Tre nuove teorie ansiogene sul successo

 

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Purtroppo, verso la metà del diciottesimo secolo, cominciarono a diffondersi altre tre teorie, ben più preoccupanti, che via via guadagnarono terreno sino a porre in dubbio quelle precedenti.

La loro origine è forse negli importanti progressi materiali verificatisi nella società; certo è che, almeno sul piano psicologico, hanno reso più difficili da sopportare le posizioni sociali meno favorevoli.

TEORIA N. 1
I ricchi, non i poveri, sono la classe utile

Circa nel lontano 1015 Aelfric, abate di Eynsham, sottolineava che la ricchezza veniva prodotta quasi esclusivamente dai poveri, che si alzavano prima dell’alba, aravano i campi e ne raccoglievano i frutti. Dal momento che svolgevano una mansione di fondamentale importanza, avevano diritto di essere rispettati dai più abbienti. L’abate non fu il solo a celebrare il lavoro manuale: per secoli la teoria economica ortodossa sostenne che le classi produttrici di ricchezza erano quelle lavoratrici, mentre i ricchi, con le loro stravaganze e la loro passione per il lusso, dissipavano le risorse.

E così si continuò a credere sino alla primavera del 1723, quando il medico londinese Bernard de Mandeville pubblicò un trattato economico in forma di apologo, La favola delle api, che contribuì a modificare in modo irreversibile la visione delle classi sociali. Mandeville sostiene infatti, sfidando una storia secolare di teorie economiche, che siano i ricchi il ceto davvero utile perché, spendendo denaro, garantiscono impiego a tutti i ceti inferiori e, di conseguenza, aiutano anche i più deboli a sopravvivere. Senza di loro, i poveri morirebbero molto prima. Con ciò, Mandeville non intende dire che i ricchi siano più buoni, e anzi ne denuncia volentieri l’anima vacua, crudele e volubile: i ricchi nutrono desideri sfrenati, desiderano il plauso generale e non comprendono che la felicità non sta nel benessere materiale. Eppure, secondo lui, perseguire e ottenere grandi ricchezze è molto più utile per la società che svolgere occupazioni pazienti e poco remunerative. Nel giudicare il valore di un uomo, prosegue Mandeville, non bisogna considerarne l’anima, come tendevano a fare i moralisti cristiani, ma l’effetto che costui esercita sugli altri. In base a questo nuovo criterio, chi accumulava denaro nel commercio, nell’industria e nell’agricoltura e ne spendeva gran parte per lussi insensati, come costruire magazzini dove ammassare una quantità di cose inutili o ville di campagna, era senza dubbio più produttivo dei poveri. Si trattava, come suggerisce il sottotitolo dell’opera, di un caso di «vizi privati e pubbliche virtù»: «Il gentiluomo sensuale, amante del lusso sfrenato, la frivola sgualdrina che inventa una nuova moda ogni settimana, il prodigo libertino e l’erede munifico [aiutano maggiormente i poveri]. Colui il quale arreca la più profonda sofferenza a migliaia dei suoi simili e crea le manifatture più operose è, a torto o a ragione, il migliore amico della società. I commercianti di tessuti, i tappezzieri, i sarti e molti altri morirebbero di fame nell’arco di mezzo anno se lusso e orgoglio venissero banditi all’istante dalla nazione».

Inizialmente, una simile teoria sconvolse l’opinione pubblica – Mandeville non chiedeva di meglio – ma finì col persuadere quasi tutti i grandi economisti e pensatori politici del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Nel saggio Sul perfezionamento nelle arti (1752), Hume riprende la teoria mandevilliana a sostegno delle classi benestanti affermando che è la spesa per i generi voluttuari, non il lavoro dei più umili, a creare ricchezza: «In una nazione in cui non c’è domanda di generi voluttuari, gli uomini rischiano di sprofondare nell’indolenza, perdono ogni gioia di vivere e sono inutili per il popolo, che non può mantenere o sostenere la sua flotta e il suo esercito».

