La tragedia
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Il timore di fallire nelle nostre imprese non sarebbe forse così grande se non sapessimo con quanta durezza, spesso, gli altri ci giudicano. La paura delle conseguenze materiali dell’insuccesso si somma alla paura di essere bollati, e con una certa facilità, come «perdenti». È così che si designa, infatti, chi è stato sconfitto e ha perso il diritto di godere della solidarietà altrui.
Tanto impietoso è il tono con cui si parla di uomini distrutti dalla vita che, se la vicenda dei protagonisti di parecchi capolavori della letteratura venisse giudicata con lo stesso metro, personaggi come Edipo, Antigone, Re Lear, Otello, Emma Bovary, Anna Karenina, Hedda Gabler o Tess dei D’Urberville farebbero una ben magra figura. Ancor peggio sarebbe se le loro storie venissero date in pasto alla stampa:
Otello: |
«Immigrato folle di gelosia uccide |
Madame Bovary: |
«Adultera scialacquatrice si uccide |
Edipo re: |
«Fa sesso con la madre e diventa cieco» |
Se tutto questo ci sembra assurdo è perché siamo abituati a considerare certi personaggi come rappresentanti di un’umanità dalla grande complessità psicologica e degni d’essere trattati con rispetto, e non certo con quell’atteggiamento provocatorio e d’accusa che i giornali spesso assumono.
In realtà, questi personaggi non hanno nulla che li renda particolarmente meritevoli d’attenzione e di stima: il fatto che i perdenti famosi della letteratura ci appaiano come figure di grande nobiltà non ha nulla a che vedere con le loro qualità intrinseche ma è strettamente legato al modo con cui i loro creatori ci inducono a considerarli.
C’è, in particolare, una forma d’arte che sin dall’inizio si è fatta portavoce dei grandi fallimenti esistenziali e che, senza mai ricorrere alla derisione né assolvere gli uomini dalle responsabilità delle loro azioni, ha saputo suscitare nei confronti di quanti sono stati travolti da una catastrofe – statisti caduti in disgrazia, omicidi, bancarottieri, persone dall’affettività instabile – quella compassione a cui ogni essere umano avrebbe diritto.
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La tragedia, nata nei teatri greci del VI secolo a.C., rappresentava le vicissitudini di un personaggio, di solito di nobili origini, come un re o un guerriero, che, da un’esistenza di prosperità e di fama, cadeva in disgrazia e si copriva di vergogna dopo aver commesso un grave errore. Le modalità stesse di rappresentazione della vicenda impedivano però al pubblico di biasimare il protagonista per ciò che gli era successo e lo inducevano a riflettere sul fatto che ogni uomo si sarebbe potuto rovinare la vita se solo si fosse ritrovato in una circostanza analoga a quella del personaggio in questione. In altre parole, se la tragedia infondeva negli spettatori un senso d’afflizione per la difficoltà di vivere onestamente, insegnava a essere comprensivi nei confronti di chi non ci era riuscito.
Se i quotidiani, con i loro racconti di depravazione, di follia e di fallimenti si collocano a un’estremità dello spettro della nostra capacità di comprensione, la tragedia si pone all’estremità opposta e tenta di creare un collegamento tra la colpa e l’innocenza; sfida la concezione comune di responsabilità tracciando un quadro psicologicamente più sfumato e rispettoso di come un uomo si possa disonorare concedendogli, al tempo stesso, il diritto di essere ascoltato.
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Nella Poetica (ca. 350 a.C.), Aristotele individuava gli elementi essenziali della tragedia nel personaggio principale, nell’azione, che doveva svolgersi in un arco temporale relativamente ridotto, e, ovviamente, nel fatto che «il mutamento della sorte del protagonista» doveva portarlo «non dall’infelicità alla felicità», ma «dalla felicità all’infelicità».
Tuttavia, c’erano altri due aspetti ben più significativi. L’eroe tragico non doveva essere né particolarmente buono né particolarmente cattivo, bensì un uomo comune sotto il profilo etico, un uomo cui non mancassero qualità positive e difetti, come l’orgoglio, la rabbia o l’impulsività. Questo personaggio doveva quindi commettere uno sbaglio clamoroso non per una malvagità connaturata, ma per quella che Aristotele definiva hamartía, ossia un errore di giudizio, una sorta di cecità temporanea, una svista a livello pratico o emozionale. Da ciò derivava la peripéteia, o rivolgimento della sorte, durante la quale l’eroe perdeva tutto ciò che gli era caro e finiva quasi sempre per pagare la sua colpa con la vita.
