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RISVEGLIO
Quando mi sono svegliato, stavamo scendendo. Avevo dormito a lungo: abbastanza da perdermi gli annunci su atterraggio e condizioni meteo, inconsapevole di me stesso e dell’ambiente circostante. Incosciente.
Poche cose della nostra biologia sono in apparenza tanto banali come questo oggetto di uso quotidiano che chiamiamo coscienza, la fenomenale abilità che consiste nel disporre di una mente dotata di un proprietario: il protagonista della nostra vita, un sé che ispeziona al tempo stesso il mondo dentro di noi e fuori di noi, un agente apparentemente pronto all’azione.
La coscienza non è un mero stato di veglia. Quando mi sono svegliato, appena due paragrafi fa, non mi sono guardato intorno con aria assente, assorbendo immagini e suoni quasi che la mia mente, ora ridestata, non appartenesse a nessuno. Al contrario, io sapevo - me ne sono reso conto senza alcuno sforzo e quasi istantaneamente, con un’esitazione minima (o forse senza esitare nemmeno un po’) - che quello lì seduto su un aeroplano ero io, la mia identità, che me ne tornavo in volo a Los Angeles, a casa, con una lunga lista di cose da fare prima che finisse la giornata, consapevole di una strana combinazione di affaticamento per il viaggio e di entusiasmo per quello che mi aspettava, curioso di vedere su quale pista saremmo atterrati, e attento alle regolazioni di potenza dei motori che ci stavano riportando a terra. Essere sveglio era senza dubbio indispensabile per trovarsi in quello stato, il cui aspetto principale, tuttavia, di certo non era lo stato di veglia. Ma allora che cosa? Il fatto che la miriade di contenuti presenti nella mia mente, a prescindere dal loro ordine o dalla loro intensità, fossero connessi a. me, il proprietario della mente, attraverso lacci invisibili che li univano in quella festa mobile, proiettata in avanti, che chiamiamo « sé » ; e, non meno importante, il fatto che quella connessione fosse sentita. Vi era, nell’esperienza del mio sé connesso, la qualità di ciò che è sentito.
Il risveglio ha implicato che la mia mente, dopo la sua temporanea assenza, tornasse a presentarsi, con me dentro, e che entrambi, la proprietà (la mente) e il proprietario (me), venissero rintracciati. Il risveglio mi ha consentito di riemergere e di esaminare i miei possedimenti mentali, la proiezione a tutto cielo di un film magico, in parte documentario e in parte fiction, altrimenti noto come «mente umana cosciente ».
Tutti noi abbiamo libero accesso alla coscienza, la quale affiora nella nostra mente con una tale generosa facilità che - senza esitazione o apprensione - noi la lasciamo spegnere ogni sera quando andiamo a letto, permettendole di tornare tutte le mattine quando suona la sveglia, per almeno 365 volte all’anno (senza contare i sonnellini). Eppure, poche cose del nostro essere sono straordinarie, fondamentali e apparentemente misteriose al pari della coscienza. Senza di essa - in altre parole, senza una mente dotata di soggettività - non avremmo alcun modo di sapere che esistiamo, e meno che mai di sapere chi siamo e che cosa pensiamo. Con ogni probabilità, se la soggettività non fosse mai affiorata - sebbene inizialmente in forme molto modeste, e in creature molto più semplici di noi -, la memoria e il ragionamento non avrebbero conosciuto lo sviluppo prodigioso cui andarono invece incontro; quanto alla via evolutiva che ha portato al linguaggio e alla raffinata versione umana della coscienza oggi in nostro possesso, non sarebbe mai stata tracciata. La creatività non sarebbe fiorita: niente musica, niente pittura, niente letteratura. L’amore non sarebbe mai stato amore, ma soltanto sesso. L’amicizia non sarebbe stata altro che mera, interessata cooperazione. Il dolore non sarebbe mai diventato sofferenza -non una cosa negativa, se ci si pensa bene -, ma sarebbe rimasto un vantaggio equivoco (considerando che anche il piacere non sarebbe mai diventato beatitudine). Se la soggettività non avesse fatto la sua rivoluzionaria comparsa in scena, non ci sarebbe stata conoscenza alcuna, né qualcuno a prenderne nota; di conseguenza, non vi sarebbe una storia delle gesta dei viventi nel corso delle ere, e nemmeno una cultura.
Sebbene io non abbia ancora fornito una definizione operativa di coscienza, spero che non sussista alcun dubbio su che cosa significa non averne una: in assenza di coscienza, la prospettiva personale è sospesa; l’individuo non sa della propria esistenza né è al corrente dell’esistenza di qualsiasi altra cosa. Se, nel corso dell’evoluzione, la coscienza non si fosse sviluppata ed espansa fino a giungere alla sua attuale versione umana, anche l’umanità, così come la conosciamo - con tutta la sua forza e la sua fragilità -, non si sarebbe mai sviluppata. C’è da rabbrividire al pensiero che, se l’evoluzione non avesse imboccato quella svolta, non ci sarebbero state le alternative biologiche che ci rendono autenticamente umani. In tal caso, però, come avremmo fatto ad accorgerci che mancava qualcosa?
Noi diamo la coscienza per scontata perché è largamente disponibile, molto facile da usare e decisamente elegante con quel suo quotidiano apparire e scomparire; eppure, quando pensiamo a essa - scienziati e profani allo stesso modo - restiamo sconcertati. Di che cosa è fatta la coscienza? Una mente... che si morde la coda: questo a me sembra; infatti non possiamo essere coscienti senza una mente di cui esserlo. Ma allora, di che cosa è fatta la mente? Proviene dall’aria o dal corpo? I più perspicaci sostengono che proviene dal cervello, anzi: credono che essa sia il cervello; tuttavia anche questa non è una risposta soddisfacente. Come fa il cervello a costruire la mente?
Il fatto che nessuno veda la mente altrui, cosciente o no che essa sia, è particolarmente misterioso. Possiamo osservare il corpo e le azioni degli altri, e anche ciò che essi fanno, dicono o scrivono; possiamo fare perfino ipotesi ragionevoli su quello che pensano. Ma non possiamo osservare la loro mente, e soltanto a noi è dato di osservare la nostra: dall'interno, e attraverso una finestra alquanto stretta. Le proprietà della mente - e a maggior ragione quelle della mente cosciente - sembrano diverse in modo così radicale da quelle della materia vivente visibile che le persone di indole riflessiva si domandano come faccia un processo (il funzionamento della mente cosciente) ad armonizzarsi con l’altro (il fatto che cellule dotate di realtà fisica convivano in aggregati denominati « tessuti»).
D’altra parte, ammettere che la mente cosciente sia un’entità misteriosa - e a un primo sguardo essa lo è davvero - è cosa ben diversa dal sostenere che il mistero sia insolubile: è diverso dal dire che non riusciremo mai a capire come un organismo vivente, dotato di cervello, possa sviluppare una mente cosciente.1
OBIETTIVI E RAGIONI
In questo libro intendo affrontare due interrogativi. In primo luogo: come fa il cervello a costruire una mente? E in secondo luogo: come fa il cervello a dotare quella mente di coscienza? Sono ben consapevole che affrontare un interrogativo non significa trovare una risposta, e che sulla questione della mente cosciente sarebbe sciocco presumere l’esistenza di risposte definitive. Mi rendo anche conto del fatto che lo studio della coscienza si è espanso a tal punto che ormai non è più possibile far menzione di tutti i contributi. Il che, insieme ai problemi di terminologia e prospettiva, rende l’attuale ricerca sull’argomento qualcosa di simile a una passeggiata in un campo minato. Nondimeno, procedendo a proprio rischio e pericolo, è ragionevole riflettere sugli interrogativi e servirsi delle informazioni attualmente disponibili (sebbene incomplete e provvisorie) per formulare congetture verificabili e sognare il futuro. Obiettivo di questo libro è riflettere sulle congetture e discutere un quadro costituito da alcune ipotesi; esso si concentrerà sui requisiti strutturali e funzionali che un cervello deve possedere affinché possa emergere una mente cosciente.