Sette anni dopo, un conterraneo di Hume, Adam Smith, ne sviluppò il pensiero. Nella Teoria dei sentimenti morali (1759) Smith dichiarava che le grandi ricchezze non sempre danno la felicità e lasciano l’uomo «sempre esposto quanto e forse più di prima all’ansia, alla paura, alla sofferenza, alla malattia, al pericolo, alla morte». Ma, dopo aver investito col suo sarcasmo quanti trascorrono la vita intera a comprare «bagattelle e gingilli», si compiace per la loro esistenza. La civiltà nel suo complesso, e il benessere di tutte le società in particolare, dipendevano dalla capacità di accumulare e dal desiderio di esibire la propria ricchezza. «È questo ciò che all’inizio lo ha spinto [l’uomo] a coltivare il terreno, a costruire case, a fondare città e repubbliche, a inventare e perfezionare tutte le scienze e le arti che nobilitano e abbelliscono la vita umana, che ha cambiato del tutto l’intero aspetto del globo, ha trasformato le foreste selvagge in pianure belle e fertili, ha fatto dell’oceano impraticabile e sterile una nuova fonte di sussistenza.»

Le teorie economiche del passato condannavano i ricchi perché si appropriavano di una fetta troppo ampia delle scarse risorse di una nazione. Certo, è comprensibile che un uomo proprietario di «ingenti sostanze» possa essere considerato «un flagello per la società, un mostro, un pesce grosso che divora i più piccoli» ma, osserva Smith, una riserva di ricchezze per definizione limitata, in realtà, non esiste perché può sempre essere aumentata grazie all’impegno e all’ambizione di imprenditori e commercianti. Il pesce grosso, ben lungi dal divorare quelli più piccoli, li aiuta spendendo denaro e garantendo loro un lavoro. I ricchi possono anche essere arroganti e volgari, ma il mercato trasforma i loro vizi in virtù, prosegue Smith in un passo che è forse il più famoso di tutti i testi della teoria economica del capitalismo: «Malgrado il loro naturale egoismo e la loro avidità, malgrado pensino solo al loro interesse, malgrado l’unico fine che si propongano di ottenere dalle fatiche delle migliaia di individui al loro servizio sia la gratificazione dei propri desideri, futili e insaziabili, i ricchi condividono con i poveri il frutto di tutti i loro progressi. Guidati da una mano invisibile, distribuiscono i beni necessari per vivere con la stessa equità che otterremmo se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti gli abitanti e, di conseguenza, senza volerlo, senza saperlo, favoriscono l’interesse della società e forniscono i mezzi atti a garantire la moltiplicazione delle specie».

Nelle società in cui i ceti abbienti hanno sviluppato il commercio e l’industria «si produce una quantità tanto grande di qualsiasi cosa» scrive, «da poter soddisfare l’indolente e opprimente prodigalità dei grandi e, nello stesso tempo, i bisogni dell’artigiano e del contadino».

I benestanti, al di là di ogni aspettativa, videro diffondersi una teoria a loro favorevole. Dopo aver fatto per tanti secoli dalla nascita del cristianesimo la parte dei «cattivi», ora venivano ritratti come eroi: a loro spettava il merito di aiutare le classi inferiori, di dare un tetto ai poveri, di sfamare i bisognosi e, insomma, di prendersi cura dei pesci piccoli che nuotavano nella loro scia. E senza bisogno di sforzarsi: più erano avidi e meglio era.

Va da sé che, agli occhi delle classi umili, questa teoria apparisse molto meno affascinante. Se i ricchi erano gli artefici della prosperità nazionale, i poveri si vedevano relegati a un ruolo subalterno e rischiavano addirittura d’essere accusati di prosciugare le risorse perché erano numerosi e sopravvivevano grazie all’assistenza sociale e alla carità. Già sottoposti a ogni genere di privazioni materiali, adesso subivano l’implicita condanna dei membri del ceto abbiente. Inutile ricordare che in questo momento i poeti non trovarono molto opportuno decantare la nobiltà degli aratori.

TEORIA N. 2
Lo status ha implicazioni morali

Per il pensiero cristiano non ha alcuna importanza l’appartenenza a una certa classe sociale: Gesù è stato il più grande, ma sulla terra faceva il falegname. Pilato era un importante funzionario dell’Impero romano, eppure era un peccatore. Perciò non ha senso credere che le gerarchie rispecchino le differenti qualità degli uomini: un addetto alle pulizie può essere intelligente, gentile, intraprendente, sveglio e creativo, e un uomo di governo può rivelarsi invece altezzoso, degenerato, vizioso, sadico e folle.

L’idea della separazione tra rango e valore era però difficile da contestare in un’epoca in cui i ruoli sociali dipendevano dal lignaggio e dai legami famigliari più che dal talento e in cui, di conseguenza, pullulavano re inetti, nobili incapaci di preservare il loro patrimonio, comandanti che ignoravano le regole del combattimento, contadini e domestiche più abili e intelligenti dei loro padroni.

