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LA COSTRUZIONE DI UNA MENTE COSCIENTE

 

 

 

 

 

UN’IPOTESI DI LAVORO

Non occorre dire che la costruzióne di una mente cosciente è un processo di grande complessità, risultato di aggiunte e delezioni di meccanismi cerebrali avvenute nel corso di milioni di anni di evoluzione biologica: una complessità che non può trovare spiegazione in un singolo dispositivo o singolo meccanismo, quale che sia. Prima che si possa tentare una descrizione generale è necessario trattare separatamente, come esse meritano, le diverse parti del puzzle della coscienza.

Nondimeno, è utile cominciare con un’ipotesi generale, articolata in due parti. La prima stabilisce che il cervello costruisce la coscienza generando un processo del sé all’interno di una mente in stato di veglia. L’essenza del sé sta nella concentrazione della mente sull’organismo materiale in cui essa ha sede. Lo stato di veglia e la mente sono componenti indispensabili della coscienza, ma il suo elemento distintivo è il sé.

Nella sua seconda parte, l’ipotesi propone che il sé sia costruito per gradi. Lo stadio più semplice emerge dalla parte del cervello che rappresenta l’organismo (il proto-sé) ; essa consiste di un insieme di immagini che descrivono aspetti relativamente stabili del corpo e generano sentimenti spontanei (sentimenti primordiali) riferiti al corpo vivente. Il secondo stadio risulta dall’instaurarsi di una relazione fra l' organismo (rappresentato dal pratose) e qualsiasi parte del cervello rappresenti un oggetto-da-conoscere. Il risultato è il sé nucleare. Il terzo stadio, infine, consente l'interazione con il proto-sé di molteplici oggetti-precedentemente registrati come esperienza vissuta o come futuro anticipato - e genera abbondanti pulsazioni del sé nucleare: il risultato è il sé autobiografico. Tutti e tre gli stadi sono costruiti in spazi di lavoro cerebrali distinti ma coordinati: si tratta degli spazi delle im-

PRIMO STADIO: IL PROTO-SÉ

Il proto-sé è una descrizione neurale di aspetti relativamente stabili dell'organismo.

Il prodotto principale del proto-sé consiste nei sentimenti spontanei del corpo che vive (sentimenti primordiali).

 

SECONDO STADIO: IL SÉ NUCLEARE

Quando il proto-sé viene modificato dall’interazione fra l’organismo e un oggetto e quando, di conseguenza, le immagini dell’oggetto vengono anch’esse modificate, si genera una pulsazione del sé nucleare.

Le immagini modificate dell’oggetto e dell’organismo sono temporaneamente legate in una configurazione coerente.

La relazione fra l’organismo e l’oggetto è descritta in una sequenza narrativa di immagini, alcune delle quali sono sentimenti.

 

TERZO STADIO: IL SÉ AUTOBIOGRAFICO

Il sé autobiografico affiora quando gli oggetti presenti nella biografia generano pulsazioni del sé nucleare che sono poi temporaneamente collegate in una configurazione coerente su grande scala.

 

Tabella 8.1 I tre stadi del sé.

magini, l’arena in cui sia la percezione in corso, sia le disposizioni contenute nelle regioni di convergenza-divergenza esercitano la loro influenza.

 

 

Per fornire uno scenario, e prima di presentare i diversi meccanismi ipotetici necessari affinché l’ipotesi di lavoro generale possa trovare attuazione, diciamo che da un punto di vista evolutivo il processo del sé cominciò a manifestarsi solo dopo che la mente e lo stato di vigilanza si erano consolidate come operazioni del cervello. I processi del sé si rivelarono efficaci soprattutto per orientare la mente verso le esigenze omeostatiche dell’organismo, organizzandola in tal senso e aumentando così le probabilità di sopravvivenza. Non sorprende dunque che i processi del sé siano stati favoriti dalla selezione naturale e si siano affermati nell’evoluzione; probabilmente, nei primissimi stadi, non generarono una coscienza nel senso pieno del termine e rimasero confinati al livello del proto-sé. Negli stadi successivi dell’évoluzione, livelli più complessi del sé - a partire da quello nucleare -cominciarono a generare la soggettività all’interno della mente e a soddisfare i requisiti della coscienza. In seguito, furono impiegati edifici ancor più complessi per ottenere e accumulare ulteriori conoscenze circa i singoli organismi e il loro ambiente. La conoscenza veniva depositata sia in memorie interne al cervello, nelle regioni di convergenza-divergenza, sia in memorie registrate esternamente, negli strumenti della cultura. La coscienza nel senso più pieno del termine emerse dopo che questa conoscenza venne categorizzata, simbolizzata in varie forme (compreso il linguaggio ricorsivo) e manipolata dall’immaginazione e dal ragionamento.

Sono opportune, qui, altre due precisazioni. In primo luogo, i livelli distinti di elaborazione - la mente, la mente cosciente e la mente cosciente capace di produrre cultura - emersero in sequenza. Questo tuttavia non dovrebbe dare l’impressione che, una volta acquisito il sé, la mente abbia smesso di evolvere come tale, né che abbia smesso di evolvere il sé. Al contrario, il processo evolutivo proseguì, e prosegue tuttora, semmai arricchito e accelerato dalle pressioni create dalla conoscenza di se stessi, e non se ne scorge la fine. L’attuale rivoluzione digitale, la globalizzazione dell'informazione culturale e l’inizio dell’èra dell’empatia sono pressioni che probabilmente porteranno a modificazioni strutturali della mente e del sé (ovvero modificazioni di quegli stessi processi cerebrali che plasmano entrambi).

In secondo luogo, d’ora in avanti, affronteremo il problema della costruzione di una mente cosciente dalla prospettiva della specie umana, benché ogniqualvolta sarà possibile e appropriato faremo riferimento anche ad altre specie.

 

 

L’APPROCCIO AL CERVELLO COSCIENTE

L’approccio agli aspetti neuroscientifici della coscienza ha spesso luogo non dal sé ma dalla componente della mente.1 La decisione di accostarsi invece alla coscienza attraverso il sé non vuole sminuire, e meno che mai trascurare, la complessità e la portata della mente come tale. D’altra parte, riconoscere il massimo rilievo al processo del sé è coerente con la prospettiva che abbiamo adottato fin dall’inizio, secondo la quale, se la mente cosciente si affermò nell’evoluzione, è perché ottimizzò la regolazione dei processi vitali. In ogni mente cosciente, il sé è il primo rappresentante dei meccanismi individuali di regolazione della vita, il guardiano e l’amministratore del valore biologico. L’immensa complessità cognitiva che caratterizza l’attuale mente cosciente degli esseri umani è in larga misura motivata e orchestrata dal sé come un sostituto del valore.

Quali che siano le preferenze di studio di ciascuno riguardo alla triade costituita da stato di veglia, mente e sé, è chiaro che il mistero della coscienza non risiede nel primo. Anzi, sugli aspetti neuroanatomici e neurofisiologici alla base del processo di veglia disponiamo di conoscenze considerevoli, e forse non è una coincidenza che la storia della ricerca su cervello e coscienza sia iniziata proprio muovendo dallo stato di veglia.2

La seconda componente nella triade della coscienza è la mente, e anche per quanto riguarda la sua base neurale non brancoliamo nel buio: come abbiamo visto nel capitolo 3, sebbene rimangano molti interrogativi, qualche progresso l’abbiamo fatto. Resta dunque il terzo, fondamentale componente della triade, il sé, il cui studio è spesso rimandato con la motivazione che è troppo complicato da affrontare, visto lo stadio attuale delle nostre conoscenze. In larga misura, questo capitolo e il prossimo trattano del sé e offrono una descrizione generale dei meccanismi per crearlo e inserirlo nella ménte in stato di veglia. L’obiettivo è di identificare le strutture e i meccanismi neurali forse in grado di generare i processi del sé, i quali spaziano dal tipo più semplice, che orienta il comportamento in modo adattativo, alla varietà complessa in grado di conoscere l’esistenza del proprio organismo e di guidarne quindi la vita.