I libri dovrebbero essere scritti per una ragione, e questo è stato scritto per ricominciare da capo. Ormai sono più di trent’anni che studio la mente e il cervello dell’uomo e sulla coscienza ho già scritto libri e articoli scientifici.2 La mia descrizione del problema, tuttavia, non mi soddisfa più e la riflessione sui risultati, vecchi e nuovi, di ricerche rilevanti ha finito per modificare le mie idee su due questioni in particolare: l’origine e la natura del sentire e i meccanismi alla base della costruzione del sé. Questo libro è un tentativo di discutere le mie posizioni attuali. In una misura certo non indifferente, il libro riguarda anche ciò che ancora non sappiamo ma vorremmo tanto conoscere.
La parte restante di questo capitolo contestualizza il problema, spiega il quadro concettuale in cui si è scelto di affrontarlo e anticipa le principali idee che emergeranno nei capitoli successivi. Alcuni lettori probabilmente troveranno che questa lunga introduzione rallenti la lettura, ma garantisco che renderà il resto del libro molto più accessibile.
Prima di muovere qualche tìmido passo in avanti per comprendere in che modo il cervello umano costruisce una mente cosciente, dobbiamo riconoscere due importanti eredità. Una consiste nei tentativi risalenti alla metà del secolo scorso di scoprire la base neurale della coscienza. In una serie di studi pionieristici condotti nel Nord America e in Italia, un piccolo gruppo di ricercatori ha puntato con sbalorditiva sicurezza a una parte del cervello - il tronco encefalico, che oggi sappiamo essere inequivocabilmente legato alla creazione della coscienza -, identificandola come responsabile di un fonda-mentale contributo. Alla luce di quello che sappiamo oggi, non sorprende che la descrizione fornita da questi pionieri - Wilder Penfield, Herbert Jasper, Giuseppe Moruzzi e Horace Magoun - fosse incompleta e non del tutto corretta. D’altra parte dovremmo nutrire solo stima e ammirazione per gli scienziati che intuirono il bersaglio, puntando a esso con tanta precisione. Questi furono gli eroici esordi dell’impresa alla quale molti di noi desiderano oggi dare il proprio contributo.3
Fanno parte di questa eredità anche studi eseguiti più recentemente su pazienti la cui coscienza era stata compromessa da un danno cerebrale localizzato. A inaugurare l’impresa sono stati gli studi di Fred Plum e Jerome Posner.4 Nel corso degli anni queste ricerche, andando a completare quelle dei pionieri già citati, hanno prodotto un robusto corpus di dati riguardanti le strutture cerebrali che sono (o non sono) implicate nel rendere cosciente la mente umana. Noi ora possiamo costruire su quelle fondamenta.
La seconda eredità che deve essere riconosciuta consiste in una lunga tradizione nel corso della quale sono state formulate varie concezioni della mente e della coscienza. Tale tradizione ha una storia ricca, lunga e varia come quella della filosofia. Fra tutto quello che essa generosamente ci offre, ho scelto quale punto d’ancoraggio per il mio pensiero gli scritti di William James, sebbene ciò non implichi che io sottoscriva pienamente le sue posizioni sulla coscienza e, soprattutto, su sensazioni e sentimenti.5
Fin dalle prime pagine, questo libro non lascia alcun dubbio sul fatto che, nell’accostarmi alla mente cosciente, io privilègi il sé. Io credo che la mente cosciente emerga quando a un processo mentale elementare va ad aggiungersi un processo del sé. A rigor di termini, se in una mente manca il sé, vuol dire che quella mente non è cosciente. Questa è la situazione in cui si trovano gli esseri umani il cui processo del sé sia sospeso da un sonno senza sogni, dall’anestesia o da una patologia cerebrale.
Definire il processo del sé, che io considero così indispensabile per la coscienza, è tuttavia cosa più facile a dirsi che a farsi. Ecco perché William James ci è tanto utile in questa premessa. James scrisse pagine assai convincenti sull’importanza del sé, ma osservò anche come in molte occasioni la sua presenza sia talmente impercettibile che la coscienza finisce per essere dominata dal flusso continuo dei contenuti della mente. Prima di muovere oltre, dobbiamo affrontare questa natura elusiva del sé e decidere in merito alle sue conseguenze. Esiste davvero un sé, o non esiste? E in caso affermativo, è presente ogniqualvolta noi siamo coscienti, oppure no?
Le risposte sono inequivocabili. Un sé esiste davvero, tuttavia si tratta di un processo, non di una cosa; e il processo è sempre presente quando si presume che noi siamo coscienti. Il processo del sé può essere considerato da due punti di vista. Uno è quello di un osservatore che coglie un oggetto dinamico costituito da particolari meccanismi della mente, particolari aspetti del comportamento e una particolare storia di vita. L’altro punto di osservazione è quello del sé conoscitore (ovvero soggetto della conoscenza) : il processo che dà un centro alle nostre esperienze e ci permette infine di riflettere su di esse. La combinazione dei due punti di vista genera la duplice nozione del sé che sarà utilizzata in tutto questo libro. Come vedremo, le due nozioni corrispondono a due diversi stadi dello sviluppo evolutivo del sé, giacché il sé-soggetto ha tratto origine dal sé-oggetto. Nella vita quotidiana, ciascuna nozione corrisponde a un livello diverso di operazione della mente cosciente: il sé-oggetto ha una portata più limitata del sé-soggetto.
Quale che sia il punto di osservazione, la portata, l’intensità e le manifestazioni del processo variano a seconda delle circostanze. Il sé può operare su un registro appena percettibile, come «un accenno appena intuito» della presenza di un organismo vivente,6 oppure su un registro ben più vistoso che include la personalità e l’identità del proprietario della mente. Il mio modo di riassumere tutto questo è che a volte se ne è consapevoli e a volte no, ma lo si sente sempre.
James pensava che il sé-oggetto, il mio sé materiale, fosse la somma totale di tutto ciò che un uomo può chiamare suo: « non solo il corpo e le facoltà psichiche, ma anche i vestiti, la moglie e i figli, gli antenati e gli amici, la reputazione e le opère, le terre e i cavalli, lo yacht e il conto in banca».7 A parte le violazioni della political correctness, sono d’accordo; James però pensava anche qualcos’altro - qualcosa su cui mi trovo ancora più d’accordo. Se la mente può sapere che tali domini - il corpo, la mente, il passato, il presente e tutto il resto - esistono e appartengono al suo stesso proprietario è perché la percezione di ciascuna di queste cose genera emozioni e sentimenti e, a loro volta, i sentimenti realizzano la separazione fra i contenuti che appartengono al sé e quelli che non gli appartengono. Dalla mia prospettiva, questi sentimenti operano come marcatori: sono i segnali, basati sulle emozioni, che ho designato come «marcatori somatici».8 Quando i contenuti pertinenti al sé si presentano nel flusso mentale, provocano la comparsa di un marcatore, che si unisce a quel flusso come immagine giustapposta a quella che l’ha stimolata. Questi sentimenti realizzano una distinzione fra sé e non sé. Essi sono, in breve, sentimenti di conoscenza. Come vedremo, la costruzione di una mente cosciente dipende, a diversi stadi, dalla generazione di tali sentimenti; La mia definir zione operativa del sé materiale, del sé-oggetto, è la seguente: un insieme dinamico di processi neurali integrati, centrati sulla rappresentazione del corpo in quanto organismo vivente, che trova espressione in un insieme dinamico di processi mentali integrati.