La situazione rimase immutata fino alla metà del diciottesimo secolo, quando il principio della successione ereditaria entrò in crisi. Era davvero saggio che un padre lasciasse i suoi affari in mano al figlio, indipendentemente dalla sua intelligenza? I figli dei re erano sempre adatti a guidare le sorti di un paese? Per dimostrare la follia di un simile criterio si fecero i confronti con un ambito in cui il sistema meritocratico era in uso da tempo e veniva accettato persino dai sostenitori più accaniti del principio ereditario: la letteratura. Quando si sceglieva un libro, contava il suo valore piuttosto che la cultura o la ricchezza dei genitori dell’autore. Un padre capace e intelligente non era una garanzia di successo per i figli, così come uno indegno non era indice sicuro del loro fallimento. Perché, dunque, non estendere lo stesso metro di giudizio alla sfera politica o economica?

«Sorrido tra me se penso a quanto ridicole e futili diventerebbero la letteratura e tutte le scienze se si trasmettessero come un mestiere di padre in figlio» osserva Thomas Paine nel suo I diritti dell’uomo (1791), «e la stessa cosa vale per i governi. Ereditare una posizione di potere è assurdo, così come pensare che il talento dello scrittore si possa trasmettere da una generazione all’altra. Non so se Omero o Euclide avessero figli ma, evidentemente, se ne hanno avuti e avessero lasciato le loro opere incompiute, essi non le hanno terminate.»

Napoleone condivideva lo sdegno di Paine e fu il primo in Occidente, all’inizio del suo governo, a istituire le «carrières ouvertes aux talents», le carriere aperte al talento. «Ho creato molti dei miei generali de la boue» esclamò con orgoglio a Sant’Elena, poco prima di morire. «Sempre e in chiunque ho saputo riconoscere e premiare il talento.» E aveva ragione di vantarsi: la Francia napoleonica aveva assistito all’abolizione dei privilegi feudali e all’istituzione della Legion d’onore, il primo titolo accessibile ai membri di qualsiasi classe sociale. L’istruzione venne riformata: i lycées furono aperti a tutti e, nel 1794, fu fondata l’École Polytechnique, che garantiva generosi aiuti statali agli allievi più indigenti (nei primi anni di attività metà degli studenti erano figli di contadini e di artigiani). Molti dei più importanti collaboratori di Napoleone erano di umili origini: i prefetti, i funzionari del ministero degli Interni, i consiglieri e i senatori. Come diceva lo stesso Napoleone, i nobili erano «la maledizione della nazione, un mucchio di imbecilli e stupidi ereditieri!»

Le sue convinzioni gli sopravvissero e conquistarono i personaggi più influenti d’Europa e degli Stati Uniti. Ralph Waldo Emerson avrebbe voluto che ognuno «fosse al posto giusto, in modo da avere tanto potere quanto sarebbe stato in grado di usare e detenere». Thomas Carlyle espresse indignazione per il modo con cui i figli dei ricchi sperperavano il denaro mentre quelli dei poveri si vedevano negata persino la possibilità di un’istruzione: «Che dire dell’oziosa aristocrazia, dei proprietari terrieri d’Inghilterra, la cui unica funzione, come è noto, è consumare con grazia gli utili d’Inghilterra e sparare alle pernici d’Inghilterra?» Carlyle si scagliò contro quanti non avevano mai fatto nulla e quanti, senza aver dimostrato il proprio valore in nessun campo, avevano ricevuto gratificazione e privilegi. Il nobile inglese ritratto da Carlyle risiede «in un’abitazione lussuosa, salvaguardato da qualsiasi occupazione, dal bisogno, dal pericolo, dagli stenti. Egli siede sereno, in mezzo agli arnesi di lavoro, ma lascia che siano gli altri a usarli. E costui sarebbe un nobile? I suoi avi hanno lavorato per lui, afferma; o hanno condotto imprese rischiose per lui. È la legge della terra, e si crede sia la legge dell’universo, che a quest’uomo non venga affidata alcuna mansione, se non quella di mangiare le pietanze che gli cucinano e di non buttarsi dalla finestra!»

