto dal tessuto. Alla fine, è probabile che la semplice azione delle molecole incentivanti collochi l’organismo nella configurazione funzionale associata agli stati piacevoli.

La comparsa di strutture cerebrali in grado di rilevare la probabile erogazione di stimoli positivi («benefici») o negativi («minacce») ebbe anch’essa la sua importanza. Specificamente, oltre a rilevare stimoli positivi e negativi in quanto tali, il cervello cominciò a servirsi di indizi per prevederne l’erogazione: segnalando l’arrivo di stimoli positivi mediante la liberazione di molecole come la dopamina o l’ossitocina; oppure, in caso contrario, segnalando minacce incombenti con il fattore di rilascio del cortisolo o con la prolattina. La liberazione di queste molecole, a sua volta, ottimizzava il comportamento necessario per ottenere, o evitare, l’erogazione dello stimolo. Allo stesso modo, il cervello usava molecole per segnalare un indizio non corretto (un errore di previsione) e per comportarsi di conseguenza; distingueva l’arrivo di un oggetto atteso e quello di un oggetto inatteso con diversi gradi di intensità di scarica nauronale e con la corrispondente liberazione di una molecola (per esempio la dopamina). Il cervello divenne anche capace di usare configurazioni di stimoli - per esempio la ripetizione o l’alternanza - per prevedere che cosa stesse per accadere. Quando due stimoli si presentavano a breve distanza l’uno dall’altro, ciò indicava la possibilità che ne arrivasse .un terzo.

 

 

Quale fu il risultato di tutto questo? In primo luogo, una risposta più o meno urgente a seconda delle circostanze - in altre parole, una risposta differenziale. In secondo luogo, la produzione di risposte ottimizzate grazie alla previsione.

Il design omeostatico e i suoi dispositivi di incentivazione e previsione proteggevano l’integrità del tessuto vivente all’interno di un organismo. Curiosamente, lo stesso insieme di meccanismi fu cooptato per assicurare che l’organismo si impegnasse in comportamenti riproduttivi tali da favorire la trasmissione dei geni. L’attrazione e il desiderio sessuale, come pure i rituali di accoppiamento, ne sono altrettanti esempi. In superficie, i comportamenti associati rispettivamente alla regolazione dei processi vitali e alla riproduzione si separarono; l’obiettivo più profondo, però, rimase lo stesso, e pertanto non sorprende che i meccanismi siano comuni.

Nel corso dell’evoluzione, i programmi alla base dell’omeostasi divennero più complessi, sia per quanto riguarda le condizioni che ne inducevano l’attivazione, sia per quanto riguarda la gamma dei risultati. A poco a poco, questi programmi più complessi divennero ciò che noi conosciamo come impulsi, motivazioni ed emozioni (si veda il capitolo 5).

In breve, l’omeostasi richiede impulsi e motivazioni: ausili che un cervello complesso fornisce in abbondanza grazie alle capacità di anticipazione e previsione, esprimendoli nell’esplorazione dell’ambiente. Di sicuro gli esseri umani hanno i sistemi motivazionali più avanzati - completati da una curiosità infinita, una forte spinta alla ricerca e sofisticati sistemi di allerta nei confronti dei futuri bisogni -, il tutto inteso a mantenerci, per così dire, sulla sponda sicura del guado.

 

 

IL LEGAME FRA OMEOSTASI, VALORE E COSCIENZA

Gli oggetti e le azioni ai quali siamo arrivati ad attribuire valore sono, direttamente o indirettamente, legati alla possibilità di conservare un intervallo omeostatico negli organismi viventi. Sappiamo inoltre che, entro quell’intervallo, alcuni settori e alcune configurazioni sono associati a una regolazione ottimale dei processi vitali; altri sono invece meno efficienti, e altri ancora sono più vicini alla zona di pericolo, all’interno della quale possono verificarsi malattia e morte. È dunque ragionevole attribuire un maggior valore a oggetti e azioni che - in un modo o nell’altro - indurranno una regolazione ottimale.9

Già sappiamo in che modo gli esseri umani riconoscono il settore ottimale dell’intervallo omeostatico senza alcun bisogno di farsi controllare la biochimica ematica in laboratorio. La diagnosi non richiede alcuna esperienza particolare, ma solo il fondamentale processo della coscienza: nella mente cosciente, gli intervalli ottimali si esprìmono come sentimenti piacevoli; gli intervalli pericolosi come sentimenti non troppo piacevoli o addirittura dolorosi.