 

 

UN’ANTEPRIMA DELLA MENTE COSCIENTE

Tra i molti livelli del sé, il più complesso tende a toglierci la visuale su quelli più semplici, dominando la nostra mente con un’esuberante esibizione di conoscenza. Noi, però, possiamo cercare di ovviare a questo naturale offuscamento, facendo buon uso di tutta questa complessità. In che modo? Chiedendo ai livelli complessi del sé di osservare che cosa accade ai livelli più semplici. Questo è un esercizio difficile, non scevro da rischi. L’introspezione, come abbiamo visto, può fornire informazioni fuorvianti. Tuttavia, vale senz’altro la pena di correre il rischio, poiché essa ci offre l’unica possibilità di avere una visuale diretta di ciò che desideriamo spiegare. Se poi l'informazione che raccoglieremo dovesse portarci a formulare ipotesi difettose, le future verifiche empiriche ne riveleranno la fallacia. Vi è inoltre un aspetto intrigante: emerge infatti che impegnarsi nell’introspezione è una sorta di traduzione, all’interno della mente, di un processo che il cervello nella sua complessità ha intrapreso da lungo tempo nel corso dell’evoluzione: parlare a se stesso, sia letteralmente, sia nel linguaggio dell’attività nauronale.

Guardiamo allora nella nostra mente cosciente e cerchiamo di osservarla, di vedere come essa è, alla base delle sue numerose stratificazioni, spogliate del fardello dell’identità, del passato vissuto e del futuro anticipato: la mente cosciente, qui e ora. Naturalmente non posso parlare per tutti, ma ecco quanto emerge dalla mia ricognizione. Tanto per cominciare, alla base, la semplice mente cosciente non è diversa da quello che William James descrive come un fiume che scorre trascinando con sé degli oggetti, i quali, però, non hanno tutti la stessa rilevanza. Alcuni sono come ingranditi, altri no. Essi, inoltre, non sono disposti tutti allo stesso modo rispetto a me: alcuni sono collocati in una certa prospettiva nei confronti di un «me materiale» che, per buona parte del tempo, io posso addirittura localizzare non soltanto nel mio corpo ma, più precisamente, in una porzione di spazio dietro agli occhi e fra le orecchie. Fatto ugualmente notevole, alcuni oggetti - sebbene non tutti - sono accompagnati da un sentimento che li connette in modo inequivocabile al mio corpo e alla mia mente. Questo sentimento mi dice, senza che venga pronunciata una sola parola, che io possiedo gli oggetti, per tutto il tempo, e che se voglio posso agire su di essi. Questo è, letteralmente, «sentire ciò che accade»,3 il sentire legato all’oggetto, del quale ho scritto in passato. Sulla materia dei sentimenti nella mente, tuttavia, devo aggiungere qualcosa: sentire ciò che accade non è tutto. Vi è un sentire più profondo che va intuito e poi scoperto nei recessi della mente cosciente. È il sentire che il mio corpo esiste ed è presente, indipendentemente da qualsiasi oggetto con cui interagisca: affermazione - solida come la roccia, e senza parole - del fatto che io sono vivo. Nei miei precedenti approcci al problema non avevo ritenuto necessario soffermarmi su questo sentimento fonda-mentale, che ora introduco invece come un elemento essenziale del processo del sé. L’ho denominato sentimento primordiale, e voglio osservare che esso ha una qualità definita, una valenza, che si colloca da qualche parte lungo il continuum che va dal piacere al dolore. È la radice alla base di tutti i sentimenti delle emozioni e pertanto il fondamento di tutti i sentimenti causati dalle interazioni fra gli oggetti e l’organismo. Come vedremo, i sentimenti primordiali sono generati dal proto-sé.4

In breve, immergendomi nelle profondità della mente cosciente, scopro che essa è un insieme composito di immagini differenti. Alcune di quelle immagini descrivono gli oggetti presenti nella coscienza. Altre descrivono me, e quel me comprende: 1) la prospettiva  in cui gli oggetti sono mappati (il fatto che la mia mente abbia una postazione dalla quale vede, tocca, ode, eccetera, e che quella postazione sia il mio corpo) ; 2) il sentimento che gli oggetti sono rappresentati in una mente appartenente a me e a nessun altro (proprietà); 3) il sentimento del mio avere facoltà di agire nei confronti degli oggetti e che le azioni eseguite dal mio corpo sono comandate dalla mia mente; e 4) i sentimenti primordiali, i quali indicano l’esistenza del mio corpo, che è vivo, indipendentemente dal modo in cui gli oggetti interagiscono (o non interagiscono) con esso.

Il complesso degli elementi da 1 a 4 costituisce un sé nella sua versione più semplice. Quando le immagini del complesso del sé sono raccolte insieme a quelle di oggetti diversi dal sé, il risultato è una mente dotata di coscienza.

Tutta questa conoscenza è facilmente disponibile. Per arrivare a essa, non occorre l’inferenza o l’interpretazione frutto di ragionamento; e non è nemmeno in forma verbale. È fatta di suggerimenti e impressioni, di sentimenti in relazione al corpo che vive e in relazione a un oggetto.

Il semplice sé che sta alla base della mente ha moltissimo in comune con la musica, ma non è ancora poesia.

 

 

GLI INGREDIENTI DI UNA MENTE COSCIENTE

Gli ingredienti fondamentali per la costruzione della mente cosciente sono lo stato di veglia e le immagini. Per quanto riguarda il primo, sappiamo che dipende dal funzionamento di certi nuclei localizzati nel tegmento del tronco encefalico e nell’ipotalamo. Servendosi tanto di vie neurali quanto di vie chimiche, questi nuclei esercitano la loro influenza sulla corteccia cerebrale. La vigilanza viene quindi attenuata (producendo il sonno) oppure amplificata (producendo lo stato di veglia). Sebbene alcuni nuclei del tronco encefalico influenzino la corteccia cerebrale in modo diretto, in generale la loro funzione è coadiuvata dal talamo; quanto ai nuclei ipotalamici, essi operano in larga misura liberando sostanze chimiche che successivamente agiscono sui circuiti neurali alterandone il comportamento.

Il delicato equilibrio che caratterizza lo stato di veglia dipende dalla stretta interazione fra ipotalamo, tronco encefalico e corteccia cerebrale. La funzione dell’ipotalamo è intimamente legata alla quantità di luce disponibile: questa è la componente del processo di véglia la cui disorganizzazione è responsabile del jetlag che ci colpisce quando attraversiamo diversi fusi orari viaggiando in aeroplano. A sua volta, questa funzione è strettamente associata alle modalità di secrezione ormonale, in parte legate ai cicli giorno-notte. I nuclei ipotalamici controllano il funzionamento delle ghiandole endocrine (ipofisi, tiroide, surrenali, pancreas, testicoli e ovaie) in tutto l’organismo.5

La componente del processo di veglia che fa capo al tronco encefalico ha a che fare con il valore naturale di ciascuna situazione in atto. Il tronco encefalico risponde, in modo spontaneo e non cosciente, a domande che nessuno pone; per esempio, quanto dovrebbe contare la situazione per l’osservatore? Il valore determina non solo il segnale e l’intensità delle risposte emozionali a una situazione, ma anche in quale misura saremo svegli e in stato di allerta. La noia compromette lo stato di veglia, e altrettanto avviene in corrispondenza di certi livelli di alcuni parametri metabolici. Sappiamo bene che cosa accade durante la digestione di un pasto abbondante, soprattutto se contenente sostanze chimiche come il triptofano, liberato dalle carni rosse. L’alcol inizialmente esalta lo stato di veglia, ma in seguito, non appena i suoi livelli ematici aumentano, induce sonnolenza. Gli anestetici sospendono completamente lo stato di veglia.