Come molti riformisti del diciannovesimo secolo, Carlyle non pensava a un mondo in cui non esistessero differenze economiche tra le classi, ma a uno in cui le élite e i più poveri meritassero di vivere nelle condizioni in cui il destino li aveva fatti nascere. «L’Europa ha bisogno di un’aristocrazia vera» afferma «ma deve essere un’aristocrazia capace. Le aristocrazie indegne sono intollerabili.» Anticipava, in sostanza, l’avvento della meritocrazia.

Questa nuova concezione si ritrovò dunque a competere con le altre due: quella egualitaria, che prevedeva l’assoluta equità nella distribuzione dei beni tra gli uomini, e quella ereditaria, che attribuiva automaticamente, per via ereditaria, titoli e cariche (e cacce alle pernici) ai figli dei ricchi. Come gli aristocratici della vecchia guardia, i sostenitori della meritocrazia erano disposti ad accettare una quota significativa di disuguaglianza sociale, ma come gli egualitari radicali, auspicavano, almeno in partenza, l’eguaglianza assoluta per garantire a tutti le stesse opportunità. Se ognuno avesse ricevuto la stessa istruzione e le stesse possibilità di accedere alle varie professioni, le differenze di reddito e di prestigio sarebbero risultate giustificabili alla luce delle capacità dei singoli. I privilegi, in poche parole, sarebbero stati assegnati in proporzione ai meriti, come del resto le privazioni.

La legislazione sociale del diciannovesimo e del ventesimo secolo assistette al trionfo della meritocrazia: pur con ritmi e in misure diversi, i governi occidentali cercarono di garantire a tutti pari opportunità. Si giunse in genere ad accettare che un’adeguata istruzione secondaria e, in molti casi, universitaria, dovesse essere alla portata di tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito. Gli Stati Uniti furono pionieri in questo, dato che nel 1824 istituirono la prima scuola superiore finanziata con i fondi pubblici. Al tempo della Guerra civile esistevano già trecento scuole dello stesso tipo; nel 1890, duemilacinquecento. Negli anni venti fu la volta delle università, che furono riformate in base a criteri meritocratici mediante il sistema SAT (Scholastic Assessment Test). I suoi artefici, il rettore della Harvard University, James Conant, e il responsabile governativo dell’Educational Testing Service, Henry Chauncey, si erano riproposti di mettere a punto un test che valutasse con equità e imparzialità l’intelligenza degli studenti per risolvere un annoso problema del mondo accademico: l’influenza del razzismo e del pregiudizio sulle modalità d’ammissione. Invece di essere giudicati in base al prestigio di cui godeva il padre o al modo di vestire, gli studenti americani venivano ora considerati per il loro vero valore che, per Conant e Chauncey, equivaleva alla capacità di risolvere problemi come:

 

Individuate gli antonimi tra le seguenti quattro parole:

ostinato   fasullo   malleabile   recondito

 

E:

 

Nei seguenti gruppi di parole c’è almeno un termine che ha lo stesso significato del primo?

inoppugnabile   terile   vacuo
nominale   esorbitante   didattico

 

Chi riusciva a risolverli aveva diritto al successo, all’iscrizione al country club e a un impiego in una società di Wall Street. Secondo Conant, il SAT era «un mezzo di intervento sociale che, se usato in modo appropriato, avrebbe potuto significare la salvezza per tutti i cittadini privi di un’adeguata posizione [...] uno strumento per il recupero della flessibilità in omaggio all’ideale americano».

L’ideale americano non implicava, naturalmente, l’eguaglianza, ma solo la concessione, guidata dall’alto e per un breve periodo, di pari opportunità. Se tutti avessero avuto le stesse possibilità di istruirsi a scuola e all’università e di trovare l’antonimo tra le parole elencate nel test, qualsiasi forma di privilegio fosse nata in seguito sarebbe stata accettabile.

Nel 1946, l’anno della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’articolo 26 era diventato quasi una realtà, almeno in molti paesi europei e negli Stati Uniti: «Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito».

