La filosofia e
l’invulnerabilità
«I cervelli della moltitudine costituiscono un teatro troppo miserabile, perché possa avervi sede la vera felicità.»
SCHOPENHAUER, Parerga e Paralipomena (1851)
«La natura non mi ha detto: ’Non essere povero’, né tanto meno: ’Sii ricco’, ma mi supplica: ’Sii indipendente’.»
CHAMFORT, Massime (1795)
«Non è il posto nella società che mi rende ricco, ma le mie opinioni; queste, le posso portare con me [...] Solo queste possiedo, e non mi possono essere tolte.»
EPITTETO, Discorsi (ca. 100 d.C.)
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Nella penisola greca, all’inizio del V secolo a.C., viveva una comunità di uomini, molti dei quali barbuti e straordinariamente liberi dalle ansie da status che affliggevano i loro contemporanei. I filosofi non si lasciavano affatto turbare dalle conseguenze psicologiche o materiali di un’umile posizione sociale e conservavano la loro serenità di fronte alle offese, alla disapprovazione e all’indigenza. Quando Socrate vedeva i mucchi d’oro e di gioielli portati in processione nelle strade di Atene, esclamava: «Guardate quante cose ci sono che non desidero». Quando Alessandro Magno arrivò a Corinto, andò da Diogene e lo trovò seduto sotto un albero, vestito di stracci e senza un soldo. Alessandro, l’uomo più potente del mondo, gli chiese se potesse fare qualcosa per aiutarlo e il filosofo gli rispose: «Sì. Ti potresti spostare, mi togli il sole». I soldati del condottiero furono presi dal panico, poiché paventavano un violento attacco d’ira del comandante, ma questi si limitò a ridere e a osservare che, se non fosse stato Alessandro, avrebbe voluto essere Diogene. Quando Antistene venne a sapere che molti ateniesi lo acclamavano, chiese perché, aggiungendo: «Che cos’ho fatto di male?» Sempre Diogene, che aveva la stessa considerazione dell’intelligenza altrui, girava con una lanterna in pieno giorno gridando: «Cerco l’uomo». Un passante, che aveva visto insultare Socrate nella piazza del mercato, gli chiese se non ne fosse turbato. «Perché?» rispose questi. «Pensi che dovrei risentirmi come se avessi ricevuto un calcio da un asino?»
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Questi filosofi non avevano dimenticato la distinzione tra essere buoni ed essere ridicoli, tra successo e fallimento. Semplicemente avevano trovato un modo per risolvere il problema dell’autostima senza passare attraverso il codice tradizionale dell’onore, che poneva un segno di eguaglianza fra ciò che gli altri pensano di noi e l’opinione che dobbiamo avere di noi stessi. Perciò, qualsiasi insulto, motivato o no, doveva necessariamente suscitare in noi un senso di vergogna.
Il meccanismo dell’onore
ATTEGGIAMENTO ALTRUI Sei disonorevole |
↔ |
IMMAGINE DI SÉ Sono disonorevole |
La filosofia ha introdotto una novità nel modo di porsi di fronte alle opinioni del prossimo: si tratta di una specie di scatola in cui dobbiamo infilare tutti i giudizi che sentiamo pronunciare dagli altri, positivi o negativi che siano, perché passino al vaglio, trovino conferma e vengano introdotti nell’io se si dimostrano fondati, oppure ne vengano estromessi senza troppi patemi con una risata o una scrollata di spalle se invece si dimostrano infondati. Questa scatola si chiama «ragione».
Il meccanismo della coscienza intellettiva
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In base alle regole della ragione, una conclusione è vera se – e solo se – deriva da una sequenza logica di proposizioni fondate su premesse valide. I filosofi si riproposero dunque di trovare nella sfera etica, anche se con un certo grado di approssimazione, un equivalente delle certezze oggettive della matematica, che diventava un modello di ragionamento corretto e rigoroso. Secondo loro, grazie alla ragione, la reputazione di un uomo poteva essere definita in base ai criteri dettati dalla coscienza intellettiva invece che essere lasciata in balia dei capricci e dell’emotività della gente. Se da una disamina razionale dei fatti si arrivava alla conclusione di essere stati trattati ingiustamente dalla comunità, l’opinione generale equivaleva alla follia di chi si fosse ostinato a provare che due più due fa cinque.