Il sé-soggetto - in particolare come soggetto della conoscenza, come «io» - è una presenza più elusiva, di gran lunga meno coesa in termini mentali o biologici dell’io-oggetto, più dispersa, spesso dissolta nel flusso della coscienza, a volte così fastidiosamente impercettibile da esserci... ma quasi no. Il sé come soggetto e conoscitore è indiscutibilmente più difficile da cogliere del semplice sé-oggetto. Questo però non ne diminuisce l’importanza per la coscienza. Il sé come soggetto e conoscitore non è soltanto una presenza molto reale; esso rappresenta un punto di svolta nell’evoluzione biologica. Possiamo immaginarlo sovrapposto, per così dire, al sé-oggetto, come un nuovo strato di processi neurali che dà origine a un ulteriore strato di elaborazione mentale. Non vi è alcuna dicotomia fra il sé-oggetto e il sé-soggetto-della-conoscenza: piuttosto, vi è continuità e progressione. Il sé-soggetto si fonda sul sé-oggetto.
La coscienza non riguarda soltanto le immagini presenti nella mente. Come minimo, essa riguarda un’organizzazione dei contenuti della mente che hanno il loro centro nello stesso organismo che li produce e dà loro motivazione. La coscienza, d’altra parte, intesa nell’accezione di cui il lettore e l’autore possono fare esperienza ogni volta che lo desiderano, è più di una mente organizzata sotto l’influenza di un organismo che vive e agisce. È anche una mente in grado di sapere che un tale organismo vivente e agente esiste. Di certo, il fatto che il cervello riesca a creare configurazioni neurali che mappano gli oggetti sperimentati come immagini è una parte importante del processo della coscienza. Anche l’orientamento delle immagini nella prospettiva dell’organismo fa parte del processo. Questo, tuttavia, non equivale a sapere, in modo automatico ed esplicito, che le immagini esistono dentro di me, sono mie e - per usare il gergo attuale - sono agibili. La semplice presenza di immagini organizzate che scorrono in un flusso mentale basta a produrre una mente; se però non viene aggiunto un qualche processo supplementare, quella mente rimane incosciente. Ciò che le manca è un sé. Per diventare cosciente, il cervello deve acquisire una nuova proprietà, la soggettività; e un tratto definitorio della soggettività è proprio il sentimento che pervade le immagini sperimentate in modo soggettivo. Il; lettore troverà in The Mystery of Consciousness di John Searle,9 una trattazione moderna dell’importanza della soggettività, vista dalla prospettiva della filosofia.
In linea con quest’idea, il passo decisivo nella creazione della coscienza non è la formazione di immagini né la creazione delle basi di una mente. Il passo decisivo sta nel fare nostre le immagini, nel farle appartenere ai loro legittimi proprietari, ossia ai singoli organismi, perfettamente delimitati, nei quali esse emergono. Tanto nella prospettiva dell’evoluzione quanto in quella autobiografica, il sé soggetto della conoscenza affiora per gradi: dapprima il proto-sé con i suoi sentimenti primordiali; poi il sé nucleare, guidato dall’azione; e infine il sé autobiografico, che incorpora dimensioni sociali e spirituali. D’altra parte questi sono tutti processi dinamici, non entità rigide, e ogni giorno il loro livello fluttua (passando da semplice a complesso a intermedio) e può essere prontamente regolato come impongono le circostanze. Affinché la mente diventi cosciente, il cervello deve generare un soggetto di conoscenza, comunque lo si voglia chiamare: sé, soggetto dell’esperienza, protagonista. Nel momento in cui il cervello riesce a introdurlo nella mente, ecco che emerge la soggettività.
Al lettore che si interrogasse sulla necessità di questa difesa del sé, risponderò che è assolutamente giustificata. In questo preciso istante, i neuroscienziati il cui lavoro mira a delucidare la coscienza hanno nei confronti del sé posizioni molto diverse, che spaziano dal considerarlo come un argomento indispensabile della ricerca, al pensare che i tempi non siano ancora maturi per affrontarlo.10 Considerando che la ricerca associata a entrambe le posizioni continua a fornire idee utili, per adesso non vi è alcun bisogno di decidere quale approccio si rivelerà più soddisfacente. Dobbiamo tuttavia ammettere che essi producono descrizioni diverse.
Nel frattempo, vale la pena di notare che questi due atteggiamenti perpetuano la stessa differenza di interpretazione che separava William James da David Hume: una differenza che peraltro, in genere, viene trascurata in queste discussioni. James desiderava assicurarsi che le proprie idee sul sé avessero una solida base biologica: il suo «sé» non doveva essere scambiato per un agente di conoscenza metafisico. Questo tuttavia non gli impedì di riconoscere al sé una funzione conoscitiva, anche quando essa, lungi dall’essere troppo prominente, era invece impercettìbile. David Hume, d’altro canto, polverizzava il sé al punto da farne a meno. I seguenti passaggi illustrano le sue posizioni: « Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione ». E più avanti: «... oso affermare che per il resto dell’umanità noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento ».11
Commentando il modo in cui Hume liquidava il sé, James fu spinto a formulare un memorabile rimprovero in cui riaffermò l’esistenza del sé enfatizzando la curiosa miscela di «unità e diversità» presente al suo interno e richiamando l’attenzione sul «nucleo di identità» che ne pervade le componenti.12
Filosofi e neuroscienziati hanno modificato ed espanso le fondamenta qui discusse fino a includere diversi aspetti del sé.13 L’importanza di quest’ultimo ai fini della costruzione della mente cosciente, però, non ne è uscita ridotta. Dubito che sia possibile delucidare in modo completo la base neurale della mente cosciente senza prima descrivere il sé-oggetto - l’io materiale - e il sé conoscitore, il sé-soggetto della conoscenza.
La moderna ricerca nei campi della filosofia della mente e della psicologia ha ampliato l’eredità concettuale, mentre lo straordinario sviluppo della biologia generale, della biologia evoluzionista e delle neuroscienze ha capitalizzato l’eredità sul versante neurale, producendo una gran varietà di tecniche per studiare il cervello e raccogliendo una massa colossale di dati. Le informazioni, le congetture e le ipotesi presentate all’interno del libro si fondano su tutti questi sviluppi.
IL SÉ COME TESTIMONE
Per milioni di anni infinite creature hanno posseduto una mente attiva, ma l’esistenza della mente è stata riconosciuta solo in quelle che svilupparono un sé in grado di operare da testimone; e solo dopo che le menti svilupparono un linguaggio e sopravvissero per raccontarlo l’esistenza della mente divenne un fatto ampiamente noto. Il sé testimone è un qualcosa di extra che rivela, in ciascuno di noi, eventi che chiamiamo «mentali». Dobbiamo capire come venga creato quel qualcosa di extra.
I concetti di «testimone» e «protagonista» non vanno intesi come mere metafore letterarie; spero piuttosto che aiutino a illustrare la gamma di ruoli che il sé assume nella mente. Tanto per cominciare, le metafore possono aiutarci a visualizzare la situazione che abbiamo di fronte quando cerchiamo di comprendere i processi mentali. Una mente è pur sempre una mente, anche senza la testimonianza di un sé protagonista; tuttavia, poiché esso è il nostro unico mezzo naturale per conoscere la mente, noi dipendiamo in tutto e per tutto dalla sua presenza, dalle sue capacità e dai suoi limiti. Considerando questa sistematica dipendenza, immaginare la natura dei processi mentali a prescindere dal sé è dunque difficilissimo, anche se - da una prospettiva evolutiva - è evidente che i processi del sé sono stati preceduti da processi mentali più semplici. Il sé permette di visualizzare la mente, seppure in modo nebuloso. Gli aspetti del sé che ci consentono di formulare interpretazioni sulla nostra esistenza e sul mondo stanno tuttora evolvendo: di sicuro a livello culturale e, con ogni probabilità, anche a livello biologico. Le prestazioni superiori del sé, per esempio, si stanno ancora modificando attraverso ogni genere di interazione sociale e culturale, e anche grazie all’accumulo di conoscenze scientifiche sul funzionamento di mente e cervello. Di sicuro un intero secolo di cinema ha avuto un impatto sul sé degli esseri umani, così come lo sta avendo lo spettacolo delle società globalizzate oggi trasmesso dai media elettronici in tempo reale. L’impatto della rivoluzione digitale è qualcosa che stiamo cominciando ad apprezzare soltanto ora. In breve, la nostra unica possibilità di contemplare in modo diretto la mente dipende da qualcosa che fa parte di quella stessa mente: da un processo del sé che - come abbiamo buone ragioni di ritenere - non può fornire una descrizione esaustiva e attendibile degli eventi in corso.