È possibile immaginare un sistema di rilevamento più trasparente? Il funzionamento ottimale di un organismo, che dà luogo a stati vitali armoniosi ed efficienti, costituisce il substrato stesso dei nostri sentimenti primordiali di benessere e piacere. Essi sono il fondamento di quella che, in contesti molto sofisticati, chiamiamo felicità. Per contro, gli stati vitali caratterizzati da disorganizzazione, inefficienza e mancanza di armonia, veri e propri presagi di malattia e malfunzionamento, costituiscono il substrato dei sentimenti negativi; come osservò assai giustamente Tolstoj, le varietà di questi ultimi sono molto più numerose di quelle dei sentimenti positivi: un infinito assortimento di dolori e sofferenze, per non menzionare disgusto, paura, rabbia, tristezza, vergogna, senso di colpa e disprezzo.

Come vedremo, l’aspetto che definisce i sentimenti emozionali è la lettura cosciente degli stati del corpo modificati dalle emozioni: ecco perché i sentimenti possono servire da barometro della gestione dei processi vitali. Ed è ancora per questo che - fin da quando gli esseri umani ne divennero consapevoli - i sentimenti hanno influenzato le società e le culture insieme a tutti i loro meccanismi e i loro artefatti, cosa che peraltro non sorprende. Tuttavia, molto prima dell’alba della coscienza e dell’emergere dei sentimenti coscienti - di fatto, perfino prima dell’alba della mente in quanto tale -, la configurazione dei parametri chimici già influenzava i comportamenti individuali di creature semplici che non possedevano un cervello in grado di rappresentare quei parametri. Questo è molto logico: gli organismi non dotati di mente dovevano affidarsi ai parametri chimici per guidare le azioni necessarie alla propria sopravvivenza. Questa guida « cieca » comprendeva comportamenti di considerevole complessità. Lo sviluppo di diversi tipi di batteri in una colonia è governato da tali parametri e può addirittura essere descritto in termini sociali: le colonie di batteri praticano normalmente all'interno del proprio gruppo il quorum sensing, o « rilevamento del quorum», e si muovono letteralmente guerra per non perdere il possesso del territorio e delle risorse. Lo fanno anche quando si trovano all’interno del nostro corpo, dove competono per aggiudicarsi diritti di proprietà sulla nostra gola o sul nostro intestino. Non appena apparvero sulla scena sistemi nervosi semplicissimi, però, il comportamento sociale divenne ancora più chiaro.

Consideriamo i vermi nematodi: un nome forbito per indicare un tipo di verme scientificamente interessante, con un comportamento sociale molto sofisticato.

Il cervello di un nematode come Caenorhabditis elegans ha soltanto 302 neuroni organizzati in una catena di gangli: di certo nulla di cui andare troppo orgogliosi. Come qualsiasi altro essere vivente, i nematodi devono nutrirsi per sopravvivere. A seconda della scarsità o dell’abbondanza del cibo e delle minacce ambientali, essi vanno - per così dire - a pranzo in modo più o meno gregario. Se il cibo è disponibile e l’ambiente è tranquillo, mangiano da soli; ma se il cibo scarseggia o se nell’ambiente è rilevabile una minaccia (per esempio un certo tipo di odore), allora pranzano in gruppo. Inutile dire che non sanno davvero che cosa stanno facendo, e meno che mai perché lo fanno. Se si comportano come si comportano è perché il loro cervello straordinariamente semplice, privo di una mente e a maggior ragione di una coscienza, usa i segnali provenienti dall’ambiente per intraprendere l’uno o l’altro tipo di azione.