Nei suoi Ricordi (167 d.C.) l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, avvezzo a destreggiarsi nell’universo mutevole della politica romana, parlava della sua abitudine di passare al vaglio della ragione qualsiasi commento avesse udito sulla sua indole e sulle sue imprese prima di lasciare che questo influenzasse l’immagine che aveva di sé. «[Il decoro] personale non dipende da ciò che pensano gli altri» ribadiva Marco Aurelio, sfidando la cultura tradizionale della vergogna: «Una cosa migliora per il solo fatto di essere lodata? Basta questo perché uno smeraldo non sia più uno smeraldo? E che dire dell’oro, dell’avorio, di un fiore o di una piccola pianta?» Invece di cadere nelle reti dell’adulazione o di chiudersi in sé per l’avvilimento quando veniva insultato, l’imperatore s’imponeva di fare le sue considerazioni in base a ciò che sapeva di essere. «Un uomo mi disprezza? Faccia pure. Io dimostrerò di non aver fatto o di non aver detto nulla di disprezzabile» affermava.
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Non è detto, però, che la condanna o le critiche altrui siano immancabilmente sbagliate. A differenza dei genitori e degli innamorati, che ci apprezzano indipendentemente da cosa facciamo e dai nostri difetti, i filosofi giudicano in base a criteri più rigorosi di quelli che comunemente siamo propensi a adottare. In particolari occasioni la coscienza intellettiva può chiederci di essere più duri con noi stessi di quanto gli altri non siano mai stati. Invece di rifiutarla in blocco, la filosofia sfuma la rigida distinzione fra successo e fallimento e ammette la possibilità che il sistema dominante di valori possa a volte decretare ingiustamente la rovina di alcuni e, forse altrettanto ingiustamente, sancire la rispettabilità di altri. Nel primo caso, aggrapparsi al pensiero che siamo degni di essere amati anche a prescindere dall’opinione altrui è senza dubbio di grande aiuto.
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Analogamente, la filosofia non nega l’utilità di determinate forme d’ansia. Come dimostrano personaggi di successo afflitti da problemi d’insonnia, sono proprio gli ansiosi che ottengono, a volte, i risultati migliori.
Se l’ansia può aiutarci a trovare sicurezza e a sviluppare i nostri talenti, ci sono altri stati d’animo, legati al nostro desiderio di raggiungere certi obiettivi, che invece non ci sono di alcuna utilità. Possiamo desiderare qualcosa o invidiare qualcuno per il possesso di una cosa che in realtà – se anche riuscissimo a ottenerla – non ci renderebbe felici. O ancora, nutrire ambizioni estranee alle nostre esigenze più autentiche. Se incontrollati, questi stati d’animo possono indurci a un’indulgenza eccessiva, a una rabbia sfrenata e all’autodistruzione come alla salute e alla virtù; e siccome il più delle volte, sotto la spinta dei nostri desideri, manchiamo il bersaglio per eccesso o per difetto, i filosofi ci suggeriscono di ricorrere al ragionamento, di chiederci se ciò che vogliamo sia veramente ciò di cui abbiamo bisogno e se ciò che temiamo sia veramente da temere.
Nell’Etica Eudemia (ca. 350 a.C.) Aristotele spiega, attraverso una serie di esempi, come il comportamento umano tenda, se non analizzato, agli estremi e delinea un ideale di aurea mediocrità, d’imperturbabilità e saggezza, che dovremmo perseguire con l’ausilio della ragione:
– |
IDEALE FILOSOFICO |
+ |
Vigliaccheria Avarizia Mancanza di Villania Scontrosità |
Coraggio Generosità Mitezza Arguzia Cordialità |
Avventatezza Dissolutezza Iracondia Buffoneria Servilismo |
E potremmo aggiungere:
Letargia da status |
Ambizione |
Isteria |