Accanto alle riforme didattiche fu varata una legislazione anche nel campo del lavoro. In Gran Bretagna un passo fondamentale era stato compiuto già nel 1870 quando fu indetto un concorso pubblico per accedere agli impieghi statali, da secoli appannaggio esclusivo dei membri squattrinati e tardi d’ingegno delle varie casate nobiliari, con tutte le conseguenze del caso. A metà del diciannovesimo secolo i danni provocati all’Impero britannico da simili incapaci, dediti unicamente allo sfoggio delle belle maniere e alla caccia, erano così gravi che due funzionari governativi, Sir Stafford Northcote e Sir Charles Trevelyan, furono incaricati di trovare un diverso sistema di reclutamento. Dopo aver studiato l’amministrazione statale per un paio di mesi, Trevelyan spiegò in una lettera al «Times» quanto segue: «Senza dubbio, la nostra illustre aristocrazia è sempre stata abituata a utilizzare l’amministrazione statale come mezzo di sostentamento per i parenti disgraziati, come una sorta di orfanotrofio in cui chi non ha la forza di farsi strada in una professione possa trovare la certezza di un impiego a vita, a scapito dell’interesse pubblico».

Settant’anni dopo, in The Lion and the Unicorn, George Orwell denunciava ancora la piaga del nepotismo: in Gran Bretagna c’era bisogno di una rivoluzione, affermava lo scrittore, senza «bandiere rosse e lotte in strada», ma che comportasse «un cambiamento sostanziale», in modo che il potere fosse affidato a chi ne era degno: «Ciò di cui abbiamo bisogno è un rifiuto netto e consapevole, da parte della gente comune, dell’inefficienza, dei privilegi di classe e delle regole del passato. In tutto il corpo nazionale deve diffondersi la volontà di combattere i privilegi, cioè l’idea che un allievo ottuso di una scuola privata sia più adatto a comandare di un meccanico intelligente. Dobbiamo spezzare la morsa dell’oppressione dei ricchi, benché anche tra loro vi siano persone intelligenti e oneste. L’Inghilterra attende ancora di essere plasmata nella sua vera forma».

In tutti i paesi sviluppati sostituire i poco intelligenti con i meritevoli divenne l’aspirazione principale della riforma del mondo del lavoro. Negli Stati Uniti le pari opportunità vennero perseguite con particolare fermezza: nel marzo 1961, a meno di due mesi dalla nomina a presidente, John F. Kennedy istituì il Comitato delle pari opportunità e lo incaricò di porre fine a ogni tipo di discriminazione sul lavoro, nelle strutture governative e nelle aziende private. Venne promulgata tutta una serie di leggi, tra cui l’Equal Pay Act (1963), il Civil Rights Act (1964), l’Equal Employment Opportunity Act (1964), l’Older Americans Act (1965), l’Age Discrimination in Employment Act (1967), l’Equal Credit Opportunity Act (1976), l’Americans with Disabilities Act (1990), grazie alle quali venivano riconosciute a tutti, a prescindere dall’età e dalle condizioni personali e sociali, dal sesso e dal colore della pelle, pari opportunità di successo nella vita.

Pur avanzando lentamente, dalla metà del diciannovesimo secolo, il sistema meritocratico cominciò a influenzare la mentalità comune in particolar modo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Se venivano assegnati posti di lavoro e riconoscimenti dopo colloqui ed esami imparziali, non era più possibile credere, come facevano i pensatori cristiani, che il ruolo occupato da una persona nelle gerarchie della società terrena fosse del tutto indipendente dalle sue qualità morali, né accusare i ricchi e i potenti di aver acquisito il loro status con la corruzione, come sostenevano Rousseau e Marx. Dopo aver cacciato i nobili nullafacenti dall’amministrazione statale e averli sostituiti con giovani brillanti della classe lavoratrice, dopo che il SAT aveva epurato le prestigiose università private della Ivy League dai rampolli ottusi dei plutocrati della East Coast a favore degli studenti più meritevoli provenienti dalle famiglie dei commercianti, era difficile sostenere che lo status fosse solamente frutto di un sistema astutamente manipolato.

La convinzione sempre più radicata che ci fosse un nesso tra merito e posizione terrena conferì anzi al denaro una connotazione morale. Quando la ricchezza veniva trasmessa di generazione in generazione, la virtù dei singoli consisteva spesso, semplicemente, nell’essere nati nella famiglia giusta. Nel mondo della meritocrazia, in cui i lavori prestigiosi e ben remunerati potevano essere conquistati solo grazie all’intelligenza e alle proprie capacità, il denaro divenne invece un buon parametro per giudicare il valore di un uomo. I ricchi non erano solo persone più facoltose: potevano anche essere i migliori.