Un’ultima nota precauzionale: il settore del tronco encefalico coinvolto nella regolazione dello stato di veglia è distinto, in termini neuroanatomici e neurofisiologici, da quello che genera le fondaménta del sé, ovvero il proto-sé, discusso nella prossima sezione. Se nel tronco encefalico i nuclei preposti allo stato di veglia e quelli che generano il proto-sé sono anatomicamente vicini è per un’ottima ragione: entrambi i gruppi partecipano infatti alla regolazione dei processi vitali, benché in modo diverso.6

 

 

Sulla questione delle immagini, può sembrare che già sappiamo quello che occorre sapere, giacché ne abbiamo discusso la base neurale nei capitoli dal 3 al 6; è necessario tuttavia dire di più. Nella mente cosciente le immagini sono di certo la fonte degli oggetti-da-conoscere, indipendentemente dal fatto che questi ultimi facciano parte del mondo esterno o si trovino all'interno del corpo (per esempio, un gomito indolenzito o un dito che ci siamo inavvertitamente scottati). Le immagini possono essere ricondotte a tutte le modalità sensoriali - non solo a quella visiva - e riguardano qualsiasi oggetto o azione elaborati nel cervello, realmente presenti o richiamati, concreti o astratti. Questa definizione copre tutte le configurazioni che hanno origine fuori dal cervello, all’interno come all’esterno del corpo; copre anche configurazioni generate all’interno del cervello in seguito all’unione di altre configurazioni. In effetti la famelica dipendenza mostrata dal cervello nei confronti della creazione di mappe lo induce a rappresentare anche le sue stesse operazioni: ancora una volta, parla a se stesso. Le mappe delle operazioni cerebrali sono probabilmente la fonte principale delle immagini astratte che descrivono, relativamente agli oggetti, la collocazione spaziale e il movimento, le relazioni reciproche, la velocità e la traiettoria (nel caso in cui siano in movimento), nonché le modalità con cui si presentano nel tempo e nello spazio. Tali immagini possono essere convertite in formule matematiche, ma anche in composizioni ed esecuzioni musicali. Matematici e musicisti eccellono nel creare immagini di questo genere.

L’ipotesi di lavoro avanzata in precedenza propone che le menti coscienti affiorino dall’instaurarsi di una relazione fra l' organismo e un oggetto-da-conoscere. Ma come vengono rappresentati, nel cervello, l’organismo, l’oggetto e la relazione? Tutte e tre le componenti sono costituite da immagini. L’oggetto da conoscere è mappato come immagine, e lo stesso vale per l’organismo, anche se nel suo caso le immagini sono speciali. Per quanto riguarda poi la conoscenza che costituisce uno stato del sé e che permette l’emergere della soggettività, anch’essa è fatta di immagini. L’intero tessuto di una mente cosciente è creato a partire dalla stessa materia: le immagini generate grazie alla capacità del cervello di tracciare mappe.

Anche se tutti gli aspetti della coscienza sono costruiti a partire dalle immagini, queste ultime non nascono tutte uguali in termini di origine neurale o di caratteristiche fisiologiche (si veda tab. 3.1 a p. 103). Le immagini usate per descrivere la maggior parte degli oggetti-da-conoscere sono convenzionali, nel senso che risultano dalle operazioni di mappatura che abbiamo discusso per i sensi esterni. Le immagini che rappresentano l’organismo, invece, costituiscono una classe particolare: esse originano all’interno del corpo e rappresentano aspetti del corpo stesso in azione. Hanno uno status speciale e un effètto speciale: sono sentite, in modo spontaneo e naturale, fin dal principio, prima di qualsiasi altra operazione coinvolta nella costruzione della coscienza. Sono immagini sentite del corpo, sentimenti corporei primordiali, precursori di tutti gli altri sentimenti, compresi i sentimenti delle emozioni. Come vedremo in seguito, le immagini che descrivono la relazione fra l’organismo e l’oggetto attingono da entrambi i tipi di immagine: le immagini sensoriali convenzionali e le variazioni sul tema dei sentimenti corporei.

Infine, tutte le immagini hanno luogo in uno spazio di lavoro composito, formato da regioni distinte delle cortecce cerebrali sensoriali di ordine inferiore, e, nel caso dei sentimenti, da regioni particolari del tronco encefalico. Questo spazio delle immagini è controllato da un certo numero di siti corticali e subcorticali, i cui circuiti contengono la conoscenza disposizionale registrata in forma latente nell’architettura neurale delle zone di convergenza-divergenza discusse nel capitolo 6. Le regioni possono operare in modo conscio oppure no, ma nell’uno e nell’altro caso lo fanno esattamente all’interno dei medesimi substrati neurali. Nelle regioni coinvolte, la differenza fra le modalità di operazione cosciente e non cosciente dipende dal grado di veglia e dal livello di elaborazione del sé.

In termini di realizzazione neurale, il concetto di spazio delle immagini qui proposto differisce considerevolmente dalle idee rintracciabili nelle opere di Bernard Baars, Stanislas Dehaene e Jean-Pierre Changeux. Baars è stato il primo a parlare di spazio di lavoro globale, in termini puramente psicologici, per richiamare l’attenzione sull’intenso scambio di comunicazioni fra le diverse componenti del processo della mente. Dehaene e Changeux sono giunti a servirsi dello stesso concetto, in termini neuronali, per riferirsi all’attività neurale altamente distribuita e interconnessa che necessariamente è alla base della coscienza. In termini cerebrali, essi si concentrano sulla corteccia cerebrale intesa come provider di contenuti della coscienza e privilegiano le cortecce associative, in particolare la corteccia prefrontale, come elemento necessario per l’accesso a quei contenuti. Anche Baars, in opere successive, ha messo il concetto di spazio di lavoro globale al servizio dell’ accesso ai contenuti della coscienza.

Da parte mia, mi concentro sulle regioni che producono le immagini, lo scenario in cui effettivamente recitano le marionette. I fili e chi li manovra sono fuori dallo spazio delle immagini, nello spazio disposizionale localizzato nelle cortecce associative dei lobi frontali, temporali e parietali. Questa prospettiva è compatibile con i risultati degli studi di neuroimmagine e di elettrofisiologia che descrivono il comportamento di quei due settori distinti (lo spazio delle immagini e quello delle disposizioni) in relazione alle immagini coscienti e non coscienti, come il lavoro di Nikos Logothetis o di Giulio Tononi sulla rivalità binoculare, o quello di Stanislas Dehaene e Liones Naccache sull’elaborazione verbale. Gli stati coscienti richiedono un impegno sensoriale precoce insieme al coinvolgimento delle cortecce associative, perché, per come la vedo io, è lì che viene organizzato lo spettacolo delle marionette.7 Io credo che, rispetto all’approccio dello spazio di lavoro nauronale globale, la mia descrizione del problema sia complementare e non conflittuale.

 

 

IL PROTO SÉ

Il proto-sé è il passaggio intermedio necessario per la costruzione del sé nucleare. Esso è un insieme integrato dì configurazioni neurali separate che mappano, istante per istante, gli aspetti più stabili della strutturafisica dell’organismo. Le mappe del proto-sé sono caratteristiche in quanto non generano mere immagini del corpo, ma immagini del corpo che sono sentite. Questi sentimenti primordiali del corpo sono spontaneamente presenti nel cervello normale in stato di veglia.

Al proto-sé contribuiscono mappe master enterocettive, mappe master dell’organismo e mappe dei portali sensoriali orientati verso l’esterno. Da un punto di vista anatomico, queste mappe sono generate sia dal tronco encefalico, sia dalle regioni corticali. Lo stato fondamentale del proto-sé è una media delle sue componenti enterocettive e delle sue componenti legate ai portali sensoriali. L’integrazione di tutte queste diverse mappe, spazialmente distribuite, ha luogo mediante segnalazione incrociata all'interno della medesima finestra temporale. Essa non richiede un unico sito cerebrale in cui le diverse componenti siano rimappate. Consideriamo ora individualmente i diversi tipi di mappa che contribuiscono al proto-sé.