D’acchito, dopo aver riconosciuto che il sé è il nostro punto di ingresso nella conoscenza, può sembrare paradossale, per non dire spiacevole, metterne in dubbio l’attendibilità. E d’altra parte, la situazione è questa. A eccezione della finestra che il sé apre direttamente sui nostri dolori e i nostri piaceri, le informazioni che esso fornisce devono essere poste in discussione, a maggior ragione quando riguardano la sua natura. In tutto questo, però, vi è anche un aspetto positivo: il sé ha infatti reso possibili la ragione e l’osservazione scientifica, le quali a loro volta hanno gradualmente corretto tutte le intuizioni fuorvianti incoraggiate dal sé abbandonato alle sue sole risorse.
SUPERARE UN' INTUIZIONE FUORVIANTE
Si può affermare che le culture e le civiltà non sarebbero mai comparse in assenza di coscienza, il che fa di essa un importante sviluppo nell’evoluzione biologica. La natura stessa della coscienza pone tuttavia seri problemi a chi cerca di chiarirne la biologia. Considerare la coscienza dal punto d’osservazione in cui ci troviamo oggi noi, creature dotate di mente e armate di un sé, costituisce un approccio a cui si può imputare la presenza, negli studi sulla storia della mente e della coscienza, di una distorsione preoccupante anche se comprensibile. Contemplata dall’alto, la mente acquista uno status speciale, discontinuo rispetto al resto dell’organismo cui appartiene. Vista da quella prospettiva, essa sembra non soltanto molto complessa - cosa che certamente è -, ma anche qualitativamente diversa dalle strutture e dalle funzioni biologiche dell’organismo che la possiede. In pratica, quando osserviamo noi stessi, adottiamo due ottiche diverse: vediamo la mente con occhi rivolti verso l’interno; e vediamo i tessuti biologici con occhi rivolti verso l’esterno (e come se non bastasse, ci serviamo di microscopi per estendere la nostra visione). In tali circostanze, non c’è da sorprendersi se la mente sembra possedere una natura non fisica e i suoi fenomeni paiono appartenere a un’altra categoria.
Il fatto di considerare la mente come un fenomeno non fisico e discontinuo rispetto alla biologia che la crea e la sostiene è responsabile del nostro averla collocata al di fuori delle leggi della fisica: una discriminazione, questa, alla quale gli altri fenomeni cerebrali di solito non sono soggetti. La manifestazione più impressionante di questa singolarità è il tentativo di connettere la mente cosciente a proprietà della materia non ancora descritte, come quando si cerca di spiegare la coscienza in termini di fenomeni quantici. Sembra che la base razionale di questa idea sia la seguente: poiché la mente cosciente pare misteriosa e poiché la fìsica quantistica rimane anch’essa misteriosa, forse i due misteri sono connessi.14
Considerando quanto siano incomplete le nostre conoscenze della biologia e della fìsica, occorre procedere con cautela prima di liquidare spiegazioni alternative. In fondo, pur con tutti i notevoli successi della neurobiologia, la nostra comprensione del cervello umano è decisamente lacunosa. Nondimeno, la possibilità di spiegare la mente e la coscienza adottando il principio di parsimonia, mantenendosi cioè all’interno dei confini della neurobiologia così come essa è attualmente concepita, resta aperta e non dovrebbe essere abbandonata, a meno che le risorse tecnologiche e teoriche di questa disciplina non finiscano per esaurirsi: prospettiva al momento remota.
Secondo la nostra intuizione, l’attività erratica e fugace della mente mancherebbe di un’estensione fisica.
Io credo che questa intuizione sia falsa e debba essere attribuita alle limitazioni del sé abbandonato alle sue sole risorse. Non vedo ragione alcuna per darle maggior credito di altre intuizioni, un tempo potenti e persuasive, come la visione precopernicana del comportamento del Sole nei confronti della Terra, o - per avvicinarci a temi che ci interessano - l’idea che la mente risiedesse nel cuore. Le cose non sono sempre come sembrano. La luce bianca è composta dai colori dell’arcobaleno anche se, a occhio nudo, la cosa non è affatto evidente.15
UNA PROSPETTIVA INTEGRATA
Gran parte dei progressi compiuti finora nel campo della neurobiologia della mente dotata di coscienza sono basati sulla combinazione di tre prospettive: 1) la prospettiva del testimone diretto della singola mente cosciente, la quale è personale, privata e unica per ciascuno di noi; 2) la prospettiva comportamentale, che ci consente di osservare le azioni rivelatrici di altri individui che, come abbiamo ragione di credere, sono an-ch’essi dotati di una mente cosciente; e 3) la prospettiva del cervello, che ci permette di studiare alcuni aspetti della funzione cerebrale in individui nei quali si presume l’assenza o la presenza di stati mentali coscienti. Di solito, anche se allineate con intelligenza, le informazioni raccolte avvalendosi di queste tre prospettive - l'esame introspettivo, in prima persona; i comportamenti osservabili dall’esterno; gli eventi cerebrali - non bastano a produrre una transizione senza scosse fra i tre tipi di fenomeni. In particolare, sembra esistere uno iato fondar mentale fra i dati derivanti dall’introspezione in prima persona e quelli riconducibili agli eventi cerebrali. Come possiamo colmare quésti abissi?
Occorre una quarta prospettiva, che impone di mutare radicalmente il modo di considerare e raccontare la storia della mente cosciente. In alcuni miei lavori precedenti, ho proposto di considerare la regolazione dei processi vitali quale supporto e giustificazione del sé e della coscienza, e quest’idea ha indicato una via verso una nuova prospettiva: la ricerca dei precursori del sé e della coscienza nel passato evolutivo.16 La quarta prospettiva si fonda quindi su dati attinti dalla biologia evolutiva e dalla neurobiologia. Essa ci impone di considerare dapprima gli organismi più antichi, e poi di percorrere gradualmente la storia evolutiva fino ad arrivare a quelli attuali. Richiede anche di prendere nota delle piccole modificazioni progressive che interessano il sistema nervoso, e di metterle in relazione con l’emergere - pure progressivo - del comportamento, della mente e del sé. Infine, richiede anche un’ipotesi di lavoro interna: e cioè che gli eventi mentali siano equivalenti a certi tipi di eventi cerebrali. Certo, l’attività mentale è causata da eventi cerebrali che la precedono, ma in ultima analisi gli eventi mentali corrispondono a particolari stati dei circuiti cerebrali. In altre parole, alcune configurazioni neurali sono simultaneamente immagini mentali. Quando poi alcune altre configurazioni neurali generano un soggetto del processo del sé sufficientemente ricco, ecco che le immagini possono essere conosciute. Ma quand’anche non venisse generato alcun sé, le immagini ci sarebbero ancora, sebbene nessuno - all'interno o all’esterno dell’organismo - saprebbe della loro esistenza. Non occorre la soggettività affinché gli stati mentali possano esistere, ma solo affinché se ne possa avere una conoscenza privata.
In breve, la quarta prospettiva ci chiede di costruire, in modo simultaneo e con l’aiuto dei dati disponibili, una visione dal passato e dall’interno: letteralmente, la visione immaginata di un cervello còlto mentre contiene una mente cosciente. Di certo si tratta di una prospettiva ipotetica che ha il carattere della congettura. Vi sono fatti che corroborano in parte questa immaginazione; peraltro, il fatto di dover convivere a lungo con approssimazioni teoriche invece che con spiegazioni complete è nella natura stessa del «problema mente-sé-corpo-cervello ».