Di conseguenza, nel diciannovesimo secolo molti pensatori cristiani, soprattutto negli Stati Uniti, cambiarono opinione sul denaro. I protestanti sostenevano che il successo materiale fosse una prova del successo spirituale. Le fortune terrene sono il segno della volontà divina di concederci un posto in paradiso, dice il reverendo Thomas P. Hunt in The Book of Wealth: In Which it is Proved from the Bible that it is the Duty of Every Man to Become Rich, scritto nel 1836, con un gran successo di pubblico. La ricchezza veniva, in sostanza, interpretata come ricompensa divina della nostra santità. Se John D. Rockefeller non si vergognava di dichiarare che il Signore lo aveva reso ricco, nel 1892 William Lawrence, vescovo della Chiesa episcopale del Massachusetts, affermò quanto segue: «Nel lungo periodo la ricchezza va solo all’uomo probo. Noi, come il Salmista, vediamo talvolta prosperare i malvagi, ma solo talvolta. La devozione va di pari passo con la ricchezza».

Con l’affermazione del principio meritocratico le masse videro una concreta possibilità di realizzarsi. Chi era dotato di intelligenza e di talento era finalmente libero di esprimere le proprie capacità in un contesto più o meno egualitario. Per chi avesse voluto migliorare la sua posizione, origini, sesso, razza ed età non erano più d’ostacolo: il meccanismo che distribuiva i riconoscimenti per i meriti individuali aveva finalmente una parvenza di giustizia.

Tuttavia, per chi non godeva dei vantaggi di uno status elevato c’era inevitabilmente il rovescio della medaglia: se dal successo si deduceva il valore di un uomo, altrettanto si poteva dire del fallimento. Nell’era della meritocrazia anche il meccanismo di distribuzione della povertà era mosso da un principio di giustizia: una condizione sociale umile non era più solo deplorevole, ma meritata.

La conquista della ricchezza era una sorta di riconoscimento personale che i nobili del passato, ereditando denaro e proprietà dal padre, non avevano mai sperimentato. Nello stesso tempo, però, la povertà era motivo di vergogna, cosa che i contadini della società medievale, privi di qualsiasi possibilità di riscatto, non avevano mai provato.

Nella nuova era meritocratica capire perché alcuni, pur essendo bravi, intelligenti e capaci, restassero ugualmente poveri, divenne – sia per i diretti interessati sia per tutti gli altri – una questione ancor più scottante e dolorosa.

TEORIA N. 3
I poveri vivono nel peccato e nella corruzione,
e sono tali per la loro insipienza

Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, molti tentarono di risolvere il problema per conto dei poveri. Come sosteneva una certa corrente di pensiero, era chiaro e scientificamente dimostrabile che la miseria fosse il frutto di insipienza e di degenerazione.

Con l’avvento del sistema meritocratico i poveri, che in precedenza erano stati gli «sfortunati» beneficiari della carità dei ricchi mossi dal senso di colpa nei loro confronti, divennero i «falliti», un bersaglio legittimo del disprezzo di quanti, invece, si erano fatti da sé, senza vergognarsi delle loro abitazioni né piangersi addosso.

La distribuzione di povertà e ricchezza si spiegava secondo le regole del darwinismo, secondo il quale tutti gli uomini si trovano inizialmente a dover lottare in condizioni eque per la conquista di risorse scarse come il denaro, il lavoro, la stima altrui. In questa lotta, alcuni hanno la meglio non a causa di indebiti privilegi o della buona sorte, ma perché intrinsecamente migliori di altri. I ricchi non sono superiori dal punto di vista morale, ma per ragioni naturali, cosa che suona non poco inquietante: sono loro i più potenti, i geni, i più forti, le menti più aguzze. Sono loro, in sostanza, le tigri della giungla umana, quelle predestinate dalla biologia a trionfare sulle altre specie. A una simile concezione, del tutto nuova e subito divinizzata, l’intero diciannovesimo secolo s’inchinò. Era la biologia, dunque, a stabilire chi doveva essere ricco e chi povero.

I sostenitori del darwinismo come teoria sociale dicevano inoltre che le sofferenze e le morti precoci tra gli indigenti fossero utili alla società nel suo insieme, e che non bisognava arginarle con gli interventi governativi. I deboli erano errori della natura e dovevano essere lasciati morire prima che si riproducessero minando l’intera specie. Insomma, il mondo degli uomini doveva ispirarsi al regno animale, in cui gli esseri malformati vengono eliminati per selezione naturale. La cosa migliore era lasciar perire i più deboli senza dimostrar loro alcuna carità.