 

 

Mappe master enterocettive

 

Sono le mappe e le immagini i cui contenuti vengono assemblati a partire dai segnali enterocettivi provenienti dal milieu interno e dai visceri. I segnali enterocettivi informano in tempo reale il sistema nervoso centrale circa lo stato dell’organismo: questo può variare da ottimale o normale a problematico, quando l’integrità di un organo o di un tessuto è stata violata e il corpo ha subito un danno. (Mi sto riferendo qui ai segnali nocicettivi, alla base delle sensazioni di dolore). I segnali enterocettivi indicano la necessità di correzioni fisiologiche, necessità che si materializza nella nostra mente, per esempio, con le sensazioni di fame e di sete. Tutti i segnali che riguardano la temperatura, insieme alla miriade di parametri concernenti il milieu interno, rientrano in questa categoria. Infine, i segnali enterocettivi prendono parte alla creazione di stati edonici e alle corrispondenti sensazioni di piacere.

In ogni dato momento, un sottoinsieme di questi segnali, assemblati e modificati in certi nuclei del tronco encefalico superiore, genera i sentimenti primordiali. Per i segnali provenienti dal corpo e diretti alla corteccia cerebrale il tronco encefalico non è una mera stazione di transito. È invece una stazione decisionale, in grado di avvertire i cambiamenti e di rispondere in modo predeterminato e tuttavia modulato a quello stesso livello. Il funzionamento di quell’apparato decisorio contribuisce alla costruzione dei sentimenti primordiali, così che essi siano qualcosa più di semplici «ritratti» del corpo,

 

tab. 8.2

Tabella 8.2 Le principali componenti del proto-sé.

più elaborati di semplici mappe. I sentimenti primordiali sono prodotti collaterali della particolare organizzazione dei nuclei del tronco encefalico e del loro inscindibile legame con il corpo. Le caratteristiche funzionali dei particolari neuroni implicati nell’operazione danno forse anch’esse un loro contributo.

I sentimenti primordiali precedono tutti gli altri: si riferiscono in modo specifico ed esclusivo al corpo - il corpo vivo, connesso al suo specifico tronco encefalico. Tutti i sentimenti delle emozioni e tutti i sentimenti causati dall’interazione degli oggetti con l’organismo sono variazioni dei sentimenti primordiali in corso. I sentimenti primordiali e le loro variazioni emozionali generano un coro che accompagna tutte le altre immagini mentre scorrono nella mente.

L’importanza del sistema enterocettivo ai fini della comprensione della mente cosciente non sarà mai sotto-lineata abbastanza. I processi che hanno luogo in questo sistema sono in larga misura indipendenti dalle dimensioni delle strutture in cui si manifestano e costituiscono un tipo di input speciale, presente fin dai primi stadi dello sviluppo e durante tutta l’infanzia e l’adolescenza. In altre parole, l’enterocezione rappresenta un’utile fonte della relativa invarianza necessaria a stabilire una sorta di stabile impalcatura per quello che, alla fine, costituirà il sé.

II    tema dell'invarianza relativa è fondamentale perché il sé è un processo singolare e noi dobbiamo identificare un mezzo biologico plausibile per dare fondamento a quella singolarità. Stando alle apparenze, dovrebbe essere il corpo dell’organismo, nella sua unicità, a fornire quella tanto necessaria singolarità biologica. Noi viviamo in un unico corpo, non in due (una verità che non è smentita neppure dai gemelli siamesi), e abbiamo un’unica mente associata a quel corpo, e un unico sé associato a entrambi. (L’esistenza di sé multipli e quella di personalità multiple non costituiscono stati normali della mente). D’altra parte, la piattaforma alla base della singolarità non può corrispondere all’ intero corpo, perché quest’ultimo nel suo complesso esegue di continuo azioni diverse e modifica di conseguenza la propria forma (per non parlare del fatto che dalla nascita all’età adulta cresce di dimensioni). La piattaforma della singolarità deve essere cercata altrove, in una parte del corpo che si trova all’interno del corpo stesso, e non nel corpo inteso come unità. Essa deve corrispondere ai settori del corpo che cambiano di meno o che non cambiano affatto. Il milieu interno, e i suoi numerosi parametri viscerali costituiscono a ogni età e nell’arco di tutta la vita gli aspetti più invarianti dell’organismo: non perché non vadano incontro a cambiamenti, ma perché il loro funzionamento richiede che la variazione abbia luogo soltanto all’interno di un intervallo estremamente ristretto. Le ossa crescono durante il periodo dello sviluppo, e altrettanto fanno i muscoli che le muovono; per contro, l’essenza del bagno chimico in cui ha luogo la vita - l’intervallo medio in cui ricadono i suoi vari parametri - è approssimativamente la stessa, a prescindere dal fatto che l’individuo abbia tre, cinquanta o ottanta anni. Inoltre, con ogni probabilità, l’essenza biologica di uno stato di paura o di felicità è la stessa - in termini di costruzione di tali stati a partire dalle variabili chimiche del milieu interno e dallo stato di contrazione o rilasciamento della muscolatura liscia dei visceri - sia per individui alti sessanta centimetri, sia per individui che ne misurano centottanta. Vale la pena di notare che nell’arco della vita le cause di uno stato di paura o di felicità, ovvero i pensieri che causano quegli stati, possono essere del tutto diverse, ma il profilo della reazione emozionale prodotta da quelle cause non lo è affatto.

 

 

Dove opera il sistema delle mappe master enterocettive? Grazie a ricerche che hanno spaziato da registrazióni fisiologiche a livello cellulare e studi di neuroanatomia sperimentale negli animali per arrivare a studi di neuroimmagine funzionale condotti negli esseri umani, negli ultimi dieci anni le risposte a questa domanda si sono fatte sempre più articolate. Il risultato di queste ricerche (discusso nel capitolo 4) è una conoscenza insolitamente dettagliata delle vie che portano tali segnali al sistema nervoso centrale.8 I segnali neurali e chimici che descrivono gli stati del corpo entrano nel sistema nervoso centrale in corrispondenza di vari livelli del midollo spinale, del nucleo del trigemino (nel tronco encefalico) e di un particolare gruppo di neuroni che si trovano nei pressi dei ventricoli cerebrali. Da tutti questi punti d’ingresso, i segnali sono ritrasmessi ai principali nuclei integrativi del tronco encefalico - i più importanti dei quali sono il nucleo del tratto solitario e il nucleo parabrachiale - e all’ipotalamo. Da qui, dopo essere stati elaborati localmente e usati per regolare i processi vitali e generare i sentimenti primordiali, essi sono trasmessi anche al settore che più chiaramente è associato all’enterocezione, ovvero la corteccia dell’insula, dopo un’opportuna fermata nei nuclei di relè talamici. Nonostante l’importanza della componente corticale di questo sistema, ritengo che la componente costituita dal tronco encefalico sia fondamentale per il processo del sé. Come ho specificato nell’ipotesi, essa può fornire un proto-sé operativo, anche quando la componente corticale è estesamente compromessa.

 

 

Mappe master dell’organismo

 

Le mappe master dell’organismo descrivono uno schema del corpo intero con le sue principali componenti - testa, tronco e arti - in stato di riposo. I movimenti sono poi tracciati rispetto a esse. A differenza di quelle enterocettive, le mappe master dell’organismo cambiano in modo radicale durante lo sviluppo perché ritraggono il sistema muscoloscheletrico e i suoi movimenti. Necessariamente, queste mappe seguono l’aumento sia delle dimensioni corporee, sia della portata e della qualità del movimento. Anche se alla fine viene raggiunta una certa stabilità temporanea non è concepibile che queste mappe possano essere le medesime in un bambino che comincia a camminare, in un adolescente o in un adulto. Di conseguenza, le mappe master dell’organismo non sono la fonte ideale della singolarità necessaria per costituire il proto-sé.

Il sistema delle mappe master enterocettive deve essere accolto nel quadro generale creato dallo schema delle mappe master dell’organismo, in ogni fase dello sviluppo di quest’ultimo. Una descrizione schematica raffigurerebbe il sistema enterocettivo internamente al perimetro del quadro generale delle mappe master dell’organismo; si tratta tuttavia di due cose distinte. Il fatto che un sistema trovi posto all'interno dell’altro non implica un effettivo trasferimento delle mappe ma piuttosto un coordinamento, così che entrambi gli insiemi di mappe possano essere evocati simultaneamente. La mappatura di una specifica regione all’interno del corpo, per esempio, sarebbe segnalata al settore del quadro generale dell’organismo in cui essa meglio si colloca nello schema anatomico generale. Quando abbiamo un senso di nausea, spesso lo percepiamo in relazione a una regione del corpo - lo stomaco, per esempio. Nonostante la sua vaghézza, questa mappa enterocettiva viene inserita nella mappa generale dell’organismo.