Si potrebbe cedere alla tentazione di considerare l’equivalenza ipotizzata fra gli eventi mentali e alcuni eventi cerebrali come espressione di un rozzo riduzionismo che porta a semplificare ciò che è complesso. Sarebbe tuttavia una falsa impressione; infatti basta considerare che i fenomeni neurobiologici sono immensamente complessi: tutto fuorché semplici. Le riduzioni esplicative implicate qui non vanno dal complesso al sémplice, ma piuttosto dall’estremamente complesso al leggermente meno complesso. Questo libro non verte sulla biologia degli organismi semplici; i dati a cui accennerò nel capitolo 2, tuttavia, chiariscono che la vita delle cellule ha luogo in universi estremamente complessi, i quali per molti aspetti ricordano esteriormente il nostro elaborato universo umano. Il comportamento di un organismo unicellulare come un paramecio e il mondo in cui esso vive sono spettacoli meravigliosi da contemplare, e molto più vicini alla nostra essenza di quanto possa sembrare.
C’è anche la tentazione di interpretare l’equivalenza mente-cervello qui proposta come un atteggiamento che porta a trascurare il ruolo della cultura nella genesi della mente, o a sminuire l’importanza dello sforzo individuale nel dar forma alla mente. Come chiarirò nel seguito, nulla potrebbe essere più lontano dal mio approccio.
Avvalendomi della quarta prospettiva, posso ora riformulare alcune delle mie precedenti affermazioni, tenendo conto dei dati ricavati dalla biologia dell’evoluzione e includendo il cervello: per milioni di anni, infinite creature hanno avuto nel proprio cervello una mente attiva; la coscienza in senso stretto, però, emerse solo dopo che quei cervelli ebbero sviluppato un protagonista in grado di fare da testimone, e fu solo dopo che quei cervelli svilupparono il linguaggio che l’esistenza della mente divenne generalmente nota. Il testimone è quel qualcosa di extra che rivela la presenza di eventi cerebrali impliciti che noi chiamiamo «mentali». Comprendere in che modo il cervello produca quel qualcosa di extra -come generi il protagonista che ci portiamo appresso e chiamiamo sé (o me, o io) - è un obiettivo fondamentale della neurobiologia della coscienza.
IL QUADRO CONCETTUALE
Prima di tratteggiare il quadro concettuale che ispira questo libro, devo introdurre alcuni fatti fondamentali. Gli organismi generano la mente grazie all’attività di cellule speciali - i neuroni - che condividono moltissime caratteristiche con le altre cellule del nostro corpo; il loro funzionamento, tuttavia, è unico. Esse sono sensibili ai cambiamenti nell’ambiente circostante; inoltre, sono eccitabili (un’interessante proprietà che hanno in comune con le cellule muscolari). Grazie a un prolungamento fibroso (l’assone) e alla regione terminale di quest’ultimo (la sinapsi), i neuroni possono inviare, spesso a notevole distanza, i loro segnali ad altre cellule: sia ad altri neuroni, sia alle cellule muscolari. I neuroni sono in larga misura concentrati nel sistema nervoso centrale (per essere sintetici, diremo nel cervello); inviano però segnali sia al corpo dell’organismo sia al mondo esterno, e ricevono segnali da entrambi.
Il numero di neuroni in un cervello umano è nell’ordine dei miliardi, e i loro reciproci contatti sinaptici ammontano a milioni di miliardi. I neuroni sono organizzati in piccoli circuiti microscopici i quali, combinandosi, costituiscono circuiti progressivamente più estesi, che a loro volta formano reti o sistemi. Per ulteriori approfondimenti sui neuroni e sull’organizzazione cerebrale, si vedano il capitolo 2 e l’Appendice.
La mente emerge quando l’attività dei piccoli circuiti viene organizzata in grandi reti dando luogo a configurazioni temporanee, le quali rappresentano oggetti ed eventi che si trovano fuori dal cervello, nel corpo o nel mondo esterno; alcune configurazioni, però, rappresentano anche l’elaborazione, da parte del cervello, di altre configurazioni. Il termine mappa si applica a tutte queste rappresentazioni, alcune delle quali sono grossolane, mentre altre sono molto fini, alcune concrete, altre astratte. In breve, il cervello traccia delle mappe sia del mondo circostante, sia dei propri stessi processi. Nella nostra mente, quelle mappe vengono esperite come immagini, e qui il termine immagine si riferisce non solo alla modalità visiva, ma a qualsiasi canale sensoriale: uditivo, viscerale, tattile, eccetera.
Consideriamo ora il vero e proprio quadro generale. Usare il termine teoria per descrivere altrettante proposte circa il modo in cui il cervello produce questo o quel fenomeno è un po’ fuori luogo. A meno che la scala non sia sufficientemente ampia, nella maggior parte dei casi le teorie sono in realtà semplici ipotesi. Quanto viene proposto in questo libro, invece, è qualcosa di più, poiché connette diverse componenti ipotetiche riferite all’uno o all’altro aspetto dei fenomeni di cui mi occuperò. Quello che speriamo di spiegare è troppo complesso per essere affrontato con una singola ipotesi e per essere giustificato da un unico meccanismo. Per questo motivo ho deciso di utilizzare l’espressione «quadro concettuale».
Per poter rientrare in questa categoria superiore le idee presentate nei prossimi capitoli devono centrare alcuni obiettivi. Poiché noi desideriamo comprendere in che modo il cervello doti la mente di una coscienza, ed essendo palese l’impossibilità di costruire una spiegazione affrontando tutti i livelli della funzione cerebrale, il quadro generale deve specificare a quale livello si applica la spiegazione. Questo è il livello dei sistemi su grande scala, il livello in corrispondenza del quale le regioni cerebrali macroscopiche, costituite da circuiti neuronali, interagiscono con regioni simili per formare dei sistemi. Quei sistemi sono necessariamente macroscopici, tuttavia l’anatomia microscopica alla base di essi è in parte conosciuta, come pure sono in parte note le regole operative generali dei neuroni che li costituiscono. Il livello dei sistemi su grande scala può essere oggetto di ricerche condotte con numerose tecniche, vecchie e nuove. Esse comprendono, in primo luogo, la moderna versione del metodo delle lesioni (basato sullo studio di pazienti neurologici con danni cerebrali localizzati, indagati sia con tecniche di neuroimmagine strutturale, sia con tecniche cognitive neuropsicologiche sperimentali); in secondo luogo, tecniche di neuroimmagine funzionale (basate su scansioni eseguite con risonanza magnetica, tomografia a emissione di positroni, magnetoencefalografia e varie tecniche elettrofisiologiche); in terzo luogo, la registrazione neurofisiologica diretta dell’attività nauronale nel contesto delle terapie neurochirurgiche; infine, la stimolazione magnetica transcranica.
Il quadro concettuale deve stabilire un nesso fra il comportamento, la mente e gli eventi cerebrali. Nel realizzare questo secondo obiettivo, esso allinea comportamento, mente e cervello, e poiché si appoggia alla biologia evolutiva, colloca la coscienza in un contesto storico: una collocazione appropriata, considerando che gli organismi vanno incontro a trasformazioni evolutive per selezione naturale. In ciascun cervello, poi, la maturazione dei circuiti neuronali viene considerata soggetta a pressioni selettive risultanti dall’attività stessa degli organismi e dai processi di apprendimento: i repertori dei circuiti neuronali inizialmente messi a disposizione dal genoma sono quindi modificati di conseguenza.17
Il quadro concettuale indica - sulla scala del cervello in toto - la localizzazione delle regioni implicate nella creazione della mente e ipotizza in che modo alcune regioni cerebrali possano operare, di concerto per generare il sé. Esso suggerisce come un’architettura cerebrale con circuiti neuronali convergenti e divergenti abbia un ruolo nel coordinamento di ordine superiore delle immagini e sia essenziale per la costruzione del sé e di altri aspetti della funzione mentale: in particolare la memoria, l’immaginazione, il linguaggio e la creatività.