In Social Statics (1851), Herbert Spencer afferma che la biologia stessa respinge il concetto di carità: «Pare difficile lasciare che vedove e orfani lottino per la vita o la morte. Ciononostante, se le si considera non separatamente ma congiuntamente agli interessi dell’umanità intera, queste tristi calamità hanno in sé una profonda carità, la stessa che porta alla morte i bambini di genitori malati [...] Secondo l’ordine naturale delle cose, la società elimina costantemente i membri di salute malferma, gli stolti, i tardi d’ingegno, i titubanti e i privi di fede. Se sono sufficientemente dotati per vivere, vivono, e in tal caso è un bene. Se non lo sono, muoiono, e in tal caso è meglio così».

Le dottrine spenceriane attecchirono facilmente tra i plutocrati che si erano fatti da sé e che controllavano il mondo degli affari e i mezzi di comunicazione. Il darwinismo offriva loro una motivazione scientifica inconfutabile per respingere ciò che spesso suscitava la diffidenza nei loro confronti, oltre a sollevare questioni di natura economica: i sindacati, il marxismo e il socialismo. Nel suo viaggio trionfale del 1882 negli Stati Uniti, Spencer tenne numerosi discorsi agli imprenditori americani adulandoli, definendoli capi branco della giungla umana e rassicurandoli: non c’era bisogno, disse, di dimostrarsi caritatevoli o di sentirsi colpevoli nei confronti dei meno fortunati.

Anche chi non condivideva la teoria sociale del darwinismo fece propria una delle premesse fondamentali di questa dottrina: era inutile, e forse sbagliato, offrire il benessere ai poveri. Se tutti avevano la capacità di raggiungere il successo con le proprie forze, l’assistenzialismo nei confronti delle classi più umili non avrebbe prodotto che fallimenti.

In Self-help (1859) il medico scozzese Samuel Smiles, che aveva in precedenza esortato i giovani dei ceti bassi a porsi obiettivi elevati, a istruirsi e a spendere con parsimonia, si scagliò contro il governo intenzionato ad aiutarli nell’impresa: «Qualsiasi cosa si faccia per aiutare il prossimo lo priva dello stimolo e della necessità di fare da sé. Il valore della legislazione come mezzo per favorire il progresso umano è stato di gran lunga sovrastimato. Nessuna legge, per quanto rigorosa, può rendere operoso l’indolente, previdente lo scialacquatore e sobrio l’ubriaco».

Nonostante il suo spirito filantropico, il magnate americano di origini scozzesi Andrew Carnegie aveva un’idea altrettanto pessimistica del welfare. «Su mille dollari spesi per la cosiddetta beneficenza, novecentocinquanta, sarebbe stato meglio gettarli in mare» osserva nella sua Autobiography (1920). «Ogni vagabondo ubriaco, ogni ozioso fannullone che riceve l’elemosina è un veicolo d’infezione morale per il prossimo. Non giova insegnare all’uomo operoso, impegnato nel suo lavoro, che esiste un modo più facile per soddisfare le proprie necessità. Meno ci facciamo commuovere, meglio è. Fare l’elemosina non aiuta né l’individuo né la razza. Salvo rari casi, quanti sono degni di ricevere assistenza di rado la richiedono. E chi vale realmente qualcosa non lo fa mai.»

Sulla spinta delle polemiche che arroventarono gli ambienti più attivi della società meritocratica si arrivò così a sostenere che la gerarchia sociale rispecchiava rigorosamente le qualità dei singoli individui, di qualsiasi estrazione fossero, e che esistessero già le condizioni perché i buoni prosperassero e i parassiti si estinguessero. Perciò non era strettamente necessario fare beneficenza, ricorrere all’assistenza sociale, adottare misure per ridistribuire il reddito o semplicemente dimostrarsi compassionevoli.

Andrew Carnegie (1835-1919), un industriale che si è fatto da sé, nonché l’uomo più ricco del mondo

Andrew Carnegie (1835-1919), un industriale che si è fatto da sé, nonché l’uomo più ricco del mondo

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Michael Young, L’avvento della meritocrazia (1958):

«Tutti, anche i più umili, oggi sanno di aver avuto ogni possibilità [...] Se si sono guadagnati la fama di idioti, non possono più fingere [...] Che altro possono fare se non riconoscere che la loro infima condizione sociale dipende non dall’essere stati privati, come in passato, di opportunità, ma dall’essere inferiori

3

All’oltraggio dell’essere poveri, il sistema meritocratico aggiungeva ora la vergogna.