La rappresentazione suscitava naturalmente un senso di pietà per il protagonista e di timore per sé, dal momento che lo spettatore si identificava con il personaggio. La tragedia insegnava dunque a non essere troppo fiduciosi nella nostra capacità di evitare le sciagure della vita e, al tempo stesso, a provare compassione per quanti ne erano stati travolti. Il pubblico doveva lasciare il teatro sapendo di non dover più tenere un atteggiamento di superiorità con i perdenti.
Secondo Aristotele, insomma, la pietà che proviamo per gli insuccessi altrui affonda quasi sempre le radici nella consapevolezza che anche noi, in determinate circostanze, potremmo essere colpiti dalle stesse sventure; sempre che tali circostanze non siano troppo lontane dall’esperienza comune. Così, ci chiediamo come potrebbe un uomo sano di mente contrarre certi matrimoni, giacere con un famigliare, uccidere l’amante in preda a un raptus di gelosia, mentire ai superiori, rubare o lasciare che l’avarizia gli rovini la carriera. Sentendoci protetti da una sorta di barriera che separa la nostra natura e la nostra condizione da quella di altri, giudichiamo dall’alto del nostro scranno lasciando che i sentimenti di tolleranza si trasformino in freddezza e derisione.
La tragedia, tuttavia, ci svela una verità così grave da essere quasi insopportabile: qualunque follia di cui si siano resi colpevoli gli uomini nel corso della storia è attribuibile alla nostra natura. Serbiamo in noi l’intero spettro della condizione umana, con i suoi lati migliori e i suoi lati peggiori; perciò anche noi, nella situazione giusta – o forse sarebbe meglio dire sbagliata – siamo capaci di tutto. Quando viene posto di fronte a una simile verità, lo spettatore scende di buon grado dal suo scranno, si sente più umile e disposto alla compassione, e magari accetta l’idea che anche la sua vita potrebbe andare in pezzi se, incoraggiati dalle circostanze, i lati peggiori del suo carattere prendessero il sopravvento. In tal caso si coprirebbe di vergogna e cadrebbe in disgrazia, proprio come gli sciagurati che recano il marchio a fuoco della stampa.
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L’opera che meglio incarna l’idea aristotelica di tragedia è l’Edipo re di Sofocle, messo in scena per la prima volta ad Atene in occasione delle feste dionisiache nella primavera del 430 a.C.
Edipo, re di Tebe, è amato dal popolo per la sua mitezza e per aver sconfitto la Sfinge, che molti anni prima aveva minacciato la città, impresa questa che gli era valsa il trono. Il re, tuttavia, non è senza macchia: è impetuoso e incline alla collera. In passato, in un accesso d’ira, aveva ucciso un vecchio caparbio che si era rifiutato di cedergli il passo sulla strada per Tebe. Quell’episodio, tuttavia, era stato dimenticato, dato che era stato immediatamente seguito dalla vittoria sulla Sfinge, da un periodo di prosperità e di sicurezza per la città, dal matrimonio di Edipo con la splendida Giocasta, vedova del predecessore, Laio, morto in circostanze oscure proprio durante uno scontro con un giovane sulla strada per Tebe.
L’opera si apre, tuttavia, con una nuova tragedia: una misteriosa pestilenza, per la quale non si conoscono cure, sta decimando la popolazione. Disperati, i sudditi chiedono aiuto alla famiglia reale. Il cognato di Edipo, Creonte, viene inviato a interrogare l’oracolo di Apollo, a Delfi, il quale spiega che la città viene punita per un atto immondo che vi è accaduto. Creonte e gli altri uomini di corte interpretano il responso come un’allusione all’assassinio del vecchio Laio. Edipo, allora, giura di scovare e di punire personalmente l’uccisore, senza pietà.