Il nostro quadro deve scindere il fenomeno della coscienza in componenti tali da poter essere ricondotte alla ricerca neuroscientìfica. Ne risultano due domini passibili di ricerca, e precisamente quello dei processi della mente e quello dei processi del sé (questi ultimi scomposti in sottotipi). Tale scomposizione comporta due vantaggi: la possibilità di presumere e studiare la coscienza in specie che probabilmente hanno processi del sé, per quanto meno complessi; e la possibilità di creare un ponte fra i livelli elevati del sé, da una parte, e lo spazio socio-culturale in cui operano gli esseri umani, dall’altra.
Un ulteriore obiettivo è quello di capire come i macroeventi del sistema siano generati a partire dai microeventi. Qui il quadro concettuale ipotizza che gli stati mentali siano equivalenti a certi stati di attività cerebrale regionale. Quando la scarica nauronale ha luogo all’interno di determinati range di intensità e frequenza in piccoli circuiti neuronali; quando alcuni di tali circuiti sono attivati simultaneamente; e quando sono soddisfatte particolari condizioni di connettività di rete, si assume che il risultato sia una «mente con sensazioni e sentimenti ». In altre parole, come conseguenza delle dimensioni crescenti e dell’aumento di complessità delle reti neurali, si ha un aumento proporzionale della « cognizione » e del « sentire », passando dal microlivello al macrolivello di un contesto gerarchico. Il modello di questo passaggio alla mente con sentimenti è rintracciabile nella fisiologia del movimento: la contrazione di una singola cellula muscolare microscopica è un fenomeno trascurabile, mentre la contrazione simultanea di un gran numero di cellule muscolari può produrre un movimento visibile.
ANTEPRIMA DELLE IDEE PRINCIPALI
I
Fra le idee proposte nel libro, nessuna è più importante di questo concetto: il corpo è un fondamento della mente dotata di coscienza. Sappiamo che gli aspetti più stabili delle funzioni corporee sono rappresentati nel cervello sotto forma di mappe, offrendo in tal modo alla mente delle immagini. Questa è la base dell’ipotesi secondo la quale le speciali immagini mentali del corpo, prodotte nelle strutture deputate alla sua mappatura, costituiscono il proto-sé, che prefigura il sé a venire. È importante notare come le strutture fondamentali che creano le mappe del corpo e le immagini siano localizzate a un livello subcorticale, precisamente in una regione nota come tronco encefalico superiore. Si tratta di una parte antica del cervello, che condividiamo con molte altre specie.
II
Un’altra idea fondamentale è basata sul fatto, costantemente trascurato, che le strutture cerebrali alla base del proto-sé non si limitano a riguardare il corpo: sono letteralmente e inestricabilmente connesse a esso. Nello specifico, sono legate alle parti del corpo che, con i loro segnali, bombardano di continuo il cervello, dal quale ricevono un altrettanto continuo bombardamento di ritorno; si crea così un circuito risonante e perpetuo, interrotto soltanto da una patologia cerebrale o dalla morte. Corpo e cervello sono legati. Per questo motivo, le strutture del proto-sé hanno una relazione diretta e privilegiata con il corpo: le immagini che esse generano e che riguardano il corpo sono concepite in circostanze diverse rispetto ad altre immagini cerebrali, per esempio quelle visive o uditive. Alla luce di tutto ciò, il corpo può essere considerato come la roccia su cui è costruito l’edificio del proto-sé, mentre quest’ultimo è il perno intorno al quale ruota la mente dotata di coscienza.
III
Io ipotizzo che il primo e il più elementare prodotto del proto-sé sia rappresentato dai sentimenti primordiali che, quando siamo svegli, hanno sempre luogo, spontaneamente e continuamente. Essi ci forniscono un’esperienza diretta del nostro corpo - un corpo che vive -senza bisogno di parole, senza abbellimenti e senza legami se non quello con la pura e semplice esistenza. Questi sentimenti primordiali riflettono lo stato corrente del corpo rispetto a varie dimensioni - per esempio lungo la scala che va dal piacere al dolore - e originano nel tronco encefalico e non a livello corticale. Tutti i sentimenti delle emozioni sono variazioni musicali complesse sul tema dei sentimenti primordiali.18
Nell’organizzazione funzionale qui tratteggiata, il dolore e il piacere sono eventi riguardanti il corpo. Essi sono anche mappati in un cervello che non è mai, in nessun istante, separato dal suo corpo. I sentimenti primordiali sono perciò un tipo speciale di immagine generato grazie all’interazione obbligata fra corpo e cervello, alle caratteristiche dei circuiti che realizzano quella connessione, e forse anche a certe proprietà dei neuroni. Non basta dire che i sentimenti sono sentiti perché mappano il corpo. Io ipotizzo che - oltre a intrattenere una relazione esclusiva con il corpo - l’apparato del tronco encefalico responsabile della produzione di quel particolare tipo di immagini che chiamiamo sentimenti sia in grado di miscelare i segnali provenienti dal corpo, creando in tal modo non mere, pedisseque mappe del corpo, ma stati complessi dotati delle proprietà, nuove e speciali, dei sentimenti. La ragione per la quale sono sentite anche immagini diverse dai sentimenti è che comunque, di norma, questi ultimi le accompagnano.
Tutto ciò implica la problematicità dell’idea di un netto confine di separazione fra corpo e cervello; suggerisce inoltre un approccio potenzialmente proficuo alla vexata quaestio riguardo al come e al perché gli stati mentali normali siano immancabilmente impregnati di una qualche forma di sentimento.
IV
Il cervello non comincia a costruire una mente cosciente a livello corticale, bensì nel tronco encefalico. I sentimenti primordiali non sono soltanto le prime immagini generate dal cervello, ma anche manifestazioni immediate della capacità di sentire. Essi sono le fonda-menta del proto-sé, in preparazione dei livelli più complessi. Tutto questo è in contrasto con posizioni ampiamente accettate, sebbene idee simili siano state difese da Jaak Panksepp (si veda più avanti) e anche da Rodolfo Llinàs. La mente cosciente, così come la conosciamo, è tuttavia qualcosa di assai diverso da quella che emerge nel tronco encefalico, e con ogni probabilità su questo punto vi è un accordo universale. La corteccia cerebrale arricchisce la genesi della mente con una profusione di immagini che - come direbbe Amleto - va ben oltre qualsiasi cosa il povero Orazio possa sognare, in cielo o in terra.
La coscienza ha inizio quando il sé affiora alla mente, ossia quando il cervello aggiunge alla miscela della mente un processo del sé, dapprima modesto, poi molto più robusto. Il sé viene costruito in passaggi distinti, sulle fondamenta del proto-sé. Il primo passo è la genesi dei sentimenti primordiali: gli elementari sentimenti di esistenza che scaturiscono spontaneamente dal proto-sé. Successivamente affiora il sé nuçleare, che riguarda l’azione: in particolare, una relazione fra l'organismo e l’oggetto. Il sé nucleare si dispiega in una sequenza di immagini che descrivono un oggetto mentre esso impegna e modifica il proto-sé (compresi i suoi sentimenti primordiali) . Infine, vi è il sé autobiografico, definito in termini di conoscenza biografica attinente sia al passato sia all’anticipazione del futuro. Le molteplici immagini che nel loro complesso definiscono una biografia generano pulsazioni del sé nucleare che, nell'insieme, costituiscono un sé autobiografico.
Il proto-sé con i suoi sentimenti primordiali rappresenta insieme al sé nucleare un «io materiale». Il sé autobiografico, le cui vette più alte abbracciano tutti gli aspetti della persona sociale, costituisce un « io sociale » e un «io spirituale». Possiamo osservare questi aspetti del sé nella nostra mente, oppure studiarne gli effetti nel comportamento altrui. Il sé nucleare e il sé autobiografico, poi, costruiscono all'interno della mente un conoscitore, un soggetto di conoscenza; in altre parole, essi dotano la nostra mente di un altro tipo di soggettività. Ai fini pratici, la coscienza umana normale corrisponde a un processo della mente in cui operano tutti questi diversi livelli del sé, offrendo a un numero limitato di contenuti mentali una temporanea connessione con una pulsazione del sé nucleare.