 

 

Mappe dei portali sensoriali orientati verso l’esterno

 

Nel capitolo 4 ho fatto indirettamente riferimento ai portali sensoriali descrivendo la «montatura» in cui sono incastonate, come brillanti, le sonde sensoriali; qui li colloco al servizio del sé. La rappresentazione dei vari portali sensoriali presenti nel corpo - per esempio le regioni in cui sono contenuti gli occhi, le orecchie, la lingua e il naso - è un caso speciale e distinto di mappa master dell’organismo. Io immagino che le mappe dei portali sensoriali « entrino » nel quadro delle mappe master dell’organismo proprio come deve farlo il sistema delle mappe enterocettive, per mezzo di una coordinazione temporale, più che attraverso un reale trasferimento delle mappe. Dove esattamente si trovino alcune di tali mappe è al momento materia di indagine.

Le mappe dei portali sensoriali hanno un duplice ruolo, dapprima nella costruzione della prospettiva (una caratteristica fondamentale della coscienza) e poi nella costruzione degli aspetti qualitativi della mente. Uno dei lati curiosi della nostra consapevolezza di un oggetto è la finissima relazione che stabiliamo fra i contenuti mentali che lo descrivono e quelli che corrispondono alla parte del corpo impegnata nella sua percezione. Non soltanto noi sappiamo di vedere con gli occhi: sentiamo anche noi stessi mentre vediamo con i nostri occhi. Sappiamo che udiamo con le orecchie, e non con gli occhi o con il naso. Sentiamo effettivamente i suoni nell’orecchio esterno e sulla membrana timpanica. Tocchiamo con le dita e annusiamo con il naso: di primo acchito può suonare banale, ma non lo è affatto. Noi abbiamo tutta questa conoscenza circa la « localizzazione degli organi di senso » fin dalla più tenera età, probabilmente prima di scoprirla per inferenza, collegando una certa percezione a un particolare movimento: forse addirittura prima che innumerevoli canzoncine e filastrocche ci insegnino, a scuola, dove i sensi ricavino le loro informazioni. Nondimeno, si tratta di uno strano tipo di conoscenza. Consideriamo che le immagini visive provengono dai neuroni della retina, i quali si ritiene non abbiano nulla da dire sul settore del corpo in cui la retina è localizzata, e cioè all’interno del globo oculare, a sua volta alloggiato nell’orbita, in una parte ben precisa della faccia. Come abbiamo fatto a scoprire che la retina si trova dove si trova? Naturalmente, un bambino noterà che quando tiene gli occhi chiusi non vede più nulla, e che mettendo le mani sulle orecchie sente meno bene. Ma il punto non è questo. Il punto è che noi « sentiamo » il suono entrare nelle orecchie, e «sentiamo» che ci guardiamo intorno e vediamo con gli occhi. Di fronte a uno specchio, un bambino troverà conferma di conoscenze che avrà già acquisito grazie alle informazioni aggiuntive che originano da strutture del corpo « intorno » alla retina. L’insieme di quelle strutture costituisce ciò che io chiamo un portale sensoriale. Nel caso della vista, il portale comprende non soltanto i muscoli oculari con i quali muoviamo gli occhi, ma anche tutto l’apparato con cui mettiamo a fuoco un oggetto regolando le dimensioni del cristallino; l’apparato di regolazione dell’intensità luminosa che riduce o aumenta il diametro della pupilla (il diaframma dell’occhio); e, infine, i muscoli intorno all’occhio, quelli con cui possiamo assumere un’aria accigliata, ammiccare, o esprimere allegria. I movimenti oculari e l’ammiccamento hanno un ruolo fondamentale nel montaggio delle immagini visive che si formano nell’occhio, e hanno una funzione importante anche nel montaggio efficace e realistico delle immagini cinematografiche.

Vedere è qualcosa di più che ottenere la giusta configurazione di luce sulla retina: l’azione del vedere comprende tutta una serie di co-risposte, alcune delle quali sono indispensabili per generare sulla retina una configurazione chiara, elitre sono abituali correlati del processo del vedere, e altre ancora rappresentano già rapide reazioni all’elaborazionè della configurazione stessa.

Il caso dell’udito è simile. La vibrazione della membrana timpanica e di una serie di ossicini situati nell’orecchio medio può essere segnalata al cervello parallelamente al suono stesso, la cui segnalazione origina nell’orecchio interno a livello della coclea, dove vengono mappate caratteristiche quali la frequenza, il tempo e il timbro.

Probabilmente, il complesso funzionamento dei portali sensoriali contribuisce agli errori che i bambini, ma anche gli adulti, possono commettere in merito alla percezione di un evento: quando, per esempio, riferiscono che un certo oggetto è stato dapprima visto e poi udito, mentre in realtà è accaduto l’opposto. Il fenomeno è noto come « errore di attribuzione della fonte ».

I portali sensoriali così misconosciuti hanno un ruolo essenziale nel definire la prospettiva della mente rispetto al resto del mondo. Qui non sto parlando della singolarità biologica fornita dal proto-sé; mi sto riferendo invece a un effetto che tutti sperimentiamo nella nostra mente: avere una posizione dalla quale osserviamo qualsiasi cosa stia accadendo fuori di essa. Non si tratta di un mero « punto di vista», anche se molto spesso, per la maggior parte degli esseri umani vedenti, il senso della vista domina l’attività della mente. Noi però abbiamo una posizione anche rispetto ai suoni presentì nel mondo, agli oggetti che tocchiamo, e perfino a quelli che percepiamo nel nostro corpo (ancora una volta, il gomito indolenzito; o i piedi, méntre camminiamo sulla sabbia).

Nessuno di noi pensa erroneamente di vedere con l’ombelico o di udire con le ascelle (per quanto interessanti possano essere queste possibilità). I portali sensoriali nei pressi dei quali sono raccolti i dati necessari alla costruzione di immagini forniscono alla mente la posizione dell’organismo relativamente a un oggetto. Essa è ricavata servendosi dell’insieme delle regioni corporee intorno alle quali hanno luogo le percezioni e viene meno solo in condizioni anormali (esperienze extracorporee) che possono derivare da patologie cerebrali, traumi psicologici o manipolazioni sperimentali eseguite con l’ausilio di dispositivi di realtà virtuale.9

Io immagino che la prospettiva dell’organismo si appoggi a una molteplicità di fonti. La: vista, il suono, l’equilibrio spaziale, il gusto, l’olfatto dipendono tutti da portali sensoriali non molto distanti l’uno dall’altro, tutti localizzati nella testa. Possiamo pensare alla testa come a un dispositivo di sorveglianza multidimensionale, pronto ad assorbire dati sul mondo. Il tatto, con la sua natura « a tutto campo », ha un portale sensoriale più ampio; la prospettiva a esso legata indica tuttavia in modo inequi-vocabile il singolo organismo quale supervisore, e identifica un luogo specifico sulla sua superficie. La stessa prospettiva a tutto campo vale per la percezione del nostro movimento, che è in relazione con tutto il corpo ma origina sempre nel singolo organismo.

Per quanto riguarda la corteccia cerebrale, la maggior parte dei dati provenienti dal portale sensoriale deve arrivare al sistema somatosensoriale, con una preferenza per la SI e la SII rispetto all’insula. Nel caso della visione, i dati del portale sensoriale sono trasmessi anche ai cosiddetti campi visivi frontali, localizzati nell’area 8 di Brodmann, nella parte superiore e laterale della corteccia frontale. Ancora una volta queste regioni cerebrali, che da un punto di vista geografico sono separate, devono essere unite sul piano funzionale da una sorta di meccanismo integratore.

Occorre a questo punto fare un’ultima nota sulla situazione eccezionale delle cortecce somatosensoriali: esse trasmettono segnali provenienti dal mondo esterno (le mappe tattili sono l’esempio principale), dal corpo (come nel caso dell’enterocezione) e dai portali sensoriali. Quest’ultima componente appartiene legittimamente alla struttura dell’organismo, e pertanto al proto-sé.