A tali parole Giocasta si rabbuia, come se le tornasse in mente un’altra, più antica profezia secondo la quale il suo primo marito sarebbe stato ucciso dal figlio. Per evitare la disgrazia, alla nascita del primo bambino, la coppia aveva ordinato che fosse portato su un monte e lasciato morire. Il pastore incaricato del compito, tuttavia, si era impietosito e lo aveva consegnato al re di Corinto. Quando il giovane fu cresciuto, un oracolo aveva rivelato al re e alla regina che il loro figlio avrebbe sposato la madre e ucciso il padre. Intanto Edipo aveva abbandonato la città per viaggiare in tutta la Grecia, ed era infine giunto a Tebe, di cui era diventato sovrano dopo aver ucciso la Sfinge e un vecchio che gli aveva bloccato il passo per strada.
Quando Giocasta capisce cos’era accaduto quel giorno, si ritira nei suoi appartamenti e s’impicca. Edipo la trova appesa a una trave, taglia la corda per deporla a terra e con la spilla di lei si cava gli occhi. Poi abbraccia per l’ultima volta le sue figlie, Ismene e Antigone, troppo piccole per comprendere la sciagura che è caduta sui genitori, e si autocondanna all’esilio, vagabondando per il mondo pieno di vergogna, fino al giorno della sua morte.
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Si potrebbe obiettare che compiere l’errore di uccidere il proprio padre e sposare la propria madre sia un’eventualità piuttosto improbabile, eppure l’enormità dell’hamartía di Edipo non sminuisce l’universalità dell’opera. La vicenda di Edipo ci tocca nel profondo proprio perché rispecchia i lati più sconvolgenti della nostra natura e della nostra condizione: il rischio che uno sbaglio anche lieve possa avere conseguenze gravissime, l’incapacità di capire gli effetti delle nostre azioni, l’erronea convinzione d’essere in grado di gestire il nostro destino, la rapidità con cui tutto quello che abbiamo di più caro può andare perduto, le forze oscure, sconosciute, che Sofocle chiamava «fato», contro cui il debole potere della ragione e della prudenza umane si debbono misurare. Edipo non era senza macchia: aveva creduto di essere sfuggito alle profezie degli oracoli e si era crogiolato pigramente nell’alta stima che i sudditi gli dimostravano. Il suo carattere orgoglioso e irascibile lo aveva indotto a scontrarsi con Laio, e una forma di vigliaccheria gli aveva impedito di collegare l’omicidio dell’anziano re con le profezie che lo riguardavano. L’ipocrisia lo aveva spinto dapprima a ignorare il crimine per tanti anni, e in seguito a biasimare Creonte per averglielo ricordato.
Eppure, malgrado si assuma la responsabilità del suo destino, Edipo non può in alcun modo essere oggetto di una facile condanna: la tragedia certamente lo accusa, ma non gli nega la pietà. Come sosteneva Aristotele, il pubblico lascia il teatro spaventato ma pervaso da un senso di compassione, turbato dal valore universale delle parole pronunciate nella conclusione dal corifeo:
«O cittadini di Tebe, patria mia, guardate, questo Edipo, che conosceva gli enigmi famosi ed era il più valente tra gli uomini, né alcuno tra i cittadini poteva considerarne senza invidia la sorte, a quale frutto di tremenda sciagura è giunto. Onde non si stimi felice nessun mortale guardando al giorno estremo, prima che abbia trascorso il termine di vita senza avere sofferto nulla di doloroso».
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Se la tragedia suscita in noi un interesse per i fallimenti altrui, molto dipende dal fatto che ci invita a riflettere sulle cause di questi fallimenti. Saperne di più è necessario per poter comprendere e perdonare di più. Un’opera teatrale illustra magistralmente i passi, spesso brevissimi e inconsapevoli, che conducono il protagonista alla rovina, oltre a mostrarci l’atroce differenza che a volte separa le intenzioni dai risultati. Difficile, a questo punto, conservare l’atteggiamento indifferente o vendicativo che assumiamo invece quando leggiamo sul giornale la nuda cronaca di un insuccesso umano.