V
Il sé e la coscienza - a prescindere dal loro livello, solido o modesto che sia - non hanno luogo in un’unica area, regione o centro del cervello. La mente cosciente risulta dal funzionamento articolato e senza soluzione di continuità di alcuni siti cerebrali: più di uno, spesso molti. Le strutture cerebrali fondamentali deputate alla realizzazione dei necessari passaggi funzionali comprendono settori specifici del tronco encefalico superiore, un gruppo di nuclei del talamo e alcune regioni della corteccia cerebrale, specifiche ma diffuse.
Il prodotto ultimo della coscienza scaturisce allo stesso tempo da tutti quei numerosi siti cerebrali, e non da uno in particolare: proprio come l’esecuzione di un brano di musica sinfonica non scaturisce dall’impegno di un unico musicista né da quello di una sezione dell’orchestra. L’aspetto più singolare riguardo alle alte vette delle prestazioni della coscienza è la vistosa assenza, prima che l’esecuzione abbia inizio, di un direttore, il quale viene tuttavia in essere non appena l’esecuzione comincia: ora, a tutti i fini, l’orchestra è guidata da un direttore - il sé - anche se è la performance ad averlo creato, e non viceversa. Il direttore viene costruito dai sentimenti e da un dispositivo cerebrale preposto alla narrazione, benché questo non lo renda assolutamente meno reale. È innegabile che nella nostra mente il direttore esista, e non vi è nulla da guadagnare nel liquidarlo come un’illusione.
Il coordinamento da cui dipende la mente dotata di coscienza è ottenuto grazie a una molteplicità di mezzi. Al livello nucleare, più modesto, esso comincia in sordina, come uno spontaneo assemblaggio di immagini che emergono una dopo l’altra in stretta prossimità temporale: da un lato l’immagine di un oggetto, e dall’altro l’immagine del proto-sé modificato da quell’oggetto. Per l’emergere del sé nucleare, a questo livello così semplice, non occorrono ulteriori strutture cerebrali. Il co-ordinamento avviene in modo spontaneo: a volte ricorda un semplice duo musicale eseguito dall’organismo e dall’oggetto, altre volte un ensemble cameristico - in entrambi i casi, comunque, funziona benissimo senza bisogno di un direttore d’orchestra. Ma quando i contenuti elaborati nella mente sono più numerosi, il coordinamento necessita di altri dispositivi. In quel caso, numerose regioni cerebrali subcorticali e corticali assumono un ruolo d’importanza primaria.
Costruire una mente capace da un lato di abbracciare il proprio passato vissuto e il proprio futuro anticipato, e dall’altro in grado anche di riflettere e di aggiungere alla trama del tessuto le vite degli altri, è un’impresa che, nelle proporzioni, ricorda l’esecuzione di una sinfonia mahleriana. L’autentica meraviglia, però, è che la partitura e il direttore - come ho accennato prima - diventano realtà solo nel momento in cui prende vita la musica. Il coordinamento non dipende da omuncoli mitici, creature sapienti incaricate di interpretare qualcosa. Eppure, i coordinatori contribuiscono effettivamente ad . assemblare uno straordinario universo e a collocare al centro di esso un protagonista.
Quel grandioso brano sinfonico che è la coscienza comprende i contributi fondamentali del tronco encefalico, sempre legato al corpo, e il repertorio di immagini - più vasto del cielo -19 creato in cooperazione con la corteccia cerebrale e le strutture subcorticali, tutte armoniosamente unite e impegnate in un flusso incessante, interrotto soltanto dal sonno, dall’anestesia, dalla disfunzione cerebrale o dalla morte.
Non vi è un singolo meccanismo che spieghi l’emergere della coscienza nel cervello: nessun singolo dispositivo, nessuna singola regione, o caratteristica, nessun espediente - non più di quanto una sinfonia possa essere suonata da un unico musicista o da un piccolo gruppo. Occorrono molti orchestrali, invece: è importante il contributo di ciascuno di essi - ma solo l’ensemble produce il risultato che stiamo cercando di spiegare.
VI
Fra i risultati riconoscibili della coscienza vi è la capacità di gestire e salvaguardare in modo efficiente la vita e i suoi processi: i pazienti neurologici la cui coscienza è compromessa non sono in grado di gestire la propria vita in modo indipendente neanche quando le loro funzioni vitali fondamentali sono normali. E tuttavia i meccanismi per la gestione e il mantenimento dei processi vitali non sono elementi nuovi nell’evoluzione biologica, e non dipendono necessariamente dalla coscienza. Essi infatti esistono già nelle singole cellule, e sono codificati nel loro genoma; sono anche replicati all’interno di antichi, semplici circuiti neuronali - non dotati di mente, non dotati di coscienza - e sono generosamente rappresentati nel cervello umano. Vedremo che la gestione e la salva-guardia della vita è la fondamentale premessa del valore biologico, il quale ha influenzato l’evoluzione delle strutture cerebrali e influenza quasi ogni livello delle operazioni del singolo cervello. Il valore biologico si esprime in modo semplice, per esempio nella liberazione di molecole associate a ricompense e punizioni, oppure in modo più elaborato, per esempio nel caso delle nostre emozioni sociali e nel ragionamento sofisticato. Il valore biologico, per così dire, guida e caratterizza in modo naturale quasi tutto ciò che accade nel nostro cervello, dotato in modo tanto vistoso di mente e coscienza. Il valore biologico ha lo status di un principio.
In breve, la mente cosciente emerge nella storia della regolazione della vita - un processo dinamico sinteticamente indicato con il termine di omeostasi-, la quale ha inizio in creature unicellulari come i batteri o le semplici amebe, che pur non avendo un cervello sono capaci di comportamenti adattativi. Prosegue poi in individui il cui comportamento è controllato da un cervello semplice (per esempio i vermi) e continua la sua marcia negli individui il cui cervello genera sia il comportamento, sia i processi della mente (gli insetti e i pesci sono un esempio di questo livello). Sono pronto a credere che ogniqualvolta un cervello comincia a generare sentimenti primordiali - il che potrebbe aver luogo molto presto nella storia evolutiva - gli organismi acquisiscano una primordiale capacità di sentire. Da quel momento in poi può svilupparsi, ed essere aggiunto alla mente, un processo organizzato del sé e ciò fornisce il germe di una mente cosciente complessa. I rettili, per esempio, sono buoni candidati per questo privilegio - e gli uccelli sono candidati ancor più convincenti; quanto ai mammiferi, si aggiudicano il premio spingendosi anche oltre.
Nella maggior parte dei casi, le specie il cui cervello genera un sé si fermano al livello del sé nucleare. Gli esseri umani hanno tanto il sé nucleare, quanto il sé auto-biografico. È probabile che li abbiano entrambi anche alcuni altri mammiferi, per esempio i lupi, le scimmie antropomorfe nostre cugine, i mammiferi marini, gli elefanti, i felini e - naturalmente - una specie che fa storia a sé: il cane domestico.
VII
La marcia del progresso della mente non si arresta con la comparsa dei livelli più modesti del sé. Per tutta l’evoluzione dei mammiferi, in particolare dei primati, la mente diventa sempre più complessa: memoria e ragionamento si espandono notevolmente, e la portata dei processi del sé va aumentando. Sebbene persista, il sé nucleare viene a poco a poco inglobato da un sé auto-biografico la cui natura - neurale e mentale - è molto diversa. Noi acquisiamo la capacità di usare una parte dei meccanismi della nostra mente per monitorare il funzionamento delle altre sue parti. La mente cosciente degli esseri umani - armata di sé tanto complessi e sostenuta da capacità di memoria, ragionamento e linguaggio ancora più robuste - genera gli strumenti della cultura e apre la strada a nuovi mezzi di omeostasi sociale e culturale. Compiendo un salto straordinario, l’omeostasi si guadagna così un’estensione nello spazio socioculturale. I sistemi giuridici, le organizzazioni politiche ed economiche, le arti, la medicina e la tecnologia sono altrettanti esempi dei nuovi strumenti di regolazione.