Vi è allora un notevole contrasto fra due insiemi di configurazioni. Da un lato, vi è l’infinita varietà di quelle che descrivono gli oggetti convenzionali (alcuni dei quali - come gli oggetti visti, uditi, gustati e annusati -sono esterni al corpo; mentre altri sono effettivamente parti di esso, come le articolazioni, o aree circoscritte di cute). Dall’altro, vi è l’infinita identità della gamma ristretta delle configurazioni riguardanti l’interno del corpo e la sua regolazione rigidamente controllata. Vi è una differenza fondamentale e ineludibile fra l’aspetto rigorosamente controllato dei processi vitali all’interno del nostro organismo e tutte le cose e gli eventi immaginabili che si trovano e hanno luogo all’esterno di esso o nelle parti restanti del corpo. Questa differenza è indispensabile per comprendere il fondamento biologico dei processi del sé.

 

 

Questo stesso contrasto fra varietà e identità regge anche a livello dei portali sensoriali. Non è necessario che i cambiamenti a cui essi vanno incontro, dallo stato basale a quello associato al guardare e al vedere, siano estesi, anche se possono esserlo. Semplicemente, essi devono significare che ha avuto luogo un coinvolgimento fra l’organismo e l’oggetto. Non occorre che trasmettano nulla sull’oggetto coinvolto.

In breve, la combinazione di milieu interno, struttura viscerale e stato basale dei portali sensoriali (diretti verso l’esterno) fornisce un’isola di stabilità in un mare di movimento. Essa preserva una relativa coerenza dello stato funzionale, in un ambiente di processi dinamici le cui variazioni sono decisamente pronunciate. Immaginiamo una gran folla in movimento lungo una strada; un piccolo gruppo al centro della calca avanza in formazione costante e coesa, mentre il resto della folla si sposta in modo scoordinato - in moto browniano -, così che alcuni elementi rimangono indietro rispetto agli altri, altri sorpassano il gruppo centrale, eccetera.

All’impalcatura fornita dalla relativa invarianza del milieu interno va aggiunto un altro fatto, e cioè che il corpo rimane inseparabilmente legato al cervello, in qualsiasi istante. Questo legame è alla base della genesi dei sentimenti primordiali e del rapporto esclusivo esistente fra il corpo, come oggetto, e il cervello che lo rappresenta. Quando creiamo mappe di oggetti ed eventi presenti nel mondo esterno, quegli oggetti e quegli eventi rimangono nel mondo esterno. Quando mappiamo gli oggetti e gli eventi del nostro corpo, essi sono all'interno dell’organismo e non vanno da nessun’altra parte. Tali oggetti agiscono sul cervello ma possono a loro volta essere agiti in qualsiasi momento, dando vita a un circuito risonante che realizza qualcosa di simile a una fusione mente-corpo. Essi costituiscono un substrato animato che fornisce un contesto obbligato a tutti gli altri contenuti della mente. Il proto-sé non è una mera raccolta di mappe del corpo paragonabile alla bella collezione di immagini raffiguranti dipinti espressionisti astratti che mi porto nel cervello. Il proto-sé è un insieme di mappe che rimane connesso interattivamente con la sua fonte: una radice profonda che non può essere alienata. Purtroppo, le immagini dei dipinti espressionisti astratti che io prediligo e che mi porto nel cervello non sono fisica-mente connesse alle rispettive fonti: mi piacerebbe che lo fossero, ma esse esistono soltanto nel mio cervello.

 

 

Infine, devo osservare che il proto-sé non va confuso con un omuncolo, proprio come non è omuncolare il sé che risulta dalla sua modificazione. Il concetto tradizionale di omuncolo corrisponde a una piccola persona insediata nel cervello, una persona saggia e onnisciente in grado di rispondere a domande riguardanti dò che sta accadendo nella mente e di fornire delle interpretazioni in merito. Il problema dell’omuncolo, un problema ben identificato, sta nel suo innescare una regressione all’infinito: la piccola persona la cui conoscenza ci renderebbe coscienti deve avere, al proprio interno, un’altra piccola persona in grado di fornirle la conoscenza necessaria, e così via, all’infinito. Non funziona. La conoscenza che rende cosciente la nostra mente deve essere costruita secondo una modalità bottom-up, dal basso verso l’alto. Nulla potrebbe essere più lontano dall’idea dell’omuncolo del concetto di proto-sé presentato in questo libro. Il proto-sé è una piattaforma ragionevolmente stabile, e pertanto una fonte di continuità. Noi usiamo la piattaforma per codificare i cambiamenti causati dal fatto che un organismo interagisce con il suo ambiente (per esempio quando guarda e afferra un oggetto), o per codificare la modificazione di struttura o di stato dell’organismo (per esempio quando subisce una lesione, o la glicemia si abbassa troppo). I cambiamenti vengono registrati rispetto allo stato attuale del proto-sé, e la perturbazione innesca eventi fisiologici successivi; il proto-sé, tuttavia, non contiene informazioni, a parte quelle presenti nelle sue mappe. Il proto-sé non è un saggio insediato a Delfi che risponde quando gli chiediamo chi siamo.

 

 

COSTRUIRE IL SÉ NUCLEARE

Quando si pensa a una strategia per costruire il sé è giusto iniziare dai requisiti del sé nucleare. Il cervello deve introdurre nella mente qualcosa che non era presente prima: precisamente, un protagonista. Una volta che esso è disponibile in mezzo agli altri contenuti della mente, e che è legato in modo coerente ad alcuni di quelli attuali, la soggettività comincia a essere parte del processo. Dapprima dobbiamo concentrarci sulla soglia il cui superamento dà luogo al protagonista, il punto in cui, per così dire, gli indispensabili elementi di conoscenza coagulano, producendo la soggettività.

 

 

Una volta che disponiamo di un’isola unificata di stabilità relativa corrispondente a una parte dell’organismo, il sé non potrebbe emergere da essa in un colpo solo? In caso affermativo, l’anatomia e la fisiologia delle regioni cerebrali alla base del proto-sé racconterebbero gran parte della storia su come viene costruito il sé: esso scaturirebbe dalla capacità del cervello di accumulare e integrare conoscenze sugli aspetti più stabili dell’organismo, punto e basta. Il sé equivarrebbe alla rappresentazione della vita all’interno del cervello, un’esperienza sentita e disadorna, nuda a cruda, non connessa ad altro se non al proprio corpo. Il sé consisterebbe dei sentimenti primordiali che il proto-sé, nel suo stato nativo, produce spontaneamente e incessantemente, istante per istante.

Quando si tratta della vita mentale complessa che stiamo sperimentando in questo stesso istante, tuttavia, il proto-sé e i sentimenti primordiali non bastano a spiegare il fenomeno del sé che stiamo generando. Il proto-sé e i suoi sentimenti primordiali sono le probabili fonda-menta del me materiale e, con ogni probabilità, in molte specie viventi sono una manifestazione importante - il picco - della coscienza. A noi però occorre un qualche processo intermedio collocato fra il proto-sé e i suoi sentimenti primordiali da un lato, e il sé autobiografico che ci conferisce il senso di personalità e identità dall’altro. Affinché il proto-sé diventi un sé nel vero senso della parola, e cioè un sé nucleare, occorre che nel suo stesso stato cambi qualcosa di essenziale. Tanto per cominciare, il profilo mentale del proto-sé deve-essere innalzato e fatto emergere. Inoltre, esso deve connettersi agli eventi nei quali è coinvolto. All’interno della narrazione del momento, deve assumere un ruolo da protagonista. A mio avviso, il cambiamento essenziale del proto-sé deriva dal suo coinvolgimento istante per istante, innescato da qualsiasi oggetto venga percepito. Il coinvolgimento ha luogo in stretta prossimità temporale con l’elaborazione sensoriale dell’oggetto. Ogniqualvolta l’organismo incontra un oggetto - qualsiasi oggetto -, il proto-sé ne risulta modificato: per mappare un oggetto, infatti, il cervello deve eseguire un appropriato adeguamento del corpo, e i risultati di quell’adeguamento, come pure i contenuti dell’immagine mappata, vengono segnalati al proto-sé.