Immaginiamo ora che io abbia descritto la situazione di C. elegans in astratto, delineando le condizioni e i comportamenti ma senza accennare al fatto che si tratta di vermi; e ora immaginiamo che io chieda a qualcuno di mettersi nei panni di un sociologo e di commentare la situazione. Suppongo che costui rileverebbe evidenze di cooperazione interindividuale, e potrebbe addirittura riconoscere delle preoccupazioni altruistiche. Potrebbe perfino pensare che io stessi parlando di creature complesse, magari di esseri umani primitivi. La prima volta che ho letto gli articoli di Cornelia Bargmann con la descrizione di questi risultati, mi vennero in mente i sindacati e il concetto di sicurezza nel numero.10 Eppure C. elegans non è che un verme.

 

 

Il fatto che gli stati omeostaticamente ideali siano la dotazione più preziosa di un organismo vivente ha an che un’altra implicazione: il vantaggio fondamentale rappresentato dalla coscienza, a qualsiasi livello la si voglia considerare, scaturisce infatti dal miglioramento che essa comporta nella regolazione dei processi vitali in ambienti sempre più complessi.11

La sopravvivenza in nuove nicchie ecologiche risultò favorita dal possesso di cervelli abbastanza complessi da creare una mente: uno sviluppo che, come spiegherò nella seconda parte, è fondato sulla costruzione di mappe neurali e di immagini. Una volta emersa la mente -sebbene ancora non impregnata di una coscienza pienamente sviluppata -, la regolazione automatica dei processi vitali risultò ottimizzata. I cervelli che producevano immagini disponevano ora di un maggior numero di dettagli riguardanti le condizioni interne ed esterne all’organismo e quindi potevano generare risposte più differenziate ed efficaci rispetto ai cervelli non dotati di mente. Quando poi la mente delle specie non umane potè dotarsi di coscienza, la regolazione automatica acquisì un potente alleato: un mezzo per concentrare lo sforzo di sopravvivenza sul sé nascente che adesso rappresentava l’organismo in lotta per là propria conservazione. Ovviamente, negli esseri umani, poiché la coscienza coevolse con la memoria e la ragione permettendo la pianificazione offline e il pensiero riflessivo, quell’alleato divenne ancora più potente.

La regolazione dei processi vitali centrata sul sé coesiste sempre, sorprendentemente, con i meccanismi della regolazione automatica che rappresentano un’eredità evolutiva di tutte le creature coscienti. Questo è verissimo anche nel caso degli esseri umani. Gran parte della nostra attività di regolazione procede - per fortuna - in modo inconscio. Di certo non vorremmo gestire il nostro sistema endocrino o la nostra funzione immunitaria coscientemente: infatti non abbiamo alcun modo di controllare con sufficiente tempestività le loro oscillazioni caotiche. Nel migliore dei casi, sarebbe come pilotare un moderno aviogetto in modalità manuale: un’impresa certo non da poco, che richiederebbe il controllo di tutti i possibili eventi casuali e la padronanza di tutte le manovre necessarie per evitare uno stallo. Nel caso peggiore, sarebbe come mettersi a giocare in Borsa investendo i contributi per la previdenza sociale. Senza contare che non sarebbe nemmeno auspicabile avere il controllo assoluto su una cosa semplice come la respirazione: uno potrebbe decidere di fare la traversata della Manica nuotando sott’acqua, in apnea, rischiando di perdere la vita nell’impresa. Per fortuna, i nostri dispositivi automatizzati non permetterebbero mai una simile sciocchezza.

La coscienza ha aumentato l’adattabilità, ha consentito ai suoi beneficiari di creare nuove soluzioni per i problemi legati alla vita e alla sopravvivenza, e ha permesso di farlo praticamente in qualsiasi ambiente concepibile: ovunque sulla terra, nell’atmosfera e nello spazio esterno, e anche sott’acqua, nei deserti e sulle montagne. Siamo evoluti per adattarci a moltissime nicchie e possiamo imparare ad adattarci a molte altre ancora. Non ci sono mai spuntate ali o branchie, ma abbiamo inventato macchine che hanno ali o possono lanciarci nella stratosfera; e ne abbiamo inventate altre che solcano la superficie degli oceani o viaggiano ventimila leghe sotto di essa. Abbiamo realizzato le condizioni materiali per vivere ovunque desideriamo. Un’ameba non può farlo; e non possono farlo nemmeno i vermi, i pesci, gli anfìbi, gli uccelli, gli scoiattoli, i cani o i gatti; e neppure i nostri intelligentissimi cugini, gli scimpanzé.