Senza l’omeostasi socioculturale non avremmo assistito alla drastica riduzione della violenza e al simultaneo aumento della tolleranza, tanto evidenti negli ultimi secoli. Né vi sarebbe stata la graduale transizione dal potere coercitivo al potere della persuasione che contraddistingue - a prescindere dai loro fallimenti - i sistemi sociali e politici avanzati. L’indagine sull’omeostasi socioculturale può attingere informazioni dalla psicologia e dalle neuroscienze, ma le radici dei suoi fenomeni affondano in uno spazio culturale. Chi studia le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, le decisioni del Congresso o i meccanismi delle istituzioni finanziarie può ragionevolmente essere considerato, indirettamente, alle prese con lo studio delle stravaganze dell’omeostasi socioculturale.
Sia l’omeostasi a livello fondamentale (guidata da processi non coscienti), sia l’omeostasi socioculturale (creata e guidata da menti riflessive dotate di coscienza) operano come amministratori del valore biologico. Le varietà dell’omeostasi - a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale - sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti, perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell’omeostasi socioculturale, quell’obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continua-mente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell’omeostasi è un’eredità prefissata fornita dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L’interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell’arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni del genoma.
VIII
Considerare la mente cosciente in un’ottica evolutiva, passando da semplici forme di vita a organismi ipercomplessi come noi, aiuta a collocarla in un contesto naturale e dimostra che essa deriva da un graduale aumento di complessità nell’idioma della biologia.
Noi possiamo considerare la coscienza umana e le funzioni che essa ha reso possibili (il linguaggio, la memoria espansa, il ragionamento, la creatività, l’intero edificio della cultura) come gli amministratori del valore insito nel nostro essere creature moderne, generosamente dotate di funzioni mentali e fortemente sociali. Possiamo anche immaginare un lungo cordone ombelicale che leghi la mente cosciente, a malapena svezzata, perennemente dipendente, agli strati profondi dei regolatori del principio di valore, i quali si trovano a un livello molto elementare, senz’altro non cosciente.
La storia della coscienza non può essere raccontata nel modo convenzionale. La coscienza è venuta in essere grazie al valore biologico, come un’aggiunta in grado di contribuire a una sua più efficace gestione. Non fu la coscienza, tuttavia, a inventare il valore biologico o il processo di valutazione. Alla fine, nella mente umana, la coscienza rivelò il valore biologico e consentì lo sviluppo di nuovi modi e mezzi di gestirlo.
È ragionevole dedicare un libro alle modalità con cui il cervello crea una mente cosciente? Chiedersi se la comprensione del lavoro cerebrale alla base della mente e del sé abbia una qualsiasi rilevanza pratica, oltre a soddisfare la nostra curiosità sulla natura umana, è cosa ragionevole. Ma nella vita quotidiana tutto questo comporta una qualche differenza? Per molte ragioni, grandi e piccole, io credo di sì. La scienza che studia il cervello e le spiegazioni che essa fornisce non offrono a tutti la soddisfazione che molti ricavano dall’esperienza dell’arte o dall’esercizio della spiritualità. Vi sono tuttavia di sicuro altre gratificazioni.
Forse comprendere le circostanze in cui, nella storia della vita, è emersa la mente cosciente, e in particolare il modo in cui essa si è sviluppata nella storia umana, ci permette di giudicare in modo più saggio la qualità della conoscenza e dei consigli che quella mente ci offre. Si tratta di una conoscenza attendibile? I suoi consigli sono ragionevoli? Quando comprendiamo i meccanismi che sono alla base della mente - quella stessa mente che ci offre i suoi consigli -, guadagniamo qualcosa?
La delucidazione dei meccanismi neurali alla base della mente cosciente rivela che il nostro sé non è sempre ragionevole e non ha sempre il controllo di ogni decisione. D’altra parte, i dati di cui disponiamo ci autorizzano anche a respingere la falsa impressione che la nostra capacità di deliberare coscientemente sia un mito. Chiarire i processi mentali, consci e inconsci che siano, aumenta la possibilità di rendere più robuste le nostre capacità di pensiero. Il sé apre la strada alla speculazione e all’avventura della scienza, due strumenti specifici grazie ai quali è possibile contrastare la guida fuorviante del sé abbandonato alle sue sole risorse.
Arriverà il momento in cui la questione della responsabilità umana - sia in termini morali generali, sia sui temi della giustizia e delle sue applicazioni - prenderà in considerazione la disciplina, in evoluzione, che si occupa dello studio scientifico della coscienza. Forse quel momento è arrivato. Armata del pensiero riflessivo e degli strumenti scientifici, una comprensione della costruzione neurale della mente cosciente aggiunge una opportuna dimensione all’indagine sullo sviluppo e sulla formazione delle culture, prodotto ultimo delle collettività di menti coscienti. Mentre gli esseri umani dibattono circa i benefici o i rischi delle tendenze culturali, e su sviluppi quali la rivoluzione digitale, essere informati sul modo in cui il nostro cervello tanto flessibile crea la coscienza può essere d’aiuto. La progressiva globalizzazione della coscienza umana causata dalla rivoluzione digitale, per esempio, conserverà gli obiettivi e i princìpi dell’omeostasi fondamentale come li conserva l’attuale omeostasi socioculturale? Oppure, nel bene e nel male, essa si staccherà dal suo cordone ombelicale evolutivo?20
Ricondurre la mente cosciente alla natura radicandola saldamente nel cervello non sminuisce il ruolo della cultura nella formazione degli esseri umani, né riduce la dignità umana, e non segna nemmeno la fine del mistero e dello sconcerto. Le culture nascono ed evolvono dallo sforzo collettivo dei cervelli umani nell’arco di molte generazioni, e accade anche che, nel processo, alcune periscano. Esse richiedono cervelli già plasmati da precedenti effetti culturali. Qui non è in discussione il significato delle culture per il farsi della mente umana moderna; né la dignità di quella mente umana è sminuita dal fatto che si stabilisca una connessione fra di essa e la complessità sbalorditiva, unita alla stupefacente bellezza, delle cellule e dei tessuti viventi. Al contrario, connettere la personalità alla biologia è un’inesauribile fonte di ammirazione e rispetto per tutto ciò che è umano. Da ultimo, ricondurre la mente alla sua matrice naturale può certo risolvere un mistero, ma solo per alzare il sipario su altri enigmi che attendono silenziosamente il proprio turno.
Collocare la costruzione della mente cosciente nella storia della biologia e della cultura apre la strada alla riconciliazione fra l’umanesimo tradizionale e la scienza moderna: quando le neuroscienze esplorano l’esperienza umana addentrandosi negli strani mondi della fisiologia cerebrale e della genetica, la dignità umana non solo è conservata, ma viene anzi riaffermata.
F. Scott Fitzgerald scrisse - e sono parole memorabili: « Chi per primo inventò la coscienza commise un gran peccato ».21 Posso capire perché lo disse, ma quella condanna è solo una mezza verità, appropriata nei momenti di scoraggiamento di fronte alle imperfezioni della natura messe a nudo dalla mente cosciente. L’altra faccia della verità dovrebbe invece lasciare spazio all’orgoglio per un’innovazione che consente tutte quelle invenzioni e quelle scoperte capaci di mutare perdita e dolore in gioia e tripudio. L’emergere della coscienza aprì la strada a una vita che valeva la pena d’esser vissuta. Comprendere come sia emersa non può che rafforzare quel valore.
Sapere in che modo funziona il cervello conta qualcosa ai fini del modo in cui viviamo la nostra vita? Io credo di sì: conta, e molto; a maggior ragione se ci interessa sapere non solo chi siamo adesso, ma anche ciò che possiamo diventare.