Nell’estate del 1848 molti quotidiani della Normandia pubblicarono un articolo che, con stile alquanto conciso, riferiva la storia di una ventisettenne di nome Delphine Delamare, nata Couturier. La giovane, residente nella cittadina di Ry, non lontana da Rouen, per sfuggire alla monotonia della vita matrimoniale, aveva contratto debiti ingenti per acquistare vestiti e oggetti per la casa del tutto superflui, aveva allacciato una relazione extraconiugale e, sottoposta com’era a pressioni sia emotive sia economiche, si era avvelenata con l’arsenico. Madame Delamare lasciava una bambina di pochi anni e un marito affranto, Eugène Delamare, che aveva studiato medicina a Rouen prima di diventare ufficiale sanitario a Ry, dove godeva della stima dei pazienti e del rispetto della comunità.
Tra i lettori di uno di quei giornali c’era un aspirante romanziere, Gustave Flaubert. La vicenda di Madame Delamare lo colpì fin quasi a ossessionarlo, anche nel corso di un viaggio in Egitto e in Palestina, finché, nel settembre del 1851, Flaubert iniziò a scrivere Madame Bovary, che fu pubblicato sei anni dopo, a Parigi.
Ma quando Madame Delamare, l’adultera di Ry, diventò Madame Bovary, l’adultera di Yonville, molte cose cambiarono. La sua vita cessò di apparire come la storia degna di un racconto morale in cui tutte le cose sono bianche o nere. Sotto forma di cronaca, il caso di Delphine Delamare fu sbandierato dai conservatori di provincia come un esempio dello scarso rispetto in cui ormai i giovani tenevano il matrimonio, della vanità dilagante e della perdita dei valori religiosi. Ma per Flaubert, l’arte è l’antitesi del moralismo grossolano e ci introduce in una dimensione in cui le ragioni del comportamento umano possono essere esplorate in profondità, facendosi beffa di chi crede che il mondo si divida fra santi e peccatori. I lettori di Flaubert capiscono che Emma ha un’idea ingenua dell’amore, e scoprono le origini di questa idea: rivivono l’infanzia della protagonista, gli anni del collegio; la vedono in compagnia del padre, nei lunghi pomeriggi estivi a Tostes, in una cucina in cui riecheggiano i versi dei maiali e dei polli. Sono lì quando sposa l’uomo sbagliato, e sanno quanto egli sia attratto, oltre che dalla bellezza, dalla solitudine della giovane, e come Emma desideri di sfuggire alla sua vita da reclusa, pur non avendo alcuna esperienza di uomini se non quella acquisita dalla lettura dei romanzi sentimentali. Così sono d’accordo con Charles quando si lamenta di Emma, e con Emma, quando si lamenta di Charles. Flaubert sembra quasi divertirsi a eludere le attese del pubblico, che vorrebbe risposte chiare: presenta Emma in una luce positiva e un istante dopo le indirizza un commento ironico. Ma proprio quando il lettore sta per perdere la pazienza, quando ormai la giudica una donna egoista e dedita al piacere, Flaubert lo riconcilia con lei, rivelandogli un particolare commovente della sua sensibilità. Quando Emma ha ormai perso la reputazione agli occhi della comunità ed è stesa nella sua stanza, in attesa che l’arsenico faccia il suo effetto, non ce la sentiamo di giudicarla.
Terminiamo il romanzo di Flaubert in preda al timore e alla tristezza per il modo con cui siamo costretti a vivere prima ancora di capire come farlo, per la scarsa conoscenza che abbiamo di noi stessi e degli altri, per la sproporzione e la gravità delle conseguenze delle nostre azioni, nonché per la crudeltà e l’inflessibilità dei membri più retti della comunità nei confronti dei nostri errori.
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I lettori o gli spettatori di una tragedia dovrebbero sentirsi il più possibile lontani dai toni accusatori di certi titoli giornalistici. Un’opera d’arte, infatti, ci induce ad abbandonare l’ottica semplicistica con cui vengono comunemente considerati fallimenti e sconfitte e a dimostrarci generosi nei confronti della stoltezza e delle trasgressioni, entrambe manifestazioni endemiche della nostra natura.
Se tutti riflettessero sugli insegnamenti impliciti della tragedia, le conseguenze di uno sbaglio non sarebbero più fardelli tanto onerosi da portare.