I cambiamenti del proto-sé danno inizio alla momentanea creazione del sé nucleare e innescano una catena di eventi, il primo dei quali è una trasformazione del sentimento primordiale che dà luogo a una « sensazione di conoscere l’oggetto», che differenzia quest’ultimo dagli altri presenti in quello stesso momento. Il secondo evento della catena è una conseguenza di quella prima

 

fig. 8.1

Figura 8.1 I nuclei del tronco encefalico impegnati nella genesi del sé nucleare. Come mostrato nella figura 4.1 a p. 130, diversi nuclei del tronco encefalico cooperano per assicurare l’omeostasi. I nuclei coinvolti, tuttavia, proiettano ad altri gruppi di nuclei del tronco encefalico (indicati in questa figura come altri nuclei del tronco encefalico). Questi altri nuclei sono raggruppati in famiglie funzionali: i classici nuclei della formazione reticolare, come il nucleo pontis oralis e il nucleo cuneiforme, i quali influenzano la corteccia cerebrale attraverso i nuclei intralaminari del talamo; i nuclei monoaminergici, che liberano direttamente sostanze quali la noradrenalina, la serotonina e la dopamina in regioni diffuse della corteccia cerebrale; e i nuclei colinergici, che liberano acetilcolina.

Nell’ipotesi avanzata qui, i nuclei omeostatici generano la componente del sé nucleare costituita dai «sentimenti di conoscenza ». A sua volta, l’attività neurale alla base di quel processo recluta gli altri nuclei del tronco encefalico, non coinvolti nell'omeostasi, per generare la «prominenza» dell’oggetto.

Le abbreviazioni sono le stesse della figura 4.1.

sensazione di conoscere. È la generazione della « prominenza» dell’oggetto che coinvolge l’organismo: un processo generalmente incluso nel termine attenzione, un attirare le risorse di elaborazione verso un oggetto particolare più che verso altri. Il sé nucleare, allora, è creato legando il proto-sé modificato all’oggetto che ha causato la modificazione, un oggetto che ora è stato contrassegnato dalla sensazione del conoscere e dal sentimento, e messo in risalto dall’attenzione.

Alla fine di questo ciclo, la mente contiene immagini riguardanti una sequenza, semplice e molto comune, di eventi: un oggetto ha coinvolto il corpo nel momento in cui è stato guardato, toccato o udito da una specifica prospettiva; il coinvolgimento ha indotto un cambiamento nel corpo; la presenza dell’oggetto è stata sentita; l’oggetto è stato reso prominente.

La narrazione non verbale di, questi eventi in continuo svolgimento ritrae nella mente, in modo spontaneo, il fatto che vi è un protagonista al quale stanno accadendo certi eventi, e che il protagonista è il me materiale. Nella narrazione non verbale il ritratto crea e rivela simultaneamente il protagonista, collega a esso le azioni prodotte dall’organismo e, insieme ai sentimenti generati dall’essere coinvolto con l’oggetto, induce un senso di possesso.

Quello che viene aggiunto al semplice processo della mente, generando così una mente cosciente, è una serie di immagini, e precisamente: un’immagine dell’organismo (fornita dal sostituto del proto-sé modificato); l'immagine di una risposta emozionale legata all’oggetto (ovvero, un sentimento); e l’immagine dell’oggetto causativo messo temporaneamente in risalto. Il sé affiora nella mente sotto forma di immagini che narrano senza soluzione di continuità la storia di questi coinvolgimenti. Le immagini del proto-sé modificato e della sensazione di conoscere non devono nemmeno essere particolarmente intense. Per fornire una connessione fra l’oggetto e l’organismo basta che esse siano presenti nella mente, anche se in modo sottile, poco più che suggerimenti. Dopo tutto, affinché il processo sia adattativo, ciò che più conta è l’oggetto.

Io considero questa narrazione senza parole come una descrizione di quello che sta accadendo nella vita e nel cervello, ma non ancora come un’interpretazione. È piuttosto una descrizione non sollecitata degli eventi, in cui il cervello indulge a rispondere a domande che nessuno ha posto. Michael Gazzaniga ha proposto l’idea di un «interprete», come un modo di spiegare la genesi della coscienza. Molto ragionevolmente, l’ha poi messa in relazione con l’apparato dell’emisfero sinistro e con i processi del linguaggio che vi hanno luogo. A me la sua idea piace moltissimo (in effetti, ha una netta aura di verità) , ma credo che si applichi pienamente solo a livello del sé autobiografico e non a quello del sé nucleare.10

Nei cervelli generosamente dotati di memoria, linguaggio e ragionamento, le narrazioni caratterizzate da questa stessa semplice origine e da questo stesso semplice profilo sono arricchite e messe in condizione di presentare ancor più conoscenza, generando così un protagonista ben definito, un sé autobiografico. Diventa possibile aggiungere inferenze e produrre vere e proprie interpretazioni delle azioni in corso. Nondimeno, come vedremo nel prossimo capitolo, il sé autobiografico può essere costruito solo per mezzo del meccanismo del sé nucleare appena descritto. Tale meccanismo, ancorato nel proto-sé e nei suoi sentimenti primordiali, è fondamentale ai fini della produzione della mente cosciente. I complessi dispositivi necessari per estendere il processo al livello del sé autobiografico dipendono dal normale funzionamento del meccanismo del sé nucleare.

Il dispositivo per stabilire la connessione fra sé e oggetto si applica soltanto agli oggetti effettivamente percepiti e non a quelli rievocati? No: quando apprendiamo qualcosa circa un oggetto, registriamo non solo il suo aspetto ma anche le nostre interazioni con esso (i movimenti degli occhi, della testa e della mano, eccetera) ; pertanto, rievocare un oggetto comporta il richiamo di un pacchetto composito di interazioni motorie memorizzate. Come nel caso di quelle reali, le interazioni motorie rievocate o immaginate possono modificare istantaneamente il proto-sé. Se questa idea si rivelasse corretta, spiegherebbe perché non perdiamo conoscenza quando fantastichiamo in una stanza silenziosa a occhi chiusi (un pensiero, credo, alquanto confortante).

In conclusione, la produzione di pulsazioni del sé nucleare relative a un gran numero di oggetti che interagiscono con l’organismo garantisce la produzione di sentimenti legati all’oggetto. A loro volta, questi sentimenti costruiscono un robusto processo del sé che contribuisce al mantenimento dello stato di veglia. Le pulsazioni del sé nucleare conferiscono inoltre diverse sfumature di valore alle immagini dell’oggetto causativo, mettendolo così in una posizione di maggiore o minore prominenza. Questo differenziamento delle immagini presenti nel flusso organizza il paesaggio della mente, plasmandolo in relazione alle esigenze e agli obiettivi dell’organismo.

 

 

LO STATO DEL SÉ NUCLEARE

In che modo il cervello potrebbe realizzare lo stato del sé nucleare? La ricerca ci porta a considerare dapprima processi abbastanza locali, che coinvolgono un numero limitato di regioni cerebrali, e poi processi diffusi in tutto il cervello, che coinvolgono molte regioni simultaneamente. Da un punto di vista neurale, i passaggi legati al proto-sé non sono difficili da concepire. La componente enterocettiva del proto-sé è localizzata nel tronco encefalico superiore e nell’insula; la componente dei portali sensoriali è localizzata nelle classiche cortecce somatosensoriali e nei campi oculari frontali.