Quando il cervello degli esseri umani cominciò a mettere insieme la mente cosciente, le regole del gioco furono rivoluzionate. Passammo da una regolazione semplice, concentrata sulla sopravvivenza dell’organismo, a forme di regolazione sempre più ponderate, basate su una mente dotata di identità e personalità e ora attivamente alla ricerca non più della mera sopravvivenza, ma di una collocazione all’interno di specifici intervalli di benessere: davvero un gran bel salto, anche se - per quanto ne sappiamo - costruito sulla continuità biologica.

Nel corso dell’evoluzione, il cervello si affermò in quanto offriva più ampie possibilità di regolazione dei processi vitali; in seguito, analogamente, i sistemi cerebrali che portarono alla mente cosciente si affermarono perché offrivano le più ampie possibilità di adattamento e di sopravvivenza insieme al tipo di regolazione in grado di mantenere e aumentare il benessere.

In breve, gli organismi unicellulari dotati di nucleo hanno la volontà - seppure non sostenuta da una mente o    da una coscienza - di vivere e di gestire i processi vitali in modo sufficientemente appropriato, fintanto che alcuni geni consentono loro di farlo. Il cervello espanse quelle possibilità di gestione anche nei casi in cui non diede luogo a una mente, e meno che mai a una mente cosciente. Per questo motivo si affermò. Quando a questa miscela si aggiunsero mente e coscienza, le possibilità di regolazione andarono incontro a un ulteriore ampliamento e aprirono la strada al tipo di gestione che ha luogo non soltanto all’interno di un singolo organismo, ma anche nelle società composte da numerosi individui. La coscienza permise agli esseri umani di ripetere il leitmotiv della regolazione dei processi vitali avvalendosi di un insieme di strumenti culturali quali scambi economici, credenze religiose, convenzioni sociali e norme etiche, come pure sistemi giuridici, arti, scienza e tecnologia. Nondimeno, l’intenzione di sopravvivere presente nella cellula eucariotica e l’intenzione di sopravvivere implicita nella coscienza umana sono la stessa identica cosa.

Dietro all’edificio imperfetto ma ammirevole che le culture e le civiltà hanno costruito per noi, il problema fondamentale da affrontare rimane quello della regolazione dei processi vitali. Ugualmente importante, la motivazione alla base della maggior parte delle conquiste messe a segno dalle culture e dalle civiltà dell’uomo dipende da quello stesso problema e dal bisogno di gestire i    comportamenti degli esseri umani impegnati ad affrontarlo. La regolazione dei processi vitali è alla radice di numerose questioni che richiedono una spiegazione in un contesto biologico generale e umano in particolare: l’esistenza del cervello; l’esistenza del dolore, del piacere, delle emozioni e dei sentimenti; i comportamenti sociali; le religioni; le economie con i loro mercati e le loro istituzioni finanziarie; i comportamenti morali; le leggi e la giustizia; la politica; l’arte, la tecnologia e la scienza. Come il lettore può constatare, un elenco di poco conto.

La vita e le condizioni che ne sono parte integrante -l’irreprimibile imperativo di sopravvivere e il complicato compito di gestire la sopravvivenza in un organismo, a prescindere dal fatto che esso sia unicellulare o costituito da milioni di miliardi di cellule - sono le cause profonde dell’emergere e dell’evolvere del cervello (il dispositivo di gestione più elaborato mai assemblato dall’evoluzione), come pure la causa profonda di tutto quanto scaturì dall’evoluzione di cervelli sempre più raffinati, all’interno di corpi sempre più complicati, in ambienti sempre più complessi.

Se consideriamo molti aspetti delle funzioni cerebrali attraverso il filtro di questa idea - e cioè che un cervello esiste per gestire i processi vitali all’interno di un corpo -, le stranezze e i misteri di alcune categorie tradizionali della psicologia (emozione, percezione, memoria, linguaggio, intelligenza «coscienza) diventano, rispettivamente, meno strane e molto meno misteriosi: sviluppano anzi una ragionevolezza trasparente, una logica inevitabile e accattivante. Come potremmo essere diversamente - sembrano chiederci - visto il lavoro che dobbiamo fare?