Affinché il sé nucleare possa emergere, lo status di alcune di queste componenti deve cambiare. Abbiamo visto che, quando un oggetto percepito scatena una reazione emozionale e altera le mappe master enterocettive, ne segue una modificazione del proto-sé che altera i sentimenti primordiali. Allo stesso modo, le componenti dei portali sensoriali del proto-sé si modificano ogni, volta che un oggetto coinvolge un sistema percettivo. Di conseguenza, le regioni implicate nella creazione di immagini del corpo sono inevitabilmente modificate a livello dei siti che generano il proto-sé: tronco encefalico, corteccia dell’insula e cortecce somatosensoriali. Questi diversi eventi generano microsequenze di immagini che vengono introdotte nel processo della mente (con questo intendo che sono introdotte nello spazio di lavoro delle immagini, all’interno delle cortecce sensoriali di ordine inferiore e di regioni selezionate del tronco encefalico, più specificamente quelle dove vengono generati e modificati gli stati del sentire). Le microsequenze delle immagini si succedono, irregolari ma affidabili come i battiti di un polso, fintanto che continuano a verificarsi degli eventi e che il livello di veglia è mantenuto al di sopra della soglia.

Fino a questo punto, nei casi più semplici probabilmente lo stato del sé nucleare non ha alcun bisogno di un dispositivo di coordinamento centrale né di un unico schermo sul quale proiettare le immagini. Le schegge (le immagini) vanno dove vanno (le regioni che creano le immagini) ed entrano nel flusso della mente nei tempi e nella sequenza appropriati.

Affinché la costruzione dello stato del sé sia completa, però, il proto-sé modificato deve essere messo in connessione con le immagini dell’oggetto causativo. Come può avvenire questo? E in che modo l’insieme di questi gruppi separati di immagini arriva a essere organizzato così

 

fig. 8.2

Figura 8.2 Schema dei meccanismi del sé nucleare. Lo stato del sé nucleare consta di più componenti: le principali sono i sentimenti di conoscenza e la prominenza dell’oggetto. Altre importanti componenti sono la prospettiva e il senso di proprietà e azione.

da costituire una scena coerente e pertanto una pulsazione matura del sé nucleare?

Anche qui, quando l’oggetto causativo comincia a essere elaborato e iniziano ad aver luogo i cambiamenti del proto-sé, è probabile che abbia un ruolo la sincronizzazione. Questi passaggi si verificano in stretta prossimità temporale, nella forma di una sequenza narrativa imposta dagli accadimenti in tempo reale. Il primo livello della connessione fra il proto-sé modificato e l’oggetto emergerebbe spontaneamente dalla sequenza temporale con cui le rispettive immagini sono generate e incorporate nel corteo della mente. In breve, il proto-sé deve essere in servizio: abbastanza sveglio da produrre, a partire dal suo dialogo con il corpo, la sensazione primordiale di esistenza. Poi l’elaborazione dell’oggetto deve modificare i vari aspetti del proto-sé e questi eventi devono essere messi in reciproca connessione.

Per creare la narrazione coerente che definisce il proto-sé potrebbero essere necessari dispositivi di coordinamento neurale? La risposta dipende da quanto è complessa la scena e dal fatto che essa coinvolga o meno molteplici oggetti. Quando effettivamente gli oggetti sono numerosi, anche se la complessità non si avvicina al livello che considereremo nel prossimo capitolo a proposito del sé autobiografico, io credo che senz’altro per raggiungere la coerenza occorrano dispositivi di coordinamento. A livello subcorticale vi sono buoni candidati per ricoprire quel ruolo.

Il primo di essi è il collicolo superiore. La sua candidatura susciterà qualche sorriso, sebbene le credenziali di questo dispositivo ben collaudato non possano essere messe in discussione. Per le ragioni cui ho accennato nel capitolo 3, gli strati profondi del collicolo superiore sono adatti a questo ruolo: offrendo la possibilità di sovrapporre immagini di diversi aspetti del mondo interno ed esterno, essi sono un modello di quello che infine sarebbe diventato il cervello capace di creare la mente e il sé.11 Le limitazioni, tuttavia, sono evidenti. Quando si arriva ai livelli di complessità del sé autobiografico, non possiamo aspettarci che i collicoli siano i principali coordinatori delle immagini corticali.

Il secondo candidato per il ruolo di coordinatore è il talamo, in particolare i suoi nuclei associativi, che si trovano in una posizione ideale per stabilire legami funzionali fra scenari distinti di attività corticale.

 

 

VISITA GUIDATA NEL CERVELLO INTENTO A COSTRUIRE UNA MENTE COSCIENTE

Immaginiamo il seguente scenario: sto osservando alcuni pellicani, la mattina presto, mentre nutrono i loro piccoli. Volano eleganti sull’oceano, a volte sfiorando la superficie dell’acqua, a volte librandosi più in alto. Quando individuano un pesce, improvvisamente si tuffano verso la superficie dell’oceano, tenendo il becco in assetto di atterraggio come un Concorde, e le ali tirate indietro in una splendida forma a delta. Scompaiono in acqua per riemergerne un secondo dopo, trionfanti, con un pesce.

I miei occhi sono impegnati a seguire i pellicani; mentre gli uccelli si muovono, più o meno lontani da me, i miei cristallini modificano la distanza focale, le pupille si adeguano alle variazioni di luce e i muscoli oculari si danno da fare per seguire i rapidi movimenti degli uccelli; il collo contribuisce con regolazioni appropriate, e la mia curiosità e il mio interesse sono ricompensati dall’osservazione di un rituale così straordinario; mi sto proprio godendo lo spettacolo.

Quale conseguenza di tutta questa fremente attività, nello scenario reale come nel cervello, alla mia corteccia visiva arrivano segnali appena approntati dalle mappe retiniche, che localizzano i pellicani e identificano nel loro aspetto l’oggetto da conoscere. Viene così creata una profusione di immagini in movimento. Su tracce parallele, i segnali sono elaborati in diverse regioni cerebrali: nei campi oculari frontali (area 8, interessata ai movimenti oculari, ma non alle immagini visive per sé); nella corteccia somatosensoriale laterale (che traccia l’attività muscolare della testa, del collo e della faccia); nelle strutture del tronco encefalico, del prosencefalo basale, dei gangli basali e delle cortecce dell’insula implicate nell’emozione (strutture le cui attività combinate contribuiscono a generare i miei sentimenti piacevoli nei confronti della scena); nei collicoli superiori (le cui mappe stanno ricevendo informazioni sulla scena visiva, i movimenti oculari, e lo stato del corpo); e, infine, nei nuclei associativi del talamo, coinvolti in tutto il traffico di segnali che ha luogo nelle regioni della corteccia e del tronco encefalico.

E qual è il risultato di tutti questi cambiamenti? Le mappe che tracciano lo stato dei portali sensoriali e quelle che hanno a che fare con lo stato interno dell’organismo stanno registrando una perturbazione. Una modificazione del sentimento primordiale del proto-sé ora si traduce in diverse sensazioni di conoscenza, relative agli oggetti causativi. Ne consegue che le mappe visive recenti dell’oggetto da conoscere (lo stormo di pellicani intenti alla caccia) sono rese più prominenti rispetto ad altri materiali elaborati dalla mia mente in modo non cosciente. Questi ultimi potrebbero competere per essere trattati a livello cosciente, ma non la spunterebbero: per una molteplicità di ragioni, infatti, i pellicani sono estremamente interessanti per me, il che significa che hanno un valore. I nuclei legati al sistema della ricompensa in regioni quali l’area tegmentale ventrale del tronco encefalico, il nucleus accumbens e i gangli basali eseguono lo speciale trattamento delle immagini dei pellicani liberando selettivamente alcuni neuromodulatori nelle aree che creano le immagini. Da questi sentimenti di conoscenza emerge una sensazione di possesso delle immagini, come-pure un senso di azione. Allo stesso tempo, i cambiamenti che hanno luogo nei portali sensoriali hanno collocato l’oggetto da conoscere in una prospettiva ben definita rispetto a me.12

Da questa mappa cerebrale su scala globale, gli stati del sé nucleare emergono come pulsazioni. Improvvisamente, però, squilla il telefono e l’incantesimo si rompe. La mia testa e i miei occhi si spostano con riluttanza, ma inesorabilmente, verso il ricevitore. Mi alzo. E tutto il ciclo di costruzione della mente cosciente si riavvia, questa volta concentrato sul telefono. I pellicani sono scivolati fuori dalla mia vista e dalla mia mente; in scena, adesso, è entrato